Linee Guida FleboLinfologiche del mese di settembre 2000

Linee Guida Diagnostiche e Terapeutiche delle malattie delle vene e dei linfatici

Rapporto basato sull’evidenza a cura del Collegio Italiano di Flebologia
(pubblicate su Acta Phlebologica vol 1 . suppl 1 – settembre 2000)
TASK FORCE
G.B. Agus, C. Allegra, G. Arpaia, G. Botta, A. Cataldi, V. Gasbarro, S. Mancini
con la collaborazione di M. Bartolo jr., G. Belcaro, P. Bonadeo, S. Camilli, M. Georgiev, A. Orsini, F. Stillo, P. Zamboni
PRESENTAZIONE
Prof. Claudio Allegra
Presidente del Collegio Italiano di Flebologia

È con devozione che mi accingo a scrivere la presentazione di queste linee guida sulle malattie venose e linfatiche immaginate e programmate dal Collegio Italiano di Flebologia all’inizio del mio mandato presidenziale. Per noi popoli latini rappresenta il risultato equazionale: approccio clinico -verifica di fattibilità controllata. È il prendere possesso di una metodica per mezzo della quale possiamo comunicare ai Colleghi quello che di meglio e comprovato in campo flebolinfologico oggi esiste. Non è «il verbo», ma solo un insieme di raccomandazioni che scaturiscono dalla ricerca nazionale e internazionale.

Se apparentemente nel concetto di raccomandazione si percepisce la positività del meglio fare come medicina basata sulla evidenza, nella concretezza si addita quanto di non dimostrato e di soggettivo c’è ancora in flebolinfologia. Alla sintesi dello stato dell’arte si associa lo stimolo a future ricerche da eseguire con rigore riproducibilità e affidabilità.

Confrontando queste Linee Guida con altre prodotte da rispettabili gruppi internazionali, ci si accorge che non ci siamo mai discostati nella essenza dalle opinioni comprovate dei Colleghi stranieri: questo ci fa attori professionisti di un testo condiviso universalmente.

Quello che però risulta evidente e differenziante è la messa a punto di argomenti complessi e discussi quale la Compressione e la Scleroterapia.

L’inquadramento di questi argomenti, in cui i popoli latini hanno antiche tradizioni, è stato possibile con una metodica anglosassone che tutto riconduce alla evidenza controllata. Intuito, tradizione, mestiere, artigianato, elementi caratteristici dei popoli del Mediterraneo, divengono suggerimenti per un percorso diagnostico-terapeutico mediato da regole internazionali.

E’ esaltante che questa sintesi scaturisca dal Collegio Italiano di Flebologia che pochi anni fa ha percepito l’esigenza di unire e confederare nel suo seno le maggiori Società Italiane di Flebologia.

Raccomandazione

il vero collante delle Associazioni scientifiche è il messaggio culturale che ha in sé il germe della continuità al di là delle rivendicazioni personali o di gruppo.

PREMESSA
Metodologia e definizione del tipo di raccomandazioni

Nella primavera del 1998 il Collegio Italiano di Flebologia ha fatto partire il lavoro di alcuni gruppi (task force) per l’approntamento di linee-guida nel campo della diagnostica e terapia flebologica e linfologica.

La base metodologica di partenza è data dalla evidence-based medicine (Sackett,1996; Greenhalgh, 1997 ; Liberati, 1997) seguendo lo schema delle rules of evidence> applicate alla letteratura medica per produrre raccomandazioni per il management clinico.

Sono state considerate in particolare le evidenze emerse dai Consensus Statement disponibili in questo campo (Porter 1995; ulcere venose 1991; scleroterapia 1996 e 1997; Circulation 2000, Int task force 1999, tromboembolismo venoso 1997; linfedema 1995) e privilegiate le meta -analisi e gli studi randomizzati esistenti.

Si è cercato di adattare i risultati del lavoro alle caratteristiche operative e culturali del Sistema Sanitario Nazionale italiano nonché alla prolungata storia esperienziale della flebologia europea rispetto a modelli scientifici anglosassoni recenti.

Per tale motivo la definizione del tipo di raccomandazione in gradi A, B e C è stata così intesa:

  • Grado A, raccomandazione basata su grandi studi clinici randomizzati, meta-analisi, assenza di eterogeneicità.
  • Grado B, raccomandazione basata su studi clinici randomizzati anche in piccole popolazioni, meta-analisi anche di studi clinici non randomizzati, possibile eterogeneicità.
  • Grado C, raccomandazione basata su studi osservazionali e sul consenso raggiunto tra i membri autori delle presenti linee-guida.

BIBLIOGRAFIA

  • Sackett D.L. et Al. Evidence-based medicine : how to practice and teach ebm. Churchill-Livingstone , London , 1996.
  • Greenhalgh T. How to read a paper . The basics of evidence – based medicine. BMJ Publ.Group , 1997 (Ediz. Italiana : Infomedica , Pianezza – To, 1998)
  • Liberati A. (a cura di ): La medicina delle prove di efficacia. Potenzialità e limiti della evidence-based medicine .Il Pensiero Scientifico Ed. , Roma,1997
  • Porter J.M., Moneta G.L. and International Consensus Committee on Chronic Venous Disease.:Reporting standards in venous disease. J.Vasc Surg, 1995, 21,635-45.
  • Consensus Paper on venous leg ulcers. Phlebology,1991; 7: 48-58
  • Sclerotherapy for varicose veins : practical Guidelines and sclerotherapy procedures. Handbook of venous disorders . Chapman & Hall , London,1996,337-54.
  • Consensus Conference on sclerotherapy on varicose veins of the lower limbs .Phlebology, 1997; 12: 2-16.
  • Consensus Statement: The investigation of chronic venous insufficiency . Circulation, 2000; in press.
  • International Task Force: The management of chronic venous disorders of the leg: an evidence – based report. Phlebology, 1999, 14 (Suppl.1).
  • Consensus Statement: Prevention of venous thromboembolism. Intern.Angiology, 1997 , 16: 3-38.
  • Consensus Document: The diagnosis and treatment of peripheral lymphedema. Lymphology, 1995; 28: 113-7.

DIAGNOSI E TERAPIA DELLA INSUFFICIENZA VENOSA CRONICA
TASK FORCE: Agus GB, Allegra C, Arpaia G, Botta G, Cataldi A, Gasbarro V, Mancini S

1) DEFINIZIONE

2) EPIDEMIOLOGIA

3) CLASSIFICAZIONI E CATEGORIE (CEAP)

4) DIAGNOSTICA

5) TRATTAMENTO CHIRURGICO

6) SCLEROTERAPIA

7) COMPRESSIONE

8) FARMACOTERAPIA

9) FISIOTERAPIA

10) TERMALISMO

11) TERAPIA DELLE ULCERE VENOSE

12) MALFORMAZIONI VENOSE

13) QUALITA’ DELLA VITA

14) PROFILASSI E TERAPIA DELLA TVP

15) MALATTIE DEI LINFATICI

  1. DEFINIZIONE

L’insufficienza venosa cronica (IVC) è conseguente ad uno scompenso del funzionamento delle vene periferiche.

Il ritorno del sangue verso il cuore in equilibrio con le necessità tissutali, non è piu’ garantito non solo in posizione ortostatica, ma anche clinostatica. L’IVC tuttavia non riguarda unicamente le vene –pervietà e caratteristiche parietali e valvolari (fattori vascolari)-, ma anche ogni causa che alteri il ritorno venoso –pompa muscolare del piede, polpaccio e coscia, alterazioni della motilità articolare e del tessuto connettivo (fattori extravascolari)-.

Si possono distinguere un’insufficienza del sistema venoso superficiale, del sistema venoso profondo, o di entrambi.

La chiave di volta delle manifestazioni soggettive e obiettive dell’IVC è rappresentata dall’ipertensione venosa localizzata o diffusa con ripercussioni emoreologiche sulla macro e microcircolazione l’edema ne costituisce la manifestazione caratteristica, sia sul piano fisiopatologico che clinico.

Il processo patologico all’origine dell’IVC – acquisito o congenito (angiodisplasie; insufficienza valvolare o agenesia) – può comportare quadri funzionali od organici, questi ultimi di gran lunga piu’ frequenti oltre che severi.

  1. EPIDEMIOLOGIA

L’Insufficienza Venosa Cronica (IVC) appare una condizione clinica assai rilevante sia dal punto di vista epidemiologico sia per le importanti ripercussioni socio-economiche che ne derivano. Nei Paesi occidentali sono ben note le conseguenze della sua elevata prevalenza, i costi dell’iter diagnostico e del programma terapeutico, le significative perdite in ore lavorative e le ripercussioni sulla qualità di vita (Circulation 2000, International Task Force 1999, Franks 1999).

La prevalenza attuale dell’IVC a carico degli arti inferiori è del 10-50% nella popolazione adulta maschile e del 50-55% in quella femminile. La malattia varicosa è presente, clinicamente manifesta, nel 10-33% delle donne e nel 10-20% dei maschi adulti (Circulation 2000, Callam 1994, Cesarone 1997, Wienert 1992).

Fra i diversi studi epidemiologici, ai fini di fornire dati di incidenza pura, appaiono di notevole interesse speculativo quelli prospettici. Pochi sono in realtà dedicati all’IVC. Il più citato è il FRAMINGHAM in cui l’incidenza di varici (comparsa di nuovi casi nell’unità di tempo) è del 2.6% nella donna e dell’1.9% nell’uomo per anno; a due anni le varici colpiscono rispettivamente 39/1000 uomini e 52/1000 donne (Brand 1998).

La correlazione fra prevalenza di varici e età è quasi lineare: il 7-35% e il 20-60% rispettivamente degli uomini e delle donne fra i 35 e i 40 anni; dal 15 al 55% degli uomini e dal 40 al 78% delle donne oltre i 60. Le flebopatie e le varici sono rare nei bambini e negli adolescenti. Tuttavia bambini con familiarità positiva per varici possono sviluppare vene ectasiche ed incontinenti già nell’adolescenza (Circulation 2000, Wienert 1992, Canonico 1998).

Notevoli variazioni circa la prevalenza di varici si osservano negli studi epidemiologici condotti in differenti aree geografiche (Wienert1992).

La trasmissibilità ereditaria dei disturbi venosi è discussa. L’incidenza di varici in persone con o senza fattori ereditari trasmissibili varia dal 44 al 65% in presenza dei suddetti fattori vs il 27-53% in loro assenza (Wienert1992).

Una predisposizione familiare coesiste nell’85% dei portatori di varici vs il 22% di pazienti senza antecedenti (Scott 1995). Tuttavia se molti studi dimostrano una “eredità verticale” nessuno al momento ne rivela una “orizzontale” che potrebbe spiegare un modello genetico.

L’IVC colpisce prevalentemente il sesso femminile fino alla quinta-sesta decade, successivamente non si notano significative differenza fra i sessi. Globalmente gli studi epidemiologici evidenziano un rapporto uomo/donna di 1:2-3 sebbene l’importante studio di Basilea di WIDMER (Widmer1978) dimostri un rapporto di 1:1. Probabilmente influiscono le differenti metodiche di studio (Wienert1992).

Numerosi studi epidemiologici correlano l’incidenza delle varici con la gravidanza e con il numero dei parti. Esse variano dal 10 al 63% in donne con figli vs 4-26% in nullipare.

Da 1 a 5 gravidanze comportano un’incidenza di malattia varicosa dell11-42% con progressione lineare con l’aumento dei parti. La correlazione è ancora più evidente se la donna è già affetta da disturbi venosi. Tuttavia non mancano studi che dissentono negando una relazione fra incidenza di varici e numero di gravidanze (Wienert 1992).

La relazione fra varici e peso corporeo è stata esaminata da vari autori. Persone in sovrappeso, specie se di sesso femminile e abitanti in aree civilizzate, soffrono maggiormente di IVC e di malattia varicosa rispetto a soggetti di peso normale, dal 25 ad oltre il 70% (in entrambi i sessi) vs il 16-45% (Wienert 1992).

Le varici si manifestano abitualmente ad entrambi gli arti inferiori, dal 39 al 76% dei casi (Wienert 1992).

L’ipertensione, il fumo di sigaretta, la stipsi non si sono rivelati fattori di rischio statisticamente significativi e correlabili all’IVC.

È ampiamente riconosciuto che alcune occupazioni, particolarmente quelle che obbligano ad un prolungato ortostatismo, si associno con maggiore prevalenza di varici anche se una tale correlazione è estremamente difficile da dimostrare sul piano statistico (Callam 1994, Hobson 1997). Si è esaminata l’incidenza di varici in soggetti occupati in varie professioni, particolarmente in lavoratori dell’industria. Una positiva associazione tra la stazione eretta e le varici è dimostrata da più autori (Wienert 1992, Lorenzi 1986). Risulta inoltre influente la temperatura del luogo di lavoro (Hobson 1997).

L’edema e la comparsa di lesioni trofiche, l’iperpigmetazione e l’eczema, espressioni di IVC CEAP 4-6 variano dal 3 all’11% della popolazione. Lo sviluppo di nuovi sintomi/anno è circa l’1% per l’edema e lo 0.8% per modeste dermopatie (Circulation 2000).

Ulcere venose in fase attiva si ritrovano in circa lo 0.3% della popolazione adulta occidentale e la prevalenza globale di ulcere attive e guarite si attesta sull’1% con sconfinamento oltre il 3% negli ultrasettantenni. La guarigione delle U.V. può essere ritardata od ostacolata dall’appartenenza dei pazienti a classi sociali medio-basse. La prognosi delle U.V. è poco favorevole tendendo esse a guarire in tempi lunghi e a recidivare con grande facilità. Il 50-75% ripara in 4-6 mesi mentre il 20% resta aperto a 24 mesi e l’8% a 5 anni. Se in età lavorativa, il 12.5% dei pazienti ha registrato un prepensionamento (Circulation 2000, International Task Force 1999, Alexander House Group 1992, Nelzen 1999, Baccaglini 1997).

L’IVC rappresenta un notevole onere per i servizi di prestazione di salute ed un’importante fonte di costo per la società (Bartolo 1992, Ruckeley 1997).

Il numero di ore lavorative perse per IVC ogni anno in Inghilterra e Galles è pari a circa 500.000 mentre negli USA (dove 25.000.000 di persone sono portatori di varici, 2.500.000 di IVC e 500.000 di ulcere venose attive) è di 2.000.000. Dati desunti dal servizio sanitario pubblico brasiliano dimostrano che fra le 50 malattie più frequentemente citate come causa di assenteismo dal lavoro e regolarmente riconosciute sul piano finanziario col rimborso, l’IVC è al 14° posto essendo la 32a causa di inabilità permanente (Circulation 2000).

I costi annuali per la gestione dell’IVC, sicuramente in difetto, sono stimati in 290 milioni di Sterline, 14.7 bilioni di Franchi francesi, 2.420 milioni di Marchi tedeschi, 1.638 bilioni di Lire italiane e 17.240 milioni di Pesetas spagnole. Inoltre viene stimato che per i principali Paesi europei la Comunità Europea stanzi l’1.5-2% dell’intero budget sanitario pari a 418-1135 milioni di ECU del 1992 esulando dai cosi indiretti dovuti all’invalidità (International Task Force 1999, Ruckeley 1997).

Il costo annuale per la cura delle U.V. in UK è di circa 400-600.000.000 di Sterline (40.000.000 per il solo materiale di medicazione), oltre 1 bilione di Dollari negli USA (300.000.000 di Dollari solo per le cure domiciliari), 400.000.000 DM in Germania e 300.000.000 di Corone svedesi mentre in Francia il trattamento di un’ulcera comporta una spesa media di 240.000 Franchi all’anno (Circulation 2000).

In Italia si effettuano circa 291.000 visite/anno per lesioni ulcerative con prescrizioni nel 95% dei casi e onere pari a 243 miliardi di lire (AA vari 1997). Complessivamente il costo diretto ed indiretto dell’IVC è di circa 1 bilione di dollari per ogni Stato europeo di cui si disponga di maggiori dati (UK, Francia, Germania) (Circulation 2000).

  1. CLASSIFICAZIONE E CATEGORIE (CEAP)

La classificazione CEAP è stata messa a punto da un gruppo internazionale di specialisti nel 1994 allo scopo di ottenere una nuova modalità standardizzata di valutazione delle flebopatie croniche che tenesse conto della maggior parte dei segni e sintomi della patologia (Porter 1995). Nel 1996 durante il congresso mondiale di Flebologia tenutosi a Londra è stata effettuata una messa apunto ed una validazione internazionale della classificazione stessa. Da allora sono state effttuuate numerose traduzioni e sono comparsi nella letteratura internazionale sempre più lavori basati su tale schema (Antignani 1997, Bergan 1997, Cornu-Thenard 1999, De Palma 1997, Labropulos 1997, Langeron 1996, Rutherford 1997).

TABELLA 1 CLASSIFICAZIONE C E A P

Clinica (C 0-6, a=asintomatico, s=sintomatico)
Eziologia (c, p ,s)
Anatomia (s, d, p)
Patofisiologia (r, o)

Classificazione clinica (C 0-6)

classe 0: assenza di segni clinici visibili o palpabili di malattia venosa
classe 1: presenza di teleangiectasie o vene reticolari
classe 2: presenza di vene varicose
classe 3: presenza di edema
classe 4: turbe trofiche di origine venosa: pigmentazione, eczema, ipodermite
classe 5: come classe 4 con ulcere cicatrizzate
classe 6: come classe 4 con ulcere in fase attiva

Classificazione eziologica (Ec, Ep, Es)

Ec = congenita (dalla nascita)
Ep = primitiva (da causa non identificabile)
Es = secondaria (post-trombotica, post-traumatica, altre)

Classificazione anatomica (As, Ad, Ap

As = interessamento del sistema superficiale
Ad = interessamento del sistema profondo
Ap= coinvolgimento delle vene perforanti

Sistema superficiale: As
1 – teleangiectasie, vene reticolari della safena interna:
2 – al di sopra del ginocchio
3 – al di sotto del ginocchio
4 – safena esterna
5 – distretti non safenici

Sistema profondo: Ad
6 – vena cava inferiore, vena iliaca
7 – comune
8 – interna
9 – esterna
10 – vene pelviche: genitali, legamento largo
11 – vena femorale comune
12 – profonda
13 – superficiale
14 – vena poplitea
15 – vene di gamba o crurali: vene tibiali posteriori, tibiali anteriori, vene peroniere
16 – vene muscolari: vene gemellari, vene soleali

Vene perforanti : Ap
17 – a livello di coscia
18 – a livello di gamba

Classificazione fisiopatologica (Pr, Po)

Pr = reflusso
Po = ostruzione
Pr,o = entrambi

Punteggio di severità della disfunzione venosa

Punteggio anatomico
– numero dei segmenti affetti: 1 punto per ogni segmento affetto
Punteggio clinico
Sintomi e segni obiettivi
– dolore: 0 = assente
1 = moderato, non necessita trattamento
2 = severo, necessita di analgesici
– edema: 0 = assente
1 = moderato
2 = importante
– claudicatio venosa: 0 = assente
1 = moderata
2 = invalidante
– pigmentazione: 0 = assente
1 = localizzata
2 = estesa
– ipodermite: 0 = assente
1 = localizzata
2 = estesa
– ulcere (dimensioni): 0 = assente
1 = inferiore a 2 cm
2 = superiore a 2 cm
– ulcere (durata): 0 = assente
1 = presente da meno di 3 mesi
2 = presente da più di 3 mesi
– ulcere (recidive): 0 = non recidiva
1 = una sola ulcera nel tempo
2 = recidiva dopo cicatrizzazione
– ulcere (numero): 0 = assente
1 = unica
2 = multiple
Punteggio di invalidità
0 = asintomatico
1 = sintomatico ma può condurre una vita normale senza compressione
2 = possibilità di lavoro 8 ore al giorno solo con la compressione
3 = incapacità di lavorare anche con la compressione

Esempi
1) Cs2 – Ep – As4 – Pr equivale alla descrizione di un paziente con varicosi primitiva della safena esterna con presenza di reflusso
Punteggio anatomico: 1
Punteggio clinico: 2
Punteggio di invalidità: 1

2) Cs6 – Es – As2-3-5, p11-13 – Pr,o equivale alla descrizione di un paziente con sindrome postflebitica con lesione trofica in fase attiva e ostruzione del circolo profondo femorale con incontinenza di tutta la safena interna
Punteggio anatomico: 5
Punteggio clinico: 7
Punteggio di invalidità: 3

  1. DIAGNOSTICA NON INVASIVA

La diagnostica non invasiva per le malattie venose è stata sviluppata per lo screening, la quantificazione del danno e lo studio emodinamico. I medici generici e gli specialisti devono conoscere –con diversi gradi di competenza– il significato dei vari test vascolari e le loro indicazioni e limitazioni, così da limitare al massimo l’uso di test piu’ invasivi e costosi (Nicolaides 1987, Struckmann J, Christopulos 1987). I centri di diagnostica non invasiva si sono sviluppati soprattutto negli ultimi decenni, le malattie venose presentano una maggiore difficoltà di valutazione rispetto alle malattie arteriose e richiedono quindi una certa esperienza ed una valutazione più accurata. Per tali motivi i test venosi risultano maggiormente operatore-dipendente e richiedono una competenza specifica clinica soprattutto per la valutazione dell’insufficienza venosa cronica.

L’insufficienza venosa cronica (IVC) può essere il risultato di ostruzione al deflusso, reflusso, o una combinazione di entrambe. L’obiettivo dell’esame clinico e strumentale è rilevare quale fra tali condizione sia presente. Va ricercata inoltre la localizzazione anatomica dell’alterazione e quantificato il reflusso e/o l’ostruzione. Sono disponibili molti test, semplici, rapidi ed efficaci per costo-beneficio. Le informazioni utili, necessarie per valutare e quantificare i problemi venosi sono di solito ottenute da soli tre tipi di esame:

  1. – Doppler ad onda continua
  2. – Duplex scan/Eco-Color-Doppler
  3. – Pletismografie
  4. – con l’aggiunta di indagini sulla microcircolazione.

Valutazione del reflusso venoso

La valutazione del reflusso viene di solito eseguita con il paziente in piedi, l’arto da esaminare rilassato ed il ginocchio lievemente flesso. Dopo l’esame clinico e fisico può essere utilizzato un pocket Doppler direzionale per completare l’esame di screening. Lo strumento fornisce infatti informazioni circa la presenza/assenza di reflusso alla giunzione safeno-femorale e safeno-poplitea. La compressione manuale del polpaccio produce un flusso verso l’alto mentre può essere presente reflusso quando viene rilasciata la compressione. Questo tipo di test dovrebbe essere eseguito comprimendo per almeno 3 secondi e non oltre 10-20 cm distalmente dalla sede da esaminare.

L’abolizione del reflusso con la compressione della vena superficiale distalmente alla giunzione indica che il reflusso è limitato al sistema superficiale. Il Doppler CW può fornire informazioni sulla presenza/assenza di reflusso alle giunzioni nel 50 – 90% dei pazienti (consensus). Anomalie anatomiche nel cavo del poplite sono responsabili di diversi errori. Per es. un reflusso nelle vene del gatrocnemio possono essere interpretate come incontinenza della vena poplitea, inoltre il Doppler CW non è indicato per localizzare vene perforanti incompetenti. L’esame con duplex/CFI completa la valutazione di screening con Doppler CW e fornisce informazioni sulla sede del reflusso: possono ad esempio essere studiate singolarmente la vena femorale, poplitea, perforanti, ecc. L’uso del colore (CFI: color flow mapping) permette una valutazione piu’ rapida. Con una sonda da 7,5 MHz viene visualizzata la vena da studiare con il paziente in posizione eretta. Il test della compressione rileva l’eventuale presenza di reflusso. Con una sonda ad alta risoluzione può essere documentata la presenza e la continenza delle valvole. Il CFI risulta particolarmente utile per localizzare il reflusso nei pazienti con varici recidive dopo chirurgia o scleroterapia o in soggetti con anomalie anatomiche. CFI conferma inoltre la continenza del sistema venoso profondo e l’estensione e la sede di un reflusso profondo quando presente. Quantificare il reflusso in una singola vena è possibile ma richiede tempo. Risultati accurati e riproducibili possono essere ottenuti utilizzando alcune tenciche pletismografiche.

Pletismografia venosa

La pletismografia venosa consente di valutare la funzionalità venosa globale, misurando i cambiamenti del volume di sangue venoso nella gamba. Queste misurazioni possono essere effettuate con una delle tre tecniche pletismografiche oggi in uso: la fotopletismografia/reografia a luce riflessa (PPG/RLR), la pletismografia strain gauge (estensimetrica, SPG) e la pletismografia ad aria (APG) (Belcaro 1998, Circulation 2000, Nicolaides 1991).

La PPG/RLR utilizza fotosensore fissato sulla cute che misura il riempimento del plesso venoso cutaneo (Nicolaides 1987); la SPG utilizza sensore estensimetrico (laccio conduttore elastico) che misura i cambiamenti della circonferenza della gamba nel punto dove è applicato (Struckman 1985), mentre il sensore della APG è un gambaletto gonfiabile che misura i cambiamenti del volume venoso totale della gamba (Christopoulos 1987).

Effettuando misurazioni in diverse posizioni e con diverse manovre, si possono valutare i seguenti parametri:
1) deflusso venoso (rallentato se presente una occlusione venosa);
2) reflusso venoso totale (grado di incontinenza valvolare);
3) efficacia della pompa muscolovenosa del polpaccio (grado di svuotamento venoso durante l’esercizio muscolare e velocità di riempimento venoso dopo la fine dell’esercizio).

Queste misurazioni si possono effettuare sia in condizioni di base (per la valutazione della funzionalità venosa globale), sia con esclusione delle vene superficiali mediante lacci (per la valutazione separata delle vene superficiali e profonde).

Nella pratica clinica la pletismografia venosa ha le seguenti applicazioni:
a) Quantificare e documentare il grado di compromissione delle diverse funzioni venose (ostruzione, reflusso) e seguirle nel tempo;
b) Quantificare il contributo delle vene superficiali e profonde e predire gli effetti emodinamici della chirurgia delle vene superficiali;
c) Studiare e documentare gli effetti emodinamici delle diverse operazioni chirurgiche e validare le nuove tecniche operatorie.

Indagini sulla microcircolazione
– Laser-Doppler
– Microlinfografia
– Pressioni interstiziali
– Misurazione pressioni parziali O2 e CO2

Raccomandazioni
  • Accanto alla clinica, per lo screening dell’IVC, l’esame di primo livello deve essere considerato il Doppler CW – Grado B
  • Le metodiche Eco-Doppler ed Eco-color-Dopplersono da riservarsi alla definizione della localizzazione e della morfologia del problema – Grado A
  • La Flebografia andrebbe presa in considerazione solo in un ridotto numero di pazienti portatori di anomalie anatomiche, malformazioni o quando vi sia indicazione ad un intervento sul sistema venoso profondo. – Grado B
  • Le pletismografie devono essere considerate test aggiuntivi di tipo quantitativo – Grado B
  • Le indagini rivolte allo studio della microcircolazione hanno indicazioni selettive e prevalentemente di ricerca – Grado C
  1. TRATTAMENTO CHIRURGICO

5.1. TRATTAMENTO CHIRURGICO DELL’INSUFFICIENZA VENOSA SUPERFICIALE

Generalità e indicazioni

Le basi del trattamento chirurgico delle varici degli arti inferiori datano ormai quasi un secolo con gli interventi di Mayo e Babcock (Mayo, 1906; Babcock, 1907) e tuttavia essi non possono essere considerati desueti grazie alla confermadi decine di migliaia e più di interventi praticati e “validati” dall’esperienza comune e da studi accreditati successivi (Myers, 1957; Agrifoglio e Edwards, 1961; Bergan, 1996). Sostanzialmente, tre innovazioni si sono inserite in una tecnica chirurgica standard per migliorarne i risultati: l’evoluzione della tecnica stessa dello stripping su nuove basi anatomiche e fisiopatologiche; l’introduzione di gesti chirurgici semplificati come la tecnica della flebectomia per miniincisioni (Muller, 1966; Rivlin, 1975) e lo stripping per invaginazione (Van Der Stricht, 1963); la pratica dello studio cartografico preoperatorio mediante ecocolordoppler (Franceschi, 1988; Neglen, 1992; van Bemmelen, 1989; Welch, 1992).

Va rilevata la nascita e la diffusione di una pletora di nuovi interventi talvolta limitati all’ambito dello stesso proponente: tali interventi pur assicurando spesso buoni risultati clinici necessitano di studi controllati multicentrici e non possono, allo stato attuale, essere considerati sostitutivi di tecniche standard, bensì alternativi.

L’importanza della chirurgia delle varici nei sistemi sanitari occidentali è data dalla frequenza della domanda. Si calcola in generale un fabbisogno da 70 interventi per 100.000 abitanti nel Regno Unito (Robbins, 1992), 200\100.000 abitanti in Finlandia (Laurikka, 1993), fino a numeri più elevati in Francia (oltre 150.000/anno) (Bahnini,1998) e Italia(oltre 100.000/anno :dati 1997 da DRG e stima approssimativa, per difetto, della flebologia privata). L’indicazione chirurgica tuttavia deve essere approfonditamente discussa.

Lo stesso scopo della chirurgia – la risoluzione totale delle varici – deve essere rivisto all’interno del quadro patologico di base – l’insufficienza venosa cronica – e del gravoso problema delle varici recidive a chirurgia e della comparsa di nuove varici.

Il trattamento del paziente portatore di IVC riconosce come principale obiettivo la risoluzione o il miglioramento del quadro sintomatologico e la prevenzione e terapia delle complicanze. L’elevazione dell’arto inferiore in posizione di scarico e l’elastocompressione per il controllo dell’edema, oltre alla me. f’tlgvezmobe, dell’arto inferiore in posizione di scarico e l’elastocompressione per il controllo dell’edema, oltre alla medicazione locale in caso di complicanza ulcerativa, sono infatti i fondamenti della terapia conservativa ma non correggono il disturbo emodinamico responsabile della flebopatia. Molti progressi sono stati fatti negli ultimi decenni nella terapia chircosì distinguere situazioni in cui prevale l’evento ostruttivo da quelle, primarie o secondarie, in cui il reflusso è l’elemento dominante. Dalla differente presentazione, clinica ed anatomo-patologica, dipende una strategia chirurgica oggi diversificata, non più indiscriminatamente ed estensivamente ablativa ma finalizzata, ove possibile, alla correzione dell’alterata emodinamica venosa (e microcircolatoria) dell’arto (WEISS, 1988; AGUS, 1991).

Le indicazioni alla chirurgia dell’IVC si basano pertanto sulla sintomatologia e sull’obiettività sicuramente correlabili alle varici o a possibili complicanze.

Di seguito, gli aspetti sintomatologici e anatomo-patologici che motivano la scelta chirurgica:

  • Presentazione clinica ed aspetto estetico
  • Sintomatologia dolorosa
  • Pesantezza alle gambe
  • Facile affaticabilità dell’arto
  • Trombosi venosa superficiale
  • Varicorragia
  • Iperpigmentazione della caviglia
  • Lipodermatosclerosi
  • Atrofia bianca
  • Ulcerazione

Tuttavia molti di questi sintomi e segni possono non essere attribuiti dal paziente all’IVC per cui è raccomandabile un’accurata e specifica anamnesi. Si tenga presente che il 50% dei pazienti con teleangectasie e varicosità soffre di parte dei disturbi menzionati che, con un’opportuna terapia, vengono eliminati nell’85% dei casi (WEISS, 1990).

D’altra parte secondo studi recenti l’eziologia della pesantezza alle gambe, una delle motivazioni più frequenti per la visita flebologica soprattutto nelle giovani donne, può non dipendere da uno stato varicoso né può essere considerata una sindrome pre-varicosa essendo invece il risultato dell’associazione fra flebostasi costituzionale, ipertensione venosa e lipedema (ALLEGRA 1989; CHARDONNEAU, 1999).

La stessa facile affaticabilità o esauribilità funzionale dell’arto appartengono al corredo sintomatologico di numerose altre affezioni, non ultime le artropatie, le neuropatie e le arteriopatie periferiche per citare le più frequenti. Similmente gli edemi declivi non sono necessariamente correlati all’IVC ponendosi in diagnosi differenziale con epifenomeni di cardiopatie congestizie, con discrasie ematiche, con dismetabolismi, ecc.. Infine possono coesistere con un quadro di IVC, o addirittura prevalere su di essa, stili di vita incongrui come l’eccesso di peso, la scarsa attività fisica, difetti posturali e l’esagerata sedentarietà, situazioni che, se corrette preventivamente, possono essere sufficienti ad evitare, se non a controindicare, l’intervento chirurgico.

Recenti studi sottolineano l’ipotesi che molti sintomi possono avere una causa non venosa e la malattia venosa essere una semplice concomitanza: in questi casi deve essere considerata la scarsa efficacia dell’intervento chirurgico al fine del miglioramento della sintomatologia (BRADBURY et al., 1999; O’LEARY et al., 1996).

La chirurgia del sistema venoso superficiale costituisce un notevole carico di lavoro per le unità operative di chirurgia generale e vascolare ed è responsabile di liste d’attesa ancora oggi significativamente lunghe. Si ipotizza inoltre che una chirurgia venosa “inadeguata” sia responsabile di molti casi di recidiva nonostante una tecnica chirurgica esente da errori (VAN RIJ et al., 1998) , anche se non è ancora definito che cosa si intenda per chirurgia adeguata (o appropriata) e inadeguata (o non-appropriata) (JANTET, 1999).

Raccomandazioni
  • Lo scopo della chirurgia delle varici è la risoluzione del momento varicoso a scopo sintomatologico, preventivo o terapeutico delle complicanze fermo restando il carattere evolutivo della malattia varicosa. Grado A
  • Il paziente operato necessita di controlli nel tempo. Grado A
  • La terapia di collaterali, esistendo valide alternative di tipo medico o scleroterapico, non è esclusivamente chirurgica. Grado B

TECNICHE CHIRURGICHE PER LE VARICI

Oggi, ogni intervento chirurgico per l’insufficienza venosa superficiale può essere definito a scopo emodinamico, a patto che venga preceduto da appropriata mappa emodinamica venosa mediante Eco-(Color)-Doppler .

Le tecniche chirurgiche possono essere raggruppate in quattro categorie principali:

  1. Chirurgia ablativa
  2. Chirurgia ablativa sintomatica
  3. Chirurgia conservativa senza exeresi dei tronchi safenici
  4. Trattamenti endovascolari

1) CHIRURGIA ABLATIVA

Comprende gli interventi di stripping lungo della grande safena (dalla giunzione safeno-femorale al malleolo mediale), stripping corto della grande safena (dalla giunzione safeno-femorale fino al terzo superiore di gamba), stripping della piccola safena (dalla giunzione safeno-poplitea al malleolo laterale o a metà polpaccio).

L’ablazione dei tronchi safenici viene complementata in genere dalla varicectomia e dalla interruzione-legatura delle perforanti incontinenti, raggiungendo così anche una finalità emodinamica attraverso l’exeresi delle vie di reflusso.

Rappresentano le tecniche strandard del trattamento chirurgico. Sono le più studiate nel tempo e le uniche che sono state comparate alla scleroterapia ed alla crossectomia da sola od associata alla scleroterapia, ma mai alle tecniche chirurgiche alternative. Comunque nei riguardi delle prime la chirurgia ablativa si è dimostrata superiore in termini di efficacia (Agrifoglio 1961, Bergen 1996, Dwerryhouse 1999, Jacobsen 1979, Myers 1957, Munn 1981, Neglen 1993, Rutgers 1994, Sarin 1994).

Per realizzare questi scopi sono state descritte varie tecniche (stripping endovenoso alla BABCOCK, stripping esterno alla MAYO e derivati, stripping per invaginazione sec. VAN der STRICHT, OUVRY, OESCH)

Raccomandazione

E’ importante fare precedere queste tecniche da un accurato studio Eco-Doppler per evitare o ridurre gli errori tecnici. Questa categoria di interventi, ad indicazione e studio pre-operatorio appropriati, può essere considerata di Grado A.

2) CHIRURGIA ABLATIVA SINTOMATICA

Comprende modernamente la flebectomia con o senza inincisioni sec. MULLER sia come metodo di cura delle varici a sé stante che come complemento delle altre tecniche.

La seconda e preferibile tecnica (minore trauma e finalità estetico-funzioali)si realizza con l’asportazione di rami insufficienti del circolo superficiale, con esclusione delle giunzioni safeniche, attraverso incisioni di pochi millimetri nelle quali vengono introdotti degli strumenti che consentono di portare all’esterno le vene da asportare (Muller 1966, Riviln 1975).

Un’altra tecnica a finalità sintomatica è rappresentata dall’incisione di rami varicosi trombizzati per le loro ablazione o semplice spremitura del materiale trombotico in caso di trombosi venosa superficiale.

Raccomandazione

I pazienti vanno edotti delle finalità sintomatiche dell’intervento il quale, per le indicazioni circoscritte, può oggi essere considerato di Grado B.

3) CHIRURGIA CONSERVATIVA SENZA EXERESI DEI TRONCHI SAFENICI

La finalità è trattare le varici mantenendo una safena drenante e non più refluente. La direzione del flusso safenico potrà essere fisiologica (valvuloplastica esterna safeno-femorale e primo tempo della strategia CHIVA 2) oppure invertita e diretta verso la cosidetta perforante di rientro (CHIVA 1). Anche queste tecniche possono essere complementate dalla flebectomia ma per lo loro realizzazione è indispensabile farle precedere da uno studio Eco-Doppler

  1. 1 VALVULOPLASTICA ESTERNA SAFENO-FEMORALE

Il razionale di trattamento è basato sull’osservazione istologica che negli stadi iniziali le cuspidi valvolari sono ancora sane ma incontinenti per la dilatazione della parete vasale (Corcos 1997, Mancini 1997).

La finalità dell’intervento è quello di riaccostare i foglietti valvolari riducendo la dilatazione parietale.

A questo scopo si possono usare o delle suture dirette della parete, o il cerchiaggio con materiali protesici esterni. E’ indispensabile la dimostrazione ecografica di cuspidi mobili e non atrofiche a livello della valvola terminale e/o subterminale della grande safena.

E’ consigliabile almeno un controllo con milking maneuvre e/o Doppler intraoperatorio dell’avvenuta continenza.

  1. 2 CORREZIONE EMODINAMICA TIPO CHIVA 1

Si realizza quando la perforante di rientro di un sistema safenico refluente è centrata sul tronco safenico stesso. Consiste nella deconnessione safeno-femorale, nella deconnessione dalla safena di eventuali tributarie insufficienti con o senza flebectomia. La perforante di rientro potrà o meno essere trattata con legatura-sezione della safena a valle di essa (terminalizzazione) ( Franceschi 1988, Zamboni 1996).

  1. 3 CORREZIONE EMODINAMICA TIPO CHIVA 2

Si realizza quando la perforante di rientro di un sistema safenico refluente è centrata su di un ramo tributario della safena. Consiste nella deconnessione raso alla parete safenica di detta tributaria /e ed nella sua/loro eventuale flebectomia (Cappelli 1996).

Tale intervento può rimanere unico nell’almeno il 60% dei casi a 18 mesi. Nei rimanenti casi il trattamento va completato mediante correzione emodinamica tipo CHIVA 1 o ripetendo il tempo sopradescritto a seconda dell’evoluzione emodinamica riscontrata.

  1. 4 CROSSECTOMIA SEMPLICE/ASSOCIATA A FLEBECTOMIA

Il primo intervento realizza documentati risultati funzionali ma è risultato inferiore allo stripping nel trattamento delle varici (Abu-Own 1994, Mc Mullin 1991).

Il secondo intervento è comparabile nei risultati allo stripping solo quando è preceduto da un accurato studio preoperatorio radiologico od ultrasonoro (Campanello 1996, Hammarsten 1990, Woddyer 1986).

4) TRATTAMENTI ENDOVASCOLARI

Comprendono il posizionamento sotto guida radiologica di clip tipo VAN CLEEF, e dei sistemi di trattamento della parete in corrispondenza delle valvole terminali con sonde a radio frequenza per emissione di calore .

Raccomandazione

Molti interventi a finalità conservativa senza exeresi dei tronchi safenici non sono a tutt’oggi convalidati da letteratura sufficiente per numero e livello, anche se per alcune delle tecniche sono apparsi o sono in corso studi di livello II. Grado C

CHIRURGIA DELLE VENE PERFORANTI

Le vene perforanti assicurano la comunicazione attraverso l’aponeurosi muscolare, tra le vene del sistema venoso superficiale e le vene del sistema venoso profondo, sono numerose: da 80 a 140 per arto con un diametro che non supera i due millimetri e provviste di una valvola venosa che si localizza di norma nel tratto sotto-aponeurotico.

Le esplorazioni venose devono quindi mettere in parallelo i criteri anatomici e morfologici con quelli emodinamici.

Affinché possa definirsi patologico un reflusso deve essere caratterizzato da:

– Durata superiore ad 1 secondo;

– Calibro della perforante superiore ai 2 mm;

calcolati con ultrasonografia. Il rapporto tra grado di severità della IVC e perforanti incontinenti è determinato dal numero di perforanti interessate e soprattutto dalla associazione di più sistemi (superficiale/profondo/perforanti) (Labropulos1994; Meyers 1995) come uno shunt veno-venoso a partenza dalle vene profonde e implicante le safefo, le vene pe) (Labropulos1994; Meyers 1995) come uno shunt veno-venoso a partenza dalle vene profonde e implicante le safene, le vene perforanti o ancora le vene di origine pelvica, o di uno shunt veno-venoso stabilitosi tra circoli superficiali (Guideline AVF 1996).

L’identificazione di perforanti dell’esame resta controversa. (Bishop 1991, Sarin 1992).

L’eliminazione delle vene perforanti incontinenti in combinazione con la bonifica delle vene varicose e del reflusso safenico nel trattamento dei pazienti con grave insufficienza venosa cronica, è un approccio terapeutico nel trattamento dei disturbi trofici della cute (Jugenheimer 1992).

Trattamento chirurgico

Si distinguono due modalità di trattamento chirurgico delle vene perforanti: il soprafasciale e il sottofasciale (De Palma 1996) con la metodica tradizionale (tecnica di Linton, Cockett, Felder, De Palma) ed il trattamento sottofasciale con la metodica endoscopica.

L’indicazione al trattamento chirurgico tradizionale ed endoscopico prevede pazienti con perforanti incontinenti di gamba e con ulcera attiva o chiusa (classe C5-C6 della CEAP) prevalentemente con sindrome post-trombotica, mentre il trattamento delle perforanti dovuto ad insufficienza superficiale viene riservato ai casi sintomatici. In alcuni studi si trova l’indicazione in pazienti sintomatici con distrofie cutanee (classe C4 della CEAP). (Enrici 1996, Whiteley 1998).

Trattamento chirurgico tradizionale

I risultati del trattamento con metodica tradizionale non si discostano tra le varie tecniche oscillando con una percentuale di recidiva ulcerosa tra il 9-16,7% con follow-up tra i 5-10 anni (De Palma 1996 e 1992, Danza 1991). La percentuale di recidiva ulcerosa nei pazienti con sindrome post-trombotica è maggiore (> 16%) con follow-up a 5 anni.

Alcuni autori hanno associato a queste metodiche bypass venosi (Gruss 1991), trapianto valvolare e la tecnica endoscopica (De Palma 1996), con risultati non raffrontabili.

Considerazioni: Non sono state osservate differenze sostanziali tra le tecniche tradizionali e non esistono studi multicentrici che confrontano i vari trattamenti tra di loro, o l’associazione con altre metodiche.

Trattamento chirurgico endoscopico

Il trattamento endoscopico, di recente acquisizione, prevede un mono accesso (trocar unico) ed un doppio accesso chirurgico (trocar operatore e ottico). Vi sono numerosi studi che dimostrano la comparsa di recidiva ulcerosa a 5 anni di follow-up che oscilla tra lo 0% ed il 10% (Whiteley 1998, Bergan 1996, Gloviczki 1997 e 1998, Pierik 1997).

Molti autori hanno associato il trattamento chirurgico endoscopico alla bonifica del sistema venoso superficiale incontinente, con una percentuale di recidive ulcerose simile a 5 anni di follow-up anche se in uno studio multicentrico che valutava la chirurgia endoscopica contro la chirurgia endoscopica e bonifica del sistema superficiale, si osserva a due anni di follow-up una minore percentuale di recidiva ulcerosa nel secondo gruppo (Gloviczki 1999).

Considerazioni: sono ancora in atto studi multicentrici nella valutazione del trattamento endoscopico contro il trattamento tradizionale e se è opportuno associare il trattamento plastico dell’ulcera. I peggiori risultati si sono osservati nei pazienti con sindrome post-trombotica a prescindere dalle metodiche utilizzate.

Per la sua minore invasività, per il ridotto numero di complicanze post-operatorie e per la possibilità di agire lontano dalla sede dell’ulcerazione sotto guida endoscopica viene attualmente preferita la tecnica endoscopica rispetto alla tradizionale.

Raccomandazioni

In caso di sindrome post-trombotica il trattamento della vena perforante incontinente sia esso effettuato con scleroterapia che con tecnica chirurgica tradizionale o endoscopica riveste un ruolo centrale – Grado B

Nelle varici essenziali si devono distinguere il ruolo emodinamico delle vene perforanti di coscia (perforanti di Dodd e di Hunter) e della perforante di Boyd. Quando sono incontinenti esse vanno sempre interrotte. Per le restanti perforanti soprattutto quelle di gamba occorre tener conto dell’aspetto clinico associato all’aspetto strumentale – Grado C

VARICI RECIDIVE

Per varici recidive si intendono le varici che compaiono dopo terapia chirurgica e non le residue alla stessa (Labropulos 1996, Rutherford 1990, Lofgren 1971, Larson 1974, Elbaz 1977).

La chirurgia delle varici degli arti inferiori è una chirurgia semplice solo in apparenza, le insidie sono in effetti numerose. La dimostrazione di tale affermazione è l’alta percentuale di recidive riportata dalla letteratura internazionale (Labropulos 1996, Rutherford 1990, Lofgren 1971, Larson 1974, Elbaz 1997, Agus 1982).

L’interpretazione di tali casistiche non è però sempre omogenea a causa della etereogenicità del reclutamento e del diverso percorso diagnostico terapeutico.

Le cause di recidiva più frequenti sono:

  1. Errata strategia diagnostica e di appropriatezza terapeutica

Il risultato a lungo termine della terapia chirurgica delle varici è legato ad una corretta diagnosi. L’esatta individuazione delle cause emodinamiche delle varici permette di istruire un appropriato progetto terapeutico(Bradbury 1993); così al concetto di “radicalità chirurgica”, intesa come estirpazione anatomica della safena con tutte le sue collaterali e di tutti i gozzi varicosi, che ha caratterizzato la chirurgia delle varici per quasi un secolo, si è sostituito quello di “radicalità emodinamica”, intesa come eliminazione di tutti i difetti emodinamici che sono alla base della formazione delle varici (i reflussi).

Per rendere riproducibili nel tempo tali situazioni è nata da un decennio circa la “cartografia” (Franceschi 1998), una sorta di carta geografica delle varici e dei difetti circolatori venosi degli arti inferiori che ha contraddistinto non solo l’intervento CHIVA, ma anche la chirurgia cosiddetta “tradizionale”.

Un uso non corretto di tali nozioni può essere la causa delle recidive.

  1. Errori tecnici

Numerosi lavori dimostrano in modo inconfutabile l’importanza degli errori nella esecuzione degli interventi, spesso piuttosto grossolani, e non solo nelle casistiche più datate (Agus 1982, Haegher 1967, Crane 1979, Marques 1987, Tong 1995).

Haeger in uno studio autoptico, riporta 158 (15.1%) safene residue su 837 arti operati per varici.

Crane descrive il 57.0% di legature della crosse non eseguite correttamente.

Marques riporta nei casi di varici recidive rioperati il 54.5% di legatura non corretta.

Tong su 244 arti riporta 168 (68.9%) safene residue.

Tra i motivi che possono indurre in errore durante un intervento per varici degli arti inferiori, certamente il più importante è la considerevole variabilità anatomica della giunzione safeno-femorale che può portare il chirurgo a lasciare in sede alcune collaterali.

Terapia

  • Chirurgica: la tecnica più adeguata sembrerebbe quella con approccio laterale sottofasciale per non incappare nelle difficoltà tecniche legate alla sclerosi cicatriziale(Li 1975, Belardi 1994), che va riservata a quei casi in cui ci sia un moncone residuo della safena con collaterale. Dove indicate, le varicectomie per mini-incisioni alla Muller e la correzione emodinamica delle vene perforanti incontinenti.
  • Medico farmacologico-compressiva o terapia sclerosante, da destinare a tutti quiei casi in cui non sia indicato il trattamento chirurgico od in alternativa ad esso.
  • Misto: combinazione dei due approcci.
Raccomandazione

Ferma restando la possibilità di recidiva delle varici quale evoluzione della malattia varicosa, al fine di porre rimedio al ripresentarsi della varicosi è necessaria una corretta diagnosi che è ben eseguibile con gli ultrasuoni (I e II livello), riservando ai casi particolari (III livello) la flebografia selettiva onde ridurre al massimo l’errore. Grado C

5.2. TIPOLOGIE ASSISTENZIALI

La possibilità clinica, organizzativa ed amministrativa di effettuare interventi chirurgici od anche procedure diagnostiche e/o terapeutiche invasive e semiinvasive praticabili senza ricovero e senza necessità di osservazione postoperatoria , in studi medici , ambulatori o strutture protette ,in anestesia locale e/o locoregionale è stata oggetto di proposta di regolamentazione ,onde differenziare i tre possibili regimi di effettuazione della chirurgia delle varici : ambulatoriale ; day-surgery ; in ricovero ordinario (Proposta di regolamentazione 1997).

In particolare , la day-surgery sembra oggi prestarsi come assai adatta alla maggioranza degli interventi chirurgici per le varici a patto di seguire criteri selettivi precisi :

– la durata delle prestazioni in regime di day-surgery deve essere preferibilmente contenuta entro un’ora

– i pazienti da avviare a tali regimi debbono essere opportunamente selezionati e debbono essere preventivamente informatisul tipo di intervento e/o di trattamentoal quale sono sottoposti sottoscrivendo un consenso informato personalizzato

– il limite tra gli interventi effettuabili in un regime piuttosto che in un altro è assai sfumato. Sarà quindi cura primaria dell’equipe medica decidere sul tipo di regime assistenziale al quale sottoporre il paziente, dopo averlo accuratamente selezionato ed informato sul tipo di trattamento al quale verrà sottoposto

– la selezione dei pazienti deve tener conto delle condizioni generali del paziente e dei fattori logistici e familiari

– i pazienti che afferiscono ai programmi di chirurgia ambulatoriale e di day-surgery devono essere in buone condizioni generali. I candidati ideali sono quelli classificati nelle classi ASA1 ed ASA2. Le urgenze chirurgiche sono escluse dal trattamento secondo tali regimi assistenziali

– sono applicabili criteri di selezione in base ad età e peso. Con possibili eccezioni l’età massima indicativa è di 75 anni. L’obesità è un fattore di rischio di notevole importanza e tale condizione deve essere attentamente valutata

– relativamente alla situazione logistica, è preferibile che il luogo di residenza del paziente non sia lontano dalla struttura dove viene praticata la prestazione per consentire un tempestivo intervento in caso di necessità e comunque il tempo di percorrenza dovrebbe essere preferibilmente compreso entro un’ora di viaggio.

– tutti i pazienti debbono esere assistiti durante il ricovero da un familiare o persona di fiducia responsabile, opportunamente istruito, in grado di accompagnare a casa il paziente e fornire tutta l’assistenza necessaria, soprattutto nelle prime 24 ore dall’intervento chirurgico

– la scelta di intervenire in un regime piuttosto che in un altro resta esclusiva responsabilità del medico, il quale potrà scegliere in assoluta libertà, nel rispetto del consenso informato del paziente, basandosi sui principi di scienza e coscienza su cui da sempre si fonda la facoltà di curare

– la scelta del regime di ricovero più opportuno sarà guidata dall’accertamento delle condizioni cliniche e psicologiche del paziente. Molte delle patologia trattabili in regime ambulatoriale, se di maggiore estensione o complicate, dovranno essere trattate in regime di day-surgery o addirittura in regime di ricovero ordinario

– si precisa infine che, se una patologia o tipo di intervento chirurgico compaiono in elenco (delle prestazioni eseguibili in day-surgery), ciò non deve costituire alcun obbligo ad eseguire il trattamento indicato secondo tale regime assistenziale.

Diverse sono tuttavia le difficoltà ancora incontrabili in Italia per una più larga applicazione e non deve essere considerata obbligatoria l’indicazione ad impiegare tale regime senza la valutazione dello specialista ed il consenso del paziente (Agus 1996).

Osservazioni concrete giustificano tuttora il ricovero ordinario: a parte la valutazione del medico sulla attuabilità di un intervento in day-surgery, va sottolineato il ruolo del paziente nell’accettare il regime di ricovero. Se un paziente per suoi motivo logistici o psicologici non desidera subire un intervento in day-surgery ma insiste per il ricovero ordinario, ciò potrebbe forse costituire un motivo valido per per il riconoscimento intergrale della prestazione, purchè chiaramente documentato in cartella e sul consenso informato.

Fattori logistici e familiari, particolarmente importanti in Italia, possono portare a giustificare dal punto di vista organizzativo un ricovero il giorno precedente (purchè gli si attribuisca anche un ragionevole contenuto sanitario). Deve essere raccomandata attenzione al periodo post-dimissione, sottolineando che il paziente nelle ore successive deve essere adeguatamente assistito, in grado di contattare agevolmente la struttura per aiuto e consiglioed eventualmente riaccedervi celermente in caso di complicazioni. Quindi situazioni logistiche che non permettono ciò, se dichiarate in cartella, potrebbero giustificare un prolungamento del ricovero.

I dati più attuali disponibili dall’analisi dei DRG per la chirurgia delle varici (Ministero della Santà, 1997) ci informano di una degenza media di 3,7 giorni; del 54,3 % di interventi con ricovero di 2 – 3 giorni; di un sottovalutato uso della day-surgery, limitato all’8,3 %.

5.3. TRATTAMENTO CHIRURGICO DEL REFLUSSO VENOSO PROFONDO

Il paziente candidato alla chirurgia del sistema venoso profondo è affetto da insufficienza venosa cronica (IVC) severa, con reflusso venoso significativo e ipertensione venosa ambulatoriale, in cui la terapia conservativa è fallita e la malattia venosa è causa di una cattiva qualità di vita. Quando il reflusso venoso profondo è lieve, lo stripping della safena può portare notevole beneficio e abolire il reflusso nella vena femorale (Walsh 1994). Al contrario, in caso di reflusso severo e veloce, è spesso necessario un trattamento chirurgico “diretto” del sistema profondo, anche
considerando l’alta percentuale di recidiva dell’ulcera dopo terapia conservativa e i brillanti e duraturi risultati ottenuti dai Centri che hanno praticato questa chirurgia.

La chirurgia valvolare ricostruttiva comprende metodi diretti (che hanno lo scopo di ripristinare la continenza valvolare) e metodi indiretti (con il fine di migliorare l’emodinamica venosa degli arti) (Masuda 1994, Camilli 1994, Raju 1996, Perrin 1991).

I metodi chirurgici diretti sono applicabili nella IVPP nella quale le cuspidi valvolari sono allungate o prolassate ma presenti e funzionali. Nella SPT o nella agenesia valvolare nelle quali le valvole sono state danneggiate o sono assenti, la scelta terapeutica si orienta su una tecnica indiretta.

L’IVC è una patologia complessa dovuta ad un coinvolgimento multi-livellare e multi-sistema del circolo venoso. Una rapida guarigione delle ulcere da stasi può essere ottenuta dalla correzione di tutti i punti di reflusso e dal mantenimento o implementazione dei canali del ritorno venoso. Varie tecniche chirurgiche possono essere utilizzate in relazione alla patologia valvolare ed alla localizzazione ed estensione della lesione.

In una recente revisione di 423 interventi di ricostruzione valvolare Raju riferisce il seguente ordine di durata nel tempo del successo delle metodiche chirurgiche ad un controllo Ecodoppler (Raju 1999):

  1. valvuloplastica interna;
  2. valvuloplastica esterna con manicotto protesico;
  3. valvuloplastica esterna con sutura diretta;
  4. trapianto venoso.

Non è stata osservata nessuna differenza significativa tra le metodiche per quanto riguarda la recidiva dell’ulcera.

Raccomandazione

Non è raccomandabile l’uso comune di questi interventi chirurgici che vanno selezionati e riservati a casi e strutture con specifiche indicazioni e competenze – Grado C

  1. SCLEROTERAPIA

Definizione
La scleroterapia consiste nella obliterazione chimica delle varici. Allo scopo nelle varici viene iniettata una sostanza istolesiva (liquido sclerosante) che danneggia l’endotelio provocando spasmo, trombosi ed una reazione infiammattoria reattiva che nelle intenzioni del medico deve portare alla stenosi, fibrosi e obliterazione permanente della vena.

Efficacia
L’obliterazione iniziale delle vene si ottiene in oltre 80% dei casi, ma successivamente una parte delle vene sclerosate si ricanalizzano.

Studi strumentali sulle singole vene
Simili risultati si sono ottenuti anche sulla piccola safena, obliterata inizialmente nel 87% dei casi (Grondin 1997), ma dopo 2 anni ricanalizzata nel 33% dei casi (Isaacs 1997), mentre dopo 5 anni le ricanalizzazioni sono state del 27% quando la vena poplitea era continente (varici primarie) e 77% quando anche la vena poplitea era incontinente (varici secondarie) (Schultz-Ehrenburg 1992).
Per quanto riguarda i rami varicosi collaterali, nell’unico studio disponibile, a due anni le ricanalizzazioni sono state di 26% (Isaacs 1997).

Studi clinici
Dal 1966 al 1984 sono stati condotti quattro studi prospettici randomizzati con controllo clinico dei risultati. Questi studi hanno dimostrato che all’inizio i risultati della scleroterapia sono paragonabili a quelli dell’asportazione chirurgica, ma con il tempo le recidive della scleroterapia sono nettamente superiori.
Nello studio di Doran (1975), dopo 2 anni i risultati della scleroterapia e la chirurgia si equivalevano.
Nello studio di Chant e Beresford (Chant 1972, Beresford 1978), dopo 3 e 5 anni le recidive della scleroterapia erano rispettivamente 22% e 40% (rispetto a 14% e 24% della chirurgia).
Nello studio di Hobbs (1984), dopo 1, 5 e 10 anni le recidive della scleroterapia erano rispettivamente 8%, 57% e 90% (rispetto a 6%, 25% e 34% della chirurgia).
Nello studio di Jacobsen (Jacobsen 1979), dopo 3 anni le recidive erano 63% (rispetto al 10% della chirurgia).

Studi con controllo clinico e strumentale
Nello studio di Einarsson (1993), dopo 5 anni le recidive erano 74% (rispetto a 10% della chirurgia). In questo studio i risultati sono stati controllati anche con misurazione strumentale di parametri emodinamici (volumetria del piede), ed anche con questo criterio i risultati della chirurgia sono stati migliori.

Terapia combinata
Nel 1973-1975 tre editoriali non firmati, su British Medical Journal e Lancet (Edit. 1973, 1975, 1975), proponevano come ottimale, sia dal puto di vista dei risultati che da quello del rapporto costo/efficacia, la terapia combinata, che prevede l’interruzione chirurgica per la giunzione safenofemorale, e la scleroterapia per le rimanenti varici. Messa alla prova però, la terapia combinata è risultata più efficace della sola scleroterapia, ma pur sempre meno efficace rispetto alla rimozione chirurgica delle varici. Questo era già stato dimostrato da Lofgren (1958) negli anni ‘50 (però con studio retrospettivo): a 5 anni, 70% di recidive con la terapia combinata rispetto a 30% con quella chirurgica.

Nello studio prospettico di Jacobsen (1979) le recidive a 3 anni sono state del 35% con la terapia combinata, 63% con la sola scleroterapia e 10% con la sola chirurgia.

Nello studio di Neglén (1986), con la terapia combinata, alla fine del trattamento 21% dei pazienti avevano varici residue, mentre dopo 5 anni le recidive erano 84%. La volumetria del piede, normalizzata subito dopo il trattamento, deteriorava già dopo 1 anno e dopo 5 anni tornava ai valori pre-trattamento.

Nello studio di Rutgers (1994) dopo tre anni le recidive erano 61% con la legatura e scleroterapia e 39% con lo stripping e flebectomia, mentre al Doppler vi era reflusso safenico in 46% dei pazienti del primo gruppo e 15% del secondo. Questo è l’unico studio nel quale gli insuccessi clinici della scleroterapia (61%) erano più numerosi del numero di safene ricanalizzate al Doppler (46%).

Occorre tenere presente infatti che in tutti gli altri studi, la metà circa dei casi con ricanalizzazione accertata strumentalmente risultavano comunque migliorati sul piano clinico. Inoltre, gli insuccessi obiettivi della scleroterapia sono mitigati parzialmente dal fatto che la valutazione soggettiva (dei pazienti) è stata invariabilmente migliore di quella oggettiva del chirurgo.

Valutazione dell’evidenza
Nonostante si prestino ad alcune critiche, gli studi finora pubblicati, di cui 6 prospettici e randomizzati (Doran 1975, Chant 1972, Beresford 1978, Hobbs 1984, Jacobsen 1979, Einarsson 1993, Rutgers 1994), uno retrospettivo (Lofgren 1958) ed uno prospettico controllato (Neglén 1986), hanno dato risultati univoci senza eccezione e dimostrano perciò in modo definitivo la superiorità della asportazione chirurgica rispetto alla scleroterapia e la terapia combinata, quanto meno per le varici accompagnate da incontinenza del tronco della grande safena.

Raccomandazione

L’asportazione chirurgica è superiore alla scleroterapia per quanto attiene alle varici che originano dall’ incontinenza della grande safena – Grado A

Indicazioni

La elevata percentuale di ricanalizzazioni e recidive pongono la scleroterapia in posizione subalterna e non alternativa alla chirurgia. Questo significa che la scleroterapia diventa la terapia di scelta sostanzialmente nei casi dove la chirurgia è improponibile (perché difficile, con risultati incerti o ad elevato rischio), oppure su richiesta specifica del paziente (che deve essere informato sui risultati, complicanze, vantaggi e svantaggi della scleroterapia rispetto alla chirurgia).

La scleroterapia è stata introdotta in Francia nel 1853, eppure i primi tentativi di elaborare “linee-guida” sono del 1996, a cura della Consensus Conference Internazionale (1996), della American Academy of Dermatology (Guidelines 1996) e dell’American Venous Forum (AVF, Guidelines 1996). Solo quest’ultimo però ha formulato in modo specifico le indicazioni alla scleroterapia, e sono le stesse proposte qui dal Colleggio Italiano di Flebologia. Tali indicazioni comprendono:

1) teleangiectasie

2) varici di piccolo diametro (1-3mm)

3) vene residue dopo l’intervento chirurgico (quelle che il chirurgo ha deciso di non operare)

4) varici recidivanti dopo intervento chirurgico (se originano da una perforante di diametro <4mm)

5) varici nelle malformazioni venose (tipo Klippel-Trenaunay) per le quali non è proponibile intervento chirurgico

6) terapia d’urgenza dell’emorragia da rottura di varice

7) perforanti di diametro <4mm

8) varici attorno all’ulcera.

Come si vede da questo elenco, la scleroterapia è un metodo importante ed indispensabile per il trattamento ottimale di un ampio spettro di varici, dalle teleangiectasie (che non sono un problema solo estetico ma possono causare patologia cutanea ed emorragia anche grave) a quelle nelle forme gravi ed invalidanti di insufficienza venosa cronica, come la lipodermatosclerosi, l’ulcera da stasi e le malformazioni venose congenite.

Raccomandazione

Vengono condivise in linea generale le indicazioni dell’AVF, rimanendo aperte le indicazioni alla scleroterapia delle perforanti indipendentemente dal loro diametro, e della piccola safena – Grado B

Controindicazioni

Le controindicazioni alla scleroterapia comprendono l’allergia al mezzo sclerosante, malattie sistemiche gravi scompensate, trombosi venosa profonda recente, infezione locale o sistemica, edema non riducibile dell’arto inferiore, paziente immobilizzato, ischemia critica dell’arto inferiore. E’ consigliata cautela nei pazienti con anamnesi di TVP recidivante, stato accertato di trombofilia oppure in terapia estropgogestinica e durante la gravidanza.

Tecnica

Come ogni lavoro manuale la scleroterapia richiede apprendistato. Le diverse tecniche attualmente in uso derivano dalle tre scuole classiche europee di Tournay (1984), Sigg (1976) e Fegan (Fegan 1976), e sono descritte anche in due testi in lingua italiana pubblicati recentemente (Mariani 1996, Goldman 1997).

Il tipo e concentrazione del liquido sclerosante variano a seconda del tipo di varice e sono riportate nella tabella 1.

Le iniezioni vengono praticate in più sedute, distanziate da pochi giorni a poche settimane una dall’altra, a seconda della tecnica personale.

Negli ultimi anni è stata proposta anche l’iniezione sclerosante sotto guida ecografica (“echoscleroterapia”) (Grondin 1997), ma la sua maggiore efficacia non è stata ancora confermata a lungo termine. Altrettanto dicasi della recente proposta di iniettare i mezzi sclerosanti di tipo detergente (polidocanolo o tetradecil solfato di sodio) in forma di microschiuma e non liquido (Cabrera 1997, Monfreux 1997).

Raccomandazione

Non esiste standardizzazione della tecnica, delle concentrazioni e quantità degli agenti sclerosanti. La compressione migliora il risultato della terapia sclerosante – Grado B

Tabella 2: I più comuni farmaci sclerosanti. Indicazioni e concentrazioni.

Farmaco Tipo di varice e concentrazione raccomandata


Teleangiectasie
Varici reticolariPiccole e medie variciGrosse variciTronchi safenici
Glicerina cromata al 72%
Salicilato di sodio8%12%20%
0,25-0,5%1%1-2%3-4%3-4%
Tetradecilsolfato di sodio0,1-0,2%0,2-0,3%1-2%3%3%
Iodio/ioduro di sodio2%2-4%4-8-12%
  1. COMPRESSIONE

Definizione
Per compressione si intende la pressione esercitata su di un arto da materiali di varia estensibilità al fine di prevenire e curare la malattia del sistema venolinfatico.

Cenni Storici
Il trattamento elastocompressivo è noto fin dai primordi della medicina. Troviamo delle tracce sull’uso dei bendaggi presso gli antichi egiziani e le popolazioni del Tigri. Il profeta Isaia nel VIII secolo a.C. citava l’uso e la funzione dei bendaggi agli arti inferiori, come del resto Ippocrate e la sua Scuola. Già i legionari romani nel 20 a.C. bendavano strettamente le gambe durante le lunghe marce per prevenirne il rigonfiamento. Celso raccomandò il bendaggio occlusivo e compressivo in lino per la cura dell’ulcus cruris. E in tutto il Medioevo per influsso della medicina araba invalse l’uso delle fasciature compressive.

Fisiopatologia
Il sistema venoso, coadiuvato dai vasi linfatici, si occupa di ricondurre verso il cuore il sangue refluo dai tessuti. Ogni qualvolta il deflusso venoso sia rallentato od ostacolato si realizza un fenomeno molto simile a quello di un ingorgo di traffico: di fatto si realizza una sorta di ischemia delle cellule, la stasi infatti impedisce che l’ossigeno e le sostanze nutritive possano lasciare il versante arterioso del capillare per entrare negli spazi interstiziali e quindi giungere alle pareti cellulari per essere assorbite. Tutto ciò è determinato dal sovvertimento dei rapporti pressori locali: il rallentamento del deflusso ematico comporta l’aumento della pressione interstiziale che può arrivare a controbilanciare la residua pressione idrostatica arteriosa, mentre il mancato deflusso determina l’incremento delle oncotica ed osmotica perivascolare con conseguente ritenzione idrica ed edema, realizzandosi così un circolo vizioso che tende ad automantenersi.
La terapia compressiva basa la sua efficacia su modificazioni dell’emodinamica ematica venosa con incremento della velocità di flusso (valutato con pletismografia ad occlusione venosa) e sulla riduzione del diametro vascolare con ripristino della continenza valvolare (Duplex scan). Con metodo reografico è possibile inoltre dimostrare incremento del refilling time dopo esercizio fisico indice di migliore compliance venosa. La somma di questi effetti, determinando riduzione dell’edema pericellulare ridurrebbe la sofferenza tessutale (Allegra 1991, 1994, Nehler 1993).

Razionale, fisico e tecnologico
I materiali, utilizzati per la compressione in flebolinfologia, sono distinti in bende, tutori elastici e non elastici (Bassi, 1983; Cornu-Thénard, 1991).

Le bende

Le bende sono generalmente utilizzate per la confezione di gambaletti.

La più importante proprietà delle bende è rappresentata dalla loro estensibilità o allungamento.

Sulla base del loro allungamento rispetto alle dimensioni iniziali si distinguono:

– bende ad estensibilità corta (<70%)

– bende ad estensibilità media (tra il 70 e il 140%)

– bende ad estensibilità lunga (>140%).

Le bende inestensibili o poco estensibili determinano durante la deambulazione notevoli pressioni di “lavoro”, perché contrastano l’aumento della circonferenza della gamba dovuto alla contrazione dei muscoli del polpaccio, mentre&qa pressione diontrastano l’aumento della circonferenza della gamba dovuto alla contrazione dei muscoli del polpaccio, mentrelte pressioni di “riposo”, con uno scarto tra queste e le pressioni di “lavoro”, che è inversamente proporzionale alla loro elasticità. Esse mantengono così sul sistema venoso superficiale una pressione continua, relativamente indipendente dall’attività muscolare, allo stesso modo dei tutori elastici che sono costruiti con fibre ad estensibilità lunga. Ne consegue che i bendaggi rigidi o poco estensibili, possono essere applicati e mantenuti in sede costantemente durante le 24 ore, al contrario i bendaggi estensibili oltre il 70% e le calze elastiche devono essere di solito rimossi di notte, perché non tollerati a letto (Gardon-Mollard 1999, Neumann 1998).

Tenuto conto di queste diverse caratteristiche delle bende, l’entità della pressione esercitata dipende in ogni caso dalla legge di Laplace (1,6,8)

P = t / r

così modificata nel caso delle bende:

P = tn / ra

dove t è la tensione, n il numero di spire della benda, r è il raggio della circonferenza da comprimere, a è la larghezza della benda. (2,6)

Ciò rende possibile “dosare” la compressione secondo le necessità terapeutiche.

La durata del mantenimento in sede di un bendaggio non è standardizzata. Alcuni studi evidenziano la pari efficacia nel risultato terapeutico di bendaggi mantenuti da poche ore fino a sei settimane, così come è dimostrata una caduta significativa della compressione esercitata dalle bende dopo 6-8 ore dalla loro applicazione (Raj 1980, 1981).

I tutori elastici

I tutori elastici, di tipo preventivo o terapeutico (Stemmer 1995, Van der Molen 1986, Veerart 1997), fabbricati in diverse taglie con procedure standard o su misura, sono distinti a seconda della loro lunghezza in:
– gambaletto
– calza a mezza coscia
– calza
– monocollant
– collant
cui vanno aggiunti i bracciali per l’arto superiore.

Quando la compressione esercitata alla caviglia è al di sotto dei 18 mm di Hg., il tutore è detto “preventivo o riposante”. La sua efficacia è controversa, così come quella dei tutori elastici che dichiarano la pressione esercitata in “deniers” (den).

Quando la compressione esercitata alla caviglia supera i 18 mm di Hg., il tutore è detto “terapeutico”. Esso esercita sull’arto inferiore una compressione definita e graduata, che è decrescente dal basso verso l’alto, essendo il 100% alla caviglia, il 70% al polpaccio e il 40% alla coscia.Sulla base della compressione esercitata alla caviglia ed espressa in mm di Hg i tutori terapeutici vengono raggruppati in 4 classi. L’appartenenza di un tutore all’una o all’altra classe varia a seconda che si consideri la normativa tedesca oppure la normativa francese.

Le ditte fabbricanti calze elastiche terapeutiche sulla base della normativa tedesca RAL GZ 387 propongono quattro classi di compressione:

Classe Compressione in mm di Hg
1a 18,7 – 21,7
2a 25,5 – 32,5
3a 36,7 – 46,5
4a > 58,5

Sulla base della normativa francese NFG 30-102 B i tutori elastici terapeutici vengono ancora raggruppati in quattro classi di compressione, ma con valori inferiori:

Classe Compressione in mm di Hg
1a 10 – 15
2a 16 – 20
3a 21 – 36
4a > 36

Accanto alle calze preventive e a quelle terapeutiche vanno prese in considerazione le calze cosiddette “antiembolia” per la profilassi degli episodi tromboembolici. Queste si differenziano dagli altri modelli, perché danno una compressione standard di 18 mm di Hg alla caviglia e di 8 mm di Hg alla coscia e quindi possono essere indossate e tollerate anche a riposo.

Norme di costruzione

Le norme di costruzione di un tutore elastico sono state emanate, su richiesta delle Autorità della Germania, per la necessità di ammettere i tutori al rimborso monetario, secondo il prontuario terapeutico tedesco dei farmaci e dei presidi (documenti CEN).

Essa contiene:

– una tabella che stabilisce le quattro classi di compressione in cuirientrano tutti itutori per la terapia elastocompressiva;

– una tabella in cui viene messo in evidenza la corretta distribuzione della compressione, affinché il tutore elastico garantisca il giusto gradiente lungo l’arto inferiore nelle varie classi;

– un capitolato che specifica come deve essere costruito il tutore elastico con particolare attenzione alle caratteristiche della doppia estensibilità, sia in senso longitudinale, che circonferenziale;

– sono dettate specifiche modalità di esecuzione per quanto riguarda le cuciture, i bordi, il tallone, ecc.;

– sono riportati i materiali utilizzabili con precisi limiti alla sottigliezza del filo, in maniera da ottenere un prodotto dalla necessaria robustezza con proprietà costanti nel tempo.

La normativa RAL-GZ 387 affida a due Istituti autorizzati, l’uno in Germania e l’altro in Svizzera, il test preliminare (sistema HOSY) che certifica la corrispondenza del tutore alle specifiche tecniche, con particolare riguardo al controllo visivo, alle prove di elasticità trasversale e longitudinale, all’analisi dei materiali utilizzati. Nello stesso tempo impone un sofisticato test di rilevamento delle compressioni e del loro andamento decrescente dal basso verso l’alto, attuato mediante una particolare apparecchiatura in grado di misurare qualsiasi tipo di calza elastica e di registrare le loro prestazioni sia in statica che in dinamica. Questa normativa, molto severa e restrittiva, che da oltre trenta anni controlla la produzione e la circolazione dei tutori elastici in Germania, è stata proposta come modello per l’elaborazione di una regolamentazione a livello di Unione Europea.

Compressioni Non Elastiche

Compressione Pneumatica Intermittente: indicata nella profilassi del tromboembolismo venoso e nel trattamento dell’ulcera venosa

La compressione pneumatica intermittente (CPI) si è dimostrata in grado di aumentare il flusso ematico venoso durante i periodi di immobilità I dispositivi di compressione pneumatica intermittente fungono da misure aggiuntive nel trattamento dell’edema dell’arto inferiore, dell’ulcera venosa o di entrambi e per la profilassi del tromboembolismo polmonare

La CPI deve essere presa in considerazione se il paziente presenta un elevato rischio di sviluppare complicanze emorragiche oppure se anche complicazioni emorragiche minori possono avere gravi conseguenze. La CPI è indicata nei pazienti sottoposti ad interventi neurochirurgici, interventi urologici maggiori, chirurgia oculare, chirurgia spinale, chirurgia del ginocchio. Essa è anche indicata nei pazienti con sospetta o documentata emorragia endocranica o in quelli che hanno subito un recente trauma cerebrale o spinale

CPI come coadiuvante nel trattamento dell’ulcera venosa: la CPI trova indicazione nel trattamento dell’ulcera venosa con un aumento della percentuale di guarigione che viene raggiunta in tempi più brevi

Applicazioni Cliniche

Generalità

Ogni quadro di insufficienza venosa cronica o acuta ha indicazione alla compressione, in associazione o no ad altri trattamenti. L’efficacia della elastocompressione per il trattamento sintomatico e la prevenzione delle complicanze della insufficienza venosa cronica (IVC) è supportata dalla esperienza clinica e da copiosa letteratura scientifica soprattutto per i gradi più avanzati di espressione della malattia venosa. Solo le pubblicazioni più recenti peraltro soddisfano i più rigorosi criteri di confronto caso/controllo e di numerosità del campione.

Il tipo di compressione, la modalità di applicazione, la durata dell’uso, variano per ciascun quadro clinico e per ciascun paziente stesso all’interno di gruppi di patologie equivalenti: pertanto la scelta del tutore compressivo richiede di essere modellata alle necessità del singolo paziente ed alla entità della malattia. Per rendere omogenei i criterî di valutazione dell’IVC e Acuta, nella profilassi e nella terapia, devono essere usati standards classificativi comuni quali la classificazione internazionale CEAP per l’IVC e la categorizzazione di rischio Alto/Moderato/Basso del Consensus statement on Prevention of Venous Thromboembolism.

  1. Forme Acute: le Tromboflebiti Superficiali

La tromboflebite superficiale è considerata una malattia benigna in assenza di fattori di rischio trombofilici, generalmente quale comune complicanza delle vene varicose. Tuttavia può evolvere in embolia polmonare ed esser fatale. Nella maggioranza delle tromboflebiti varicose o non, viceversa, a fianco della terapia farmacologica (antiinfiammatoria/eparinica), la compressione elastica sempre unita alla deambulazione trova la prima indicazione al trattamento ed alla prevenzione dell’estensione (Guex 1996).

Raccomandazione

I pazienti con tromboflebiti superficiali hanno sempre indicazione alla compressione e deambulazione. Grado B

  1. Forme acute: le Trombosi Venose Profonde

Prevenzione della Tvp
Le calze a compressione elastica graduata riducono l’incidenza di TVP dopo chirurgia con compressione ottimale da 18-20 mmHg alla caviglia a 8 mmHg alla coscia (Jeffery 1990, Wells 1994).

Raccomandazioni

Basso rischio
Grande accordo alla compressione graduata pur in assenza di dati sufficienti – Grado C

Moderato rischio
Calze elastiche in associazione o in alternativa alla profilassi eparinica – Grado B

Alto rischio
come per Moderato Rischio o combinazione di piu’ metodi di profilassi – Grado B

  1. Terapia della TVP

Pur senza evidenze da studi controllati, il corrente trattamento delle TVP rimane basato sull’uso dell’eparina.
È conosciuta da tempo peraltro l’indicazione di alcuni flebologi alla compressione con mobilizzazione, anche in fase acuta delle TVP (Blatter 1995, Partsch 1997). Non vi è tuttavia accordo né sulla mobilizzazione precoce dei pazienti con TVP in atto né sulla modalità di compressione preferita mediante bendaggio inelastico, mobile o adesivo, o mediante calza elastica.

Al momento non possono essere date Raccomandazioni.

  1. Prevenzione della Sindrome Post-Trombotica

La Sindrome Post-Trombotica (SPT) consegue ad una TVP con percentuali tra il 10% ed il 100% e con sequele manifestantesi tra l’edema di media entità e l’edema invalidante con dolore, alterazioni trofiche cutanee fino all’ulcerazione; recentemente l’indicazione all’impiego di gambaletti elastici a compressione 40 mmHg alla caviglia per almeno 2 anni ha ricevuto l’avallo di uno studio randomizzato controllato con dimezzamento dell’incidenza di SPT quando la calza era regolarmente usata (Brandjes 1997).

Raccomandazione

Dopo una TVP deve essere consigliato l’uso di calza elastica almeno per 2 anni ed almeno di 20mmHg – Grado A

  1. Compressione Post-Chirurgia e Post-Scleroterapia delle Varici

La compressione dopo chirurgia ha indicazione per la prevenzione del tromboembolismo venoso, ma anche per la prevenzione di ematomi, per la cura dei disturbi post-operatori, la recidiva delle recidive varicose (Neumann 1988, Perrin 1994, Travers 1994).

Raccomandazione

I pazienti sottoposti a terapie flebologiche attive (chirurgia e scleroterapia) necessitano di tutori di compressione pur non potendosi codificare una scelta del tipo – Grado B

Forme Croniche

  1. Sintomi di Lieve Insufficienza Venosa Di Tipo Funzionale – (CEAP “0” = Non segni visibili di malattia venosa)

Non sono disponibili sicuri dati circa l’efficacia delle calze “riposanti” o “preventive” del commercio (Godin 1987).

Raccomandazione

Non è possibile allo stato delle conoscenza dare indicazione all’uso di tutori elastici riposanti e/o preventivi – Grado C

  1. Teleangiectasie e Varici Reticolari – (CEAP “1”)

La presenza di ectasie venose accompagnanti sintomi clinici di IVC da indicazione ad un incremento dei livelli di compressione da esercitare alla caviglia e conseguentemente a polpaccio e coscia (Choucair 1998).

Raccomandazione

I dati fisiopatologici non concordano con le indicazioni descritte, non è possibile pertanto raccomandare l’uso cronico di tutori compressivi in queste manifestazioni – Grado C

  1. Vene Varicose – (CEAP “2”)

La compressione è da considerarsi fondamentale per la gestione clinica del paziente con vene varicose per gli effetti di riduzione di pesantezza e dolore emodinamici e sul trofismo tessutale sia sola (Chant 1985, Hobbs 1991, Labropulos 1993) che in associazione a terapia farmacologica (Diehm 1996) In un piccolo gruppo di pazienti (31), peraltro affetti da varici non complicate, calze con compressioni minori, 20 mm Hg alla caviglia, sono risultate altrettanto efficaci sia dal punto di vista clinico che emodinamico di calze con pressione di 30 mm Hg, con una migliore compliance (Jungbeck 1997).

Raccomandazione

l’uso di un trattamento compressivo è raccomandato. L’esiguità di letteratura adeguata per numerosità di campioni non consente di dare indicazione certa per i livelli di compressione alla caviglia che dovrebbero comunque essere superiori a 18 mm di Hg – Grado B

  1. Edema – (CEAP “3”)

L’edema è una complicanza comune dell’insufficienza venosa sin dagli stadi di minor rilevanza clinica. E’ presente come succulenza perimalleolare serotina nell’IVC e compare progressivamente più evidente nella malattia varicosa complicata da compromissione cutanea e nell’ulcera da stasi. L’eziopatogenesi è rappresentata dallo stravolgimento dei rapporti pressori interstiziali causato dall’ipertensione venosa (Stemmer 1995).

Raccomandazione: la letteratura disponibile e del tutto esigua, in mancanza di trials clinici ed in considerazione del possibile peggioramento della qualità della vita determinato da un uso di compressione indiscriminato, non consentono di porre indicazione generalizzata alla terapia compressiva. Grado C

  1. Turbe Trofiche Di Origine Venosa: Pigmentazione, Eczema Venoso, Ipodermite, Ulcera Cicatrizzata – (CEAP “4”)

La presenza di alterazioni cutanee nella malattia venosa cronica è indice di grave sofferenza tessutale sostenuta da ipossia da stasi cronica. Da una revisione della letteratura operata da Moffatt (Moffatt 1997) risulta una incidenza di recidiva di ulcera senza compressione nei 2/3 dei pazienti.

Raccomandazione

La compressione è raccomandata nella prevenzione della recidiva di ulcera (30 – 40 mm Hg alla caviglia) – Grado B

  1. Ulcera Venosa – (CEAP “5 – 6”)

Il trattamento dell’ulcera venosa risente efficacemente della terapia compressiva successiva a detersione chirurgica e/o farmacologica locale, mediante calze compressive elastiche, bendaggio di Unna, bendaggio multistrato, compressione pneumatica intermittente. Una recente revisione della letteratura pubblicata nel 1997 sul BMJ (Fletcher 1997) che ha preso in considerazione tutti i trials disponibili sul trattamento dell’ulcera venosa ha consentito di concludere che la compressione migliora la prognosi di questa affezione, privilegiando l’uso di alti livelli pressori. Non vi sarebbe chiara superiorità di un sistema di fasciatura rispetto ad altri (multistrato, benda a corto allungamento, bendaggio di Unna).

Raccomandazione

E’ raccomandato l’uso della terapia compressiva nel trattamento dell’ulcera venosa da stasi (bendaggio anelastico; gambaletto con compressione > 40 mm Hg) – Grado B

  1. FARMACOTERAPIA

La farmacoterapia dell’IVC si è sviluppata negli ultimi 40 anni. Sino ad allora poteva apparire sorprendente che non esistessero apporti clinici o sperimentali che perseguissero l’intento di studiare i problemi del tono e della contrattilità delle vene nonché della pressione venosa in rapporto coi problemi terapeutici (Mascherpa, 1939).

I farmaci del sistema venoso furono dapprima chiamati flebotonici in relazione al più ipotizzato meccanismo d’azione sul tono venoso e fondamentalmente impiegati finora per il trattamento sintomatico e di conforto al paziente con IVC (Agenzia Nazionale Francese, 1996).

I farmaci flebotropi, nella più moderna accezione comprendente molteplici potenziali targets d’azione (Tab 1), sono prodotti d’origine naturale, seminaturale e prodotti sintetici, taluni con più principi attivi associati per migliorarne l’efficacia. La maggiore parte di questi prodotti appartiene alla famiglia dei flavonoidi che è ricca di 600-800 sostanze ben identificate e che sono raggruppate da Geissman e Hinreiner sotto il nome di flavonoidi, polifenoli vegetali con una struttura chimica del flavone cui nel 1955, per decisione della Accademia delle Scienze di New York, venne dato il nome “ Bioflavonoidi “ (Allegra 1986)

Tabella 3. Processi fisiopatologici venosi influenzati dalla farmacoterapia. – Ridotto tono venoso – Emoconcentrazione – Depressione del reflusso venoarteriolare – Disturbo della vasomozione – Aumento della permeabilità capillare – Edema – Cuffia di fibrina pericapillare – Ridotta fibrinolisi – Aumento del plasminogeno plasmatico – Alterazioni della reologia leucocitaria ed eritrocitaria – Attivazione leucocitaria – Microtrombosi capillare – Stasi del microcircolo – Ridotto drenaggio linfatico

Indipendentemente dal meccanismo d’azione di diversa natura ma caratterizzato dalla proprietà di attivare il ritorno venoso e linfatico, numerose sono le evidenze per una strategia terapeutica di scelta con farmaci flebotropi nell’IVC in cui la chirurgia non sia indicata, non sia possibile o possa essere coadiuvata dalla farmacoterapia (Agus, 1992; Coleridge Smith, 1994, 1996; Nicolaides, 1992; Merlen 1985; Zaragoza Garcia e Domingues Rodrigues., 1998; Allegra C 1995).

I farmaci flebotropi largamente commercializzati e prescritti in Italia, Francia, Germania ed in generale in Europa, risultano meno utilizzati nell’area anglosassone e scandinava in base ad una presunta scarsezza di dati pubblicati in passato. Tale limite è oggi in corso di superamento grazie alle nuove metodologie di studio.

Gli effetti dei farmaci flebotropi sui parametri fisiologici quali tono venoso, emodinamica venosa, permeabilità capillare e drenaggio linfatico, possono essere valutati con vari metodi della diagnostica flebologica preferibilmente non inasiva (Circulation 2000), tuttavia il principale strumento per la valutazione degli effetti clinici di un farmaco flebotropo è dato dal trial clinico ben condotto con soddisfacenti requisiti su base clinica, scientifica ed etica (Good Clinical Practice for Trials in Medicine Products in the European Community, 1990). Il trial deve essere randomizzato, possibilmente doppio- cieco, con adeguata forza per provare a rispondere a domande ben definite che corrispondano allo stato di malattia: la recente classificazione CEAP permette l’uso del medesimo sistema a score dei quadri clinici prima e dopo trattamento. Devono essere considerati i sintomi, i segni e la qualità della vita.

L’efficacia su tali differenti outcomes può essere ottenuta da farmaci che pur a diversa struttura chimica hanno la stessa indicazione clinica. La classificazione ATC definisce i farmaci flebotropi come “vasoprotettori”, distinguendo una terapia antivaricosa topica dall’uso di “sostanze capillaroprotettrici” prevalentemente a base di bioflavonoidi (Tab.3).

Tabella 4 VASOPROTETTORI

CO5 B Terapia antivaricosa CO5 C Sostanze capillaroprotettrici

CO5BA Preparati contenenti eparina CO5CA Bioflavonoid

Aremin (Pulitzer) Alven (Alfa Wassermann)

Clarisco (Schwarz) Angiorex (Lampugnani)

Dermoangiopan (Abiogen Pharma) Arvenum (Stroder)

Erevan (Fourmier Pierrel) Arvenum 500 (Stroder)

Essaven Gel (Rhone-Poulen-Rorer) Cvp (Rhone –Poulen-Rorer)

Fibrase (Teofarma) Cvp Duo (Rhone-Poulen-Rorer)

Flebs (Pierre Fabre Pharm.) Daflon 500 (Servier)

Hemovasal (Manetti Roberts) Diosven (CT)

Hirodex (New Farma) Doven (Eurofarmaco)

Hirudoid 25000 (Sankyo Pharma) Doven Forte (Eurofarmaco)

Hirudoid 40000 (Sankyo Pharma) Essaven (Rhone-Poulen-Rorer)

Lasonil (Bayer Italia) Flavone 500 (Ecobi)

Lasonil Nebuliz. (Bayer Italia) Flebil (Molteni)

Lasoven Gel (Bayer Italia) Fleboside (Mastelli)

Lioton 1000 (Sanofi Wintrhop) Fleboside 300 (Mastelli)

Stranoval (Teofarma) Pericel 500 (New Farma)

Traumal (Novartis Con.Heal.) Rutisan Ce (Camillo Erba OTC)

Venotrauma (Also) Tegens (Synthelabo)

Venalisin (Agips)

Venolen (Farmacologico Mil.)

Venoruton (Novartis Con.Heal.)

Venoruton Intens (Novartis Con.Heal.)

Venoruton 1000 (Novartis Con.Heal.)

Venosmine (Geymonat)

Venosmine Forte (Geymonat)

Venosmine 300 (Geymonat)

CO5CX Altre sostanze capillaroprotettrici

Bres (Farmacologico Mil.)

Capillarema (Baldacci)

Castindia (Vaillant)

Centellase (Hoechst Pharma)

Curaven (Boeringer Ing.)

Doxium (Abiogen Pharma)

Flebostasin R (Sankyo Pharma)

Fludarene (Merck Sharp Dohme)

Idro P2 Ascorbico (Sanofi Winthrop)

Idro P2 Ascorbico Forte (Sanofi Winthrop)

Reparil (Madans)

Reparil Mite (Madans)

Varicogel (Alfa Wassermann)

Venoplus (Also)

L’efficacia clinica sui sintomi (senso di peso, dolore, parestesie, sensazione di caldo e bruciore, crampi notturni, ecc) è da sempre comprovata da livelli di evidenza III, IV, V, ma sono oggi disponibili studi di livello I-II su specifici farmaci .

Tra i bioflavonoidi, studi randomizzati e in doppio cieco sono riferibili alla diosmina (Dominguez, 1992; Gilly, 1994); alla troxerutina (Vin, 1994); alla rutosidea (Poynard, 1994); all’escina (Zucarelli, 1993); agli antocianosidi del mirtillo (Allegra, 1986); tra le molecole di sintesi al calcio deobesilato (Widmer, 1990). Un’azione flebotropa ben dimostrata in classe di farmaci differenti dai flavonoidi risulta per il ruscus aculeatus (Vanhoutte, 1991) e per la centella asiatica (Allegra, 1987).

L’efficacia clinica sul principale segno, l’edema, è mostrata da diversi agenti protettivi con effetti sulla microcircolazione attraverso l’abbassamento della permeabilità endoteliale; un ridotto rilasciamento di enzimi lisosomiali e sostanze infiammatorie; l’inibizione di radicali liberi e la ridotta adesione di globuli bianchi (Consensus Statement, 1996; Diehm, 1996; Markwardt, 1996).

Il miglioramento sorprendente della qualità della vita dopo somministrazione di 1 gr di Diosmina micronizzata, studio condotto su 934 pazienti portatori di IVC, è stato evidenziato per tutte le dimensioni della vita: fisica, psicologica, relazionale (Launois, 1994). Nell’ultimo decennio si è meglio evidenziato il rapporto tra macro- e microcircolazione specie nei quadri più severi di IVC: era già noto il rapporto tra reflussi e ipertensione venosa quale causa di un danno a livello capillare (Wenner, 1980; Fagrell, 1982). Molteplici studi di base e sull’uomo hanno confermato l’effetto microcircolatorio di alcuni farmaci flebotropi e particolarmente della associazione Diosmina-Esperidina micronizzata sui parametri microcircolatori compromessi nella IVC (Allegra 1995 e 1997, Guilhou 1992, Lanois 1994, Boineau-Geniaux 1988).

Sulle suddette premesse sono stati introdotti in clinica una serie di farmaci la cui utilità clinica non sempre e non del tutto è stata evidenziata da sufficienti studi clinici di adeguata forza. Essi vengono usati come coadiuvanti il trattamento dell’ IVC severa (stadi 4/5/6 CEAP) e compresi nella classificazione ATC nel raggruppamento BO1, Antitrombotici, ed in alcuni casi nel CO4/CO1E, Vasodilatatori , per la loro azione sulle alterazioni endoteliali ed emoreologiche, sulla presenza di micro trombi e sull’effetto barriera all’ossigeno.

Tra i fibrinolitici sono documentati gli effetti dell’urokinasi (Ehrly, 1989; Partsch, 1991); azione profibrinolitica hanno i glicosaminoglicani quali il sulodexide (Haremberg, 1998) e l’ eparansolfato (Allegra, 1993); il defibrotide (Cesarone, 1997); mentre lo spazio per lo stanozololo è da considerarsi ormai assai limitato (Agus, 1981; Stacey, 1990).

Tra i vasodilatatori sono ben documentati gli effetti della pentossifillina (Colgan, 1990; Weitgasser, 1983) e della prostaglandina E1 (Rudofsky, 1989), entrambi nel trattamento delle ulcere.

Per il solo trattamento coadiuvante la guarigione delle ulcere è stata posta l’unica indicazione all’antiaggregazione piastrinica nell’IVC con l’aspirina (Layton, 1994).

Raccomandazione

Sono numerose le evidenze per una strategia terapeutica di scelta con farmaci flebotropi nell’IVC quando la chirurgia non sia indicata, non sia possibile o possa essere coadiuvata dalla farmacoterapia. L’uso dei farmaci flebotropi trova la sua indicazione clinica sui sintomi soggettivi e funzionali dell’IVC (stancabilità, crampi notturni, gambe irrequiete, pesantezza, tensione) e sull’edema – Grado A

  1. FISIOTERAPIA

Norme generali di comportamento per l’insufficienza venosa e linfatica cronica sono sempre da consigliare (Agus, 2000).

Le regole igienico-dietetiche sono oggi abbastanza note al pubblico stesso attraverso i media sulla salute, dirette in particolare alla prevenzione. Il medico generale e lo specialista dovranno dedicare una parte dell’impostazione terapeutica ad esse, trovando il tempo per convincere i pazienti a seguirle, in questo facilitati dalla disponibilità di schede e schemi prestampati e ben accetti dal paziente, specie se personalizzati da un segno, una annotazione.

Soprattutto l’esercizio fisico attivo e le norme posturali dovranno essere prescritte con corretta “posologia” e controindicazioni(Abu-Own, 1994; Ohgi, 1995). Valutazioni cliniche e strumentali con flebodinamometria, pletismografia e tensione transcutanea di ossigeno, dimostrano i vantaggi sulla macro- e micro-circolazione di programmi di training di esercizio fisico (Jünger et Al., 1992).

Drenaggio veno-linfatico manuale (linfodrenaggio)

Sicuramente una delle metodiche massoterapiche piú diffuse e collaudate per tutte le forme di flebo-linfostasi, il drenaggio linfatico manuale fu introdotto da E. Vodder nel 1936, piú recentemente ripreso con codificazione dell’uso attuale da Leduc (1978) e dalla stessa scuola di Vodder (Viñas, 1993). Indicato anche per l’IVC (Garde, 1992; Thomson, 1994).

Sul piano tecnico il concetto dell’azione “meccanica” del sistema Vodder si basa sull’armonico spostamento di liquidi e soluti interstiziali attraverso i capillari linfatici verso i gangli o pozzi di drenaggio principali.

La ritmicità e la fluidità dei movimenti dell’esecutore sono fondamentali e devono rispettare e potenziare le capacità fisiologiche di smaltimento idrico dei tessuti trattati; è quindi importante valutare ogni distretto anatomico nella sua “globalità” imprimendo forza e coordinazione al gesto manuale compressivo.

Le sensazioni di benessere immediato indicano una buona esecuzione tecnica del massaggio la cui efficacia è certo dipendente dall’esperienza e dalla capacità manuale dell’esecutore. I risultati sono attestai dall’immediata diminuzione della circonferenza dell’arto e da studi mediante linfoscintigrafia indiretta.

In Germania, il trattamento fisioterapico dei linfedemi basato sul linfodrenaggio, viene definito come KPE (Komplexe Physikalische Entstauungstherapie), che si potrebbe tradurre come “Trattamento Fisioterapico Multifattoriale di Decongestionamento” (Földi, 1993).

Raccomandazione

L’esperienza e i più recenti studi clinici e strumentali confermano l’efficacia di norme generali di comportamento, della fisioterapia e del venolinfodrenaggio manuale – Grado C

  1. TERMALISMO

L’azione benefica dell’acqua sulla stasi venosa e linfatica degli arti è ben nota ed empiricamente usata da sempre dagli stessi pazienti (Lacroix 1997, Pagni 1993).

Essa però, nelle sue varie forme necessita di precise indicazioni e posologie terapeutiche (onde evitare controindicazioni e complicanze). In generale, i trattamenti a casa, in località di mare o termali, si basano sugli effetti della pressione idrostatica, sulla temperatura del bagno e sulla costituzione chimica dell’acqua per l’effetto medicamentoso dei sali (Gualtierotti 1992).

L’azione terapeutica si svolge attraverso due meccanismi di azione:

  1. Aspecifico o idroterapico in senso lato, consistente nella utilizzazione delle proprietà fisiche che le acque possono offrire:

– Temperatura

– Pressione idrostatica

– Movimento: attivo e/o passivo

– Movimento: attivo e/o passivo

Specifico o crenoterapico propriamente detto, legato alle caratteristiche chimico-fisiche dell’acqua utilizzata:

– Sali minerali

– Oligoelementi

– Termalità

– Concentrazione

Se da un punto di vista fisico l’impiego di qualsiasi acqua minerale può essere di giovamento, dal punto di vista chimico solo alcuni tipi di acque presentano precise indicazioni nel trattamento e riabilitazione dell’insufficienza venosa e linfatica cronica (Tabella 4).

Tabella 5 Sono indicate le acque termali utilizzate per scopi preventivo-terapeutico-riabilitativi dell’insufficienza venosa e linfatica.

– Salsobromoiodiche Azione disimbibente sui tessuti edematosi

– Sulfuree Azione antiinfiammatoria

– Arsenicali ferruginose Azione tonica, stimolante ed antistress

– Solfato calciche Stimolano la contrattilità venosa

– Radioattive Azione sedativa, analgesica e antispastica

– Carboniche Azione tonificante

La terapia termale può essere effettuata in qualsiasi momento dell’anno. Se possibile, sarebbe indicato compiere due cicli all’anno di crenoterapia, preferibilmente in autunno e primavera, comunque con un intervallo tra di essi di almeno tre mesi.

Perché il trattamento esplichi le sue potenzialità terapeutiche, ogni ciclo di terapia dovrebbe durare almeno tre settimane, non è consigliabile un periodo inferiore alle due settimane (Ernst 1992, Lapilli 1988).

Raccomandazione

La terapia termale dell’IVC, espletata in località e con modalità idonee ha mostrato la sua efficacia anche in studi controllati – Grado B

  1. TERAPIA DELLE ULCERE VENOSE

Introduzione

Studi epidemiologici eseguiti negli anni’80 hanno messo in evidenza che le ulcere delle gambe interessano circa l’1-2% della popolazione adulta. (Widmer 1978; Callam 1985)

Sebbene i fattori eziologici possono esseri assai vari, la maggior parte dei pazienti con ulcere delle gambe è affetta da una malattia venosa. (Baker 1991; Scriven 1997)

Si ritiene che l’insufficienza venosa cronica, benché sia stata meno studiata ed abbia ricevuto meno attenzione dell’insufficienza arteriosa cronica, colpisca la popolazione adulta in misura 10 volte superiore. (O’Donnell 1988). Nonostante ciò la cura dell’ulcera venosa è spesso trascurata o è del tutto inadeguata. Molti pazienti vanno avanti e camminano per mesi o addirittura per anni con l’ulcera ricoperta da medicazioni locali, senza che venga minimamente corretta l’insufficienza venosa che ne sta alla base. (The Alexander House Group 1992).

Aspetto dell’ulcera venosa

L’ulcera venosa della gamba si presenta di solito come una perdita di sostanza cutanea di forma irregolare, con il fondo ricoperto da un essudato giallastro, con margini ben definiti, circondata da cute eritematosa o iperpigmentata e liposclerotica.

Le ulcere variano in dimensione e sede, ma nei pazienti portatori di varici si osservano abitualmente nella regione mediale del terzo inferiore di gamba. (Mancini 1990).

Un’ulcera venosa nella parte laterale di gamba è spesso associata ad insufficienza della piccola safena. (Bass 1997)

I pazienti con ulcera venosa possono lamentare intenso dolore, anche in assenza di infezione. Il dolore è aggravato dalla stazione eretta e diminuisce fino a scomparire con l’elevazione dell’arto inferiore. (Mancini 1990).

Trattamento dell’ulcera venosa

La terapia delle ulcere venose si fonda sulla conoscenza dei meccanismi fisiopatologici che entrano in gioco nel determinismo dell’ulcera. Tali meccanismi non sono più basati esclusivamente sulle nozioni di emodinamica macrovascolare, ma coinvolgono l’unità microcircolatoria ed il laboratorio endoteliale (Coleridge Smith 1999; Circulation 2000).

Poiché l’ulcera venosa rappresenta una condizione cronica caratterizzata dalla lenta riparazione e dalla tendenza a recidivare, obiettivo della terapia è non soltanto la guarigione, ma anche e soprattutto la prevenzione della recidiva (Gillies 1996). Allo stesso tempo è di fondamentale importanza migliorare lo stato psicologico del paziente, sia per l’accettazione e la collaborazione nel programma terapeutico, sia per la stessa qualità di vita (Franks 1999).

La terapia di un’ulcera venosa può coinvolgere uno o più mjdei seguenti tss=”MsoNormal”>La terapia di un’ulcera venosa può coinvolgere uno o più dei seguenti trattamenti (The Alexander House Group 1992):

  1. trattamento di base
  2. terapia farmacologica
  3. compressione
  4. medicazione topica
  5. chirurgia
  6. scleroterapia
  7. altre terapie
  8. misure generali
  1. Trattamento di base

Il trattamento di base dovrebbe conformarsi alla regola generale di considerare il paziente nella sua interezza e non focalizzarsi esclusivamente sulla cura dell’ulcera (Ruckley 1996).In questo contesto di grande importanza sono il modus vivendi del paziente, la sua capacità deambulatoria, il suo lavoro, l’eventualità presenza di obesità, diabete o altre malattie concomitanti. (The Alexander House Group 1992).

  1. Terapia farmacologica

Riconosce come principali bersagli il tono venoso, l’emoconcentrazione, l’aumentata permeabilità capillare, l’edema, la ridotta attività fibrinolitica, l’incremento del fibrinogeno plasmatico, le anomalie della funzione leucocitaria, il controllo del dolore e delle sovrainfezioni, le malattie concomitanti.

Vengono comunemente impiegati agenti fibrinolitici o favorenti la fibrinolisi, idrossirutosidi (Mann 1981, Stegmann 1986, Wright 1991) diosmina-esperidina (Guilhou 1997, Glinsky 1999) , prostaglandina E1 (Beitner 1980, Rudofsky 1989), pentossifillina (Dormandy 1995).

A causa del livello non alto di molti trials clinici circa la terapia farmacologica di supporto nei pazienti con ulcera venosa, l’efficacia di taluni farmaci sulla guarigione delle lesioni è ancora discussa. I limiti metodologici del passato sono peraltro stati superati dai più recenti trials almeno per quanto riguarda determinati bioflavonoidi in associazione all’elastocompressione (Guilhou 1997, Glinsky 1999).

  1. Compressione

Tutti i pazienti portatori di un’ulcera venosa richiedono un trattamento compressivo. Qualsiasi altra cura dell’ulcera venosa dovrebbe essere sempre associata alla compressione. E’ però necessario che il paziente sia in grado di deambulare, al fine di ottenere il massimo beneficio dalla compressione. (Bassi 1962).

La compressione serve ad aumentare il fluss= venoso, a dimyle=”margin-left:35.45pt”> La compressione serve ad aumentare il flusso venoso, a diminuire il reflusso patologico durante il cammino (Partsch 1990), a migliorare la microcircolazione ed il drenaggio linfatico (Fletcher 1997). In tal modo si riduce l’edema cronico, si riduce l’essudato dell’ulcera e la lesione regredi35.45pt”> La terapia compressiva può essere attuata utilizzando bendaggi o calze elastiche. (Mancini 1990; Zimmet 1992).

Nella fase acuta dell’ulcera è preferibile una compressione fatta con bende anelastiche, con bende all’ossido di zinco o con un bendaggio multistrato. Quest’ultimo può essere lasciato in sede anche per una settimana, ma all’inizio del trattamento, finchè l’essudato e l’edema non diminuiscono, è preferibile rimuovere ed applicare il bendaggio più spesso. Buoni risultati in termini di guarigione delle ulcere venose sono stati riferiti con l’utilizzo di dispositivi compressivi a quattro strati (Moffat 1992; Simon 1996), che sembrano efficaci come adeguatezza di compressione, anche se confezionati da personale poco esperto (Stockport 1997). Tuttavia non vi è al momento accordo sulla maggiore efficacia del sistema multistrato rispetto a quello bistrato.

Il bendaggio dovrebbe essere in grado di esercitare una pressione di riposo di almeno 20-30 mmHg (Stemmer 1995) a livello della caviglia e del terzo inferiore di gamba, più bassa a livello del terzo superiore di gamba e del ginocchio, in maniera da dare una compressione graduata. (Stemmer 1995; The Alexander House Group 1992).

Nei pazienti in cui sia presente un’arteriopatia obliterante di modesta entità con un indice ABI compreso tra 0,6 e 0,8, il bendaggio va praticato con molta attenzione. E’ imperativo in questi casi che esso venga fatto con materiale anelastico, in maniera da esercitare una bassa pressione di riposo. Se l’insufficienza arteriosa è severa con un indice ABI al di sotto di 0,6, qualsiasi tipo di compressione è controindicata. (The Alexander House Group 1992)

La compressione mediante calze elastiche è utilizzata per mantenere il risultato raggiunto nella cura dell’ulcera venosa e prevenire le recidive. Generalmente sono utilizzate calze della II classe di compressione (30-40 mmHg di pressione alla caviglia) o della III classe (40-50 mmHg). Nei pazienti anziani o quando coesistono problemi di mobilità articolare può essere più facile far indossare due calze sovrapposte l’una sull’altra della I classe di compressione (20-30 mmHg alla caviglia). (Zimmet 1992). Nei pazienti allettati o che comunque camminano poco può essere presa in considerazione l’opportunità di utilizzare la calza antitrombo. In pazienti selezionati può essere utile ricorrere alla compressione pneumatica intermittente. (Coleridge Smith 1990).

Le recidive sono tuttora frequenti sia a breve termine che a distanza dalla guarigione, variando dal 20 al 75% (Callam 1987; Nelzen 1999). Le recidive sono legate a vari fattori di rischio, ma soprattutto alla persistenza dell’alterazione emodinamica ed alla inadeguatezza o non accettabilità del tutore compressivo. (Moffat 1992; Travers 1994).

Il successo della compressione dipende anche dalla mobilità del paziente, il quale deve essere perciò incoraggiato a muoversi e a compiere regolari esercizi fisici e riabilitativi. (Bassi 1962; Cornu-Thénard 1983).

  1. Medicazione topica

Nel programmare la cura locale di un paziente con un’ulcera venosa è importante l’osservazione clinica, perché si deve tener conto della presenza di tessuto non vitale, dell’entità dell’essudato, di una eventuale infezione, dello stato della cute che circonda l’ulcera. (Zimmet 1992).

Il trattamento topico dell’ulcera venosa deve assicurare la detersione della lesione, la conservazione del microambiente, la protezione dagli agenti infettanti e la stimolazione dei meccanismi riparativi cellulari. (Mancini 1990).

La medicazione ideale dovrebbe possedere le seguenti caratteristiche:

– non aderire, né lasciare residui sul fondo dell’ulcera

– mantenere la superficie dell’ulcera umida

– essere impermeabile ai liquidi, ma permettere gli scambi gassosi

– creare una barriera contro i batteri e i miceti

– stimolare la crescita del tessuto di granulazione

– alleviare il dolore

– avere un costo ragionevole.

L’esperienza dimostra che ogni prodotto si rivela inizialmente efficace, ma tale beneficio può decrescere nel tempo, mentre un altro prodotto può poi portare a guarigione l’ulcera.

Per questo motivo si dovrebbe enfatizzare nel loro trattamento un atteggiamento dinamico, tenuto conto di varie fasi evolutive nella storia naturale dell’ulcera, che variamente può presentarsi necrotica, fibrinosa, essudante, infetta, detersa, ganuleggiante, in fase di riepitelizzazione.

Se un tempo l’unica terapia era il bendaggio compressivo rigido e la medicazione locale con pochi prodotti detergenti e/o disinfettanti, attualmente si hanno a disposizione con indicazioni diverse a seconda delle fasi suddette, medicazioni occlusive, semiocclusive, assorbenti, medicazioni a base di carbossimetilcellulosa, alginati, poliuretano, collagene, colla di fibrina, chitosano, in forma di paste, di granuli, di schiume, di gel.

Recentemente è stata proposta l’applicazione locale di fattori di crescita (Rothe 1992),somministrati anche per infiltrazione (Marques da Costa 1997).

Qualora sia presente un’infezione, devono essere allestite colture dell’essudato ed il trattamento iniziare con antibiotici sistemici. Gli antibiotici per uso topico non sono generalmente utilizzati, perché favoriscono l’insorgenza di dermatiti da contatto. (Hansson 1995; Douglas 1995).

E’ stato dimostrato in un trial prospettico che i pazienti con ulcera venosa, trattati con l’emulsione argento-sulfadiazina associata ad elastocompressione, sono guariti più velocemente rispetto al gruppo trattato con la sola compressione. (Bishop 1992) (6)

Nelle fasi più avanzate del processo di guarigione, quando la secrezione è scarsa e l’ulcera si superficializza, si può ricorrere alle medicazioni cosiddette biologiche, utilizzando delle sottili pellicole a base di cellulosa o di acido jaluronico, che da una parte esercitano una funzione protettiva, impedendo l’infezione dell’ulcera, dall’altra forniscono un buon supporto per la migrazione e la proliferazione delle cellule basali dell’epidermide, mantenendo un adeguato livello di umidità che evita l’essicamento della lesione. (Mancini 1990).

  1. Chirurgia

La chirurgia dell’ulcera venosa non è da considerarsi né in esclusiva, né in alternativa, ma complementare al trattamento conservativo.

La terapia chirurgica dell’ulcera persegue due obiettivi fondamentali:

a) la correzione dell’alterazione emodinamica di base

b) la copertura dell’ulcera mediante innesti cutanei allo scopo di ridurre i tempi di guarigione.

La scelta della procedura più idonea deve sempre essere preceduta da un accurato studio morfologico ed emodinamico del sistema venoso sia superficiale che profondo con le abituali metodiche diagnostiche (Nicolaides 1999; Coleridge-Smith 1999).

Si ritiene comunemente che in pazienti con ulcera varicosa la chirurgia del sistema venoso superficiale offra ottimi risultati, riducendo i tempi di guarigione e le recidive a distanza, specialmente in assenza di alterazioni del sistema venoso profondo (Ruckley 1996).

Più deludenti sono i risultati della chirurgia in caso di ulcere post-trombotiche (Kistner 1997). (25)

Circa il ruolo delle vene perforanti nell’insufficienza venosa cronica, è certo che il loro trattamento è stato di recente migliorato dallo sviluppo della tecnica di legatura sottofasciale per via endoscopica. (Bergan 1996). Benchè i risultati precoci siano ottimi, il fallimento della guarigione dell’ulcera o la recidiva è compresa in un range percentuale che vaatal 2,5 al 22%.ano ottimi, il fallimento della guarigione dell’ulcera o la recidiva è compresa in un range percentuale che vaerforanti perimalleolari. In uno studio recente è stato osservato che il 50% delle perforanti incontinenti entro i 10 cm dal suolo, identificate preoperatoriamente con il duplex, non vengono trattate dalla tecnica endoscopica. (Pierik 1997)

La correzione totale dell’insufficienza delle vene superficiali e delle vene perforanti dovrebbe essere sempre effettuata, prima di considerare interventi sul circolo venoso profondo.

Le valvuloplastiche, i trapianti di valvola venosa e gli interventi di trasposizione venosa dovrebbero essere lasciati come ultima risorsa. Si tratta di procedure in fase di sviluppo, le quali vanno prese in considerazione esclusivamente in centri specializzati e nell’ambito di studi clinici controllati. (The Alexander House Group 1992)

Per quanto riguarda gli innesti cutanei, questi possono essere attuati con varie metodiche:

  • “meshed split skin grafting” (Lofgren 1965)
  • “pinch grafting” (Poskitt 1987)
  • omotrapianto di cheratinociti umani coltivati in vitro (De Luca 1992)
  • trapianto di lembi liberi con segmenti venosi valvolati, previa ulcerectomia e legature delle
  • perforanti insufficienti (Dunn 1984)
  • “shave therapy”, cioè ulcerectomia, rimozione del tessuto lipodermatosclerotico ed innesto in “meshed” (Schmeller 1996)

I risultati migliori si ottengono con la tecnica del meshed grafting, mentre sono in fase di revisione critica gli innesti di cheratinociti umani e dei sostituti della cute umana, non essendovi attualmente dei lavori che ne dimostrino l’efficacia nelle recidive a distanza (Moneta 1999).

  1. Scleroterapia

Nei pazienti con insufficienza del sistema venoso superficiale ed in particolare in presenza di reflussi brevi da vene perforanti insufficienti può essere indicata in casi selezionati la scleroterapia associata a compressione (Dinn 1992), anche se è presente un’ulcera aperta (Arnoldi 1966).

In un recente studio è stata riproposta la scleroterapia sotto guida ecografica (Grondin 1997).

  1. Altre terapie
  • ossigenoterapia iperbarica
  • elettroionoterapia
  • vacuum terapia
  • luce polarizzata
  • laserterapia

Si tratta di esperienze condotte su casistiche limitate, né vi sono al momento documentazioni esaurienti per i risultati ottenuti ed il follow-up.

  1. Misure generali

I pazienti con un ulcera venosa dovrebbero essere istruiti a mantenere un peso corporeo il più possibile vicino a quello ideale.

Una passeggiata regolare in pianura, 2-3 volte al giorno, per almeno 30 minuti, dovrebbe essere largamente incoraggiata.

I lunghi periodi di stazione eretta devono essere evitati.

E’ utile che i pazienti periodicamente sopraelevino la gamba al di sopra del piano del cuore e dormano con i piedi del letto sollevati.

Nei pazienti con edema da insufficienza venosa cronica può essere preso in considerazione il drenaggio linfatico manuale.

La terapia fisica può migliorare la mobilità articolare della caviglia. La terapia delle ulcere venose è un problema antico, dibattuto, ma non risolto, essendo queste lesioni lente nella riparazione e facilmente recidivanti.

In letteratura sono presenti molti studi clinici, i quali però non sono rappresentativi della popolazione in generale, perché troppo selettivi. Vengono di solito forniti i risultati in termini di guarigione a breve termine, senza dare dati sulle recidive a distanza. E’ necessario pertanto un maggior rigore della metodologia e degli standards di indagine, perché possa sussistere una evidenza clinica e quindi una validazione.

Raccomandazioni

La terapia conservativa ha un ruolo importante in prima istanza, ma si è rivelata inefficace nella prevenzione delle recidive a distanza, se non supportata in molti casi dalla correzione chirurgica della turba emodinamica, la quale dà buoni risultati solo in caso di insufficienza isolata del sistema venoso superficiale – Grado B

La terapia compressiva, se correttamente condotta, è in grado di curare e prevenire la recidiva di ulcera – Grado A

  1. MALFORMAZIONI VENOSE

Le malformazioni venose (MV) costituiscono l’anomalia vascolare <ù diffusa nellrmal”>Le malformazioni venose (MV) costituiscono l’anomalia vascolare e=”Bookman Old Style” size=”3″>Si tratta di malformazioni congenite caratterizzate dalla presenza di varie alterazioni morfo-strutturali e funzionali del sistema venoso centrale o periferico.

Recenti studi hanno consolidato l’ipotesi che la patogenesi delle MV sia collegata ad anomalie su base genetica di vari mediatori biochimici (tra cui l’angiopoietina) e dei rispettivi recettori di membrana che regolano l’interazione tra cellule endoteliali e muscolari lisce nelle fasi terminali dell’angiogenesi: ne consegue un difetto di maturazione con formazione di vene anomale la cui parete è costituita da un monostrato di cellule endoteliali piatte in assenza di una vera tunica muscolare liscia.

Le MV si presentano prevalentemente in forma sporadica in soggetti con anamnesi parentale negativa, ma sono descritte anche forme ereditarie a carattere familiare.

Si tratta nella maggioranza dei casi di malformazioni isolate, ma si osservano talora forme multifocali o addirittura disseminate a carattere sistemico.

Le localizzazioni superficiali cutanee e mucose sono prevalenti, ma si osservano frequentemente forme a sede intramuscolare o intraossea e qualsiasi organo può essere interessato.

La distribuzione per sede mostra una netta prevalenza delle MV periferiche (soprattutto a carico degli arti inferiori) e delle MV cranio-facciali (in particolare in regione temporo-masseterina, fronto-palpebrale, labiale e linguale). Altre localizzazioni di riscontro meno frequente sono quelle toraciche, addominali e genitali.

Le MV producono molteplici effetti secondari e/o complicazioni. Le ripercussioni estetiche e psicologiche costituiscono senz’altro l’effetto di più immediato riscontro, ma non sono le sole né tantomeno le più importanti.

Le MV possono infatti produrre gravi disordini funzionali sia nelle localizzazioni cranio-facciali (compromissione della deglutizione, della fonazione, della respirazione, della vista o dell’udito) che nelle localizzazioni periferiche (disturbi della funzione prensile, della postura e della deambulazione) con sequele invalidanti.

Le complicazioni circolatorie sono rappresentate dalla stasi venosa, che conduce nelle forme periferiche a quadri di insufficienza venosa cronica, e dall’ipercoagulabilità loco-regionale con trombosi localizzate e possibile deplezione di fattori coagulativi. (tabella 3)

Tabella 6: Effetti fisiopatologici delle malformazioni venose (MV)

EsteticiInestetismi superficiali Deformazioni scheletriche
PsicologiciPaziente Familiari
FunzionaliDeficit motori: deglutizione fonazione respirazione prensione deambulazione
 Deficit sensoriali: vista udito
EmodinamiciStasi venosa cronica
CoagulativiTrombosi localizzate Coagulopatia da consumo

La storia naturale delle malformazioni venose è molto variabile. Generalmente sono evidenti fin dalla nascita ma a volte si manifestano tardivamente nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza. Nella maggior parte dei casi la massima potenzialità evolutiva si estrinseca all’epoca della pubertà con un notevole aumento di dimensioni, mentre in seguito la malformazione mostra un’espansione molto lenta che è legata soprattutto al progressivo rilasciamento dei tessuti circostanti.

Non bisogna però dimenticare che le ripercussioni emodinamiche delle anomalie venose possono rendersi clinicamente evidenti e subire un progressivo aggravamento nel corso degli anni, anche in assenza di un effettivo accrescimento della malformazione.

E’ utile classificare schematicamente le malformazioni venose in forme semplici e complesse, basandosi su criteri anatomo-patologici (tabella 6).

Tabella 7: Classificazione anatomo-clinica delle malformazioni venose

MV sempliciForme sottocutanee
 Forme intramuscolari
 Forme intraarticolari
MV complesseIpo-aplasie venose
 Incontinenza valvolare congenita
 Persistenza di vene embrionarie

Nelle MV semplici si riscontrano vene anomale abnormemente ectasiche con una parete estremamente sottile costituita da un monostrato di cellule endoteliali e da una tunica muscolare liscia marcatamente ipoplasica (vene lacunari).

Le forme sottocutanee sono le più frequenti e si caratterizzano per la presenza di vene malformate di tipo lacunare o reticolare nello spessore del tessuto adiposo ipodermico, a profondità variabile ma comunque al di sopra del piano fasciale.

Le forme intramuscolari sono più rare ma si riscontrano con sempre maggiore frequenza e si presentano generalmente come vene malformate di tipo lacunare, di notevole ampiezza ed estensione, situate in profondità tra i fasci di grossi ventri muscolari come ad esempio il quadricipite femorale o il bicipite brachiale.

Le forme intraarticolari sono le meno frequenti ma anche le più difficili da diagnosticare clinicamente: sono costituite da ampie lacune venose localizzate all’interno di un’articolazione, che producono una progressiva erosione della sinovia con lesioni degenerative dei capi articolari come tipicamente si osserva nell’articolazione femoro-tibiale.

Nelle MV complesse si associano varie anomalie venose congenite quali ipoplasia o agenesia del sistema venoso superficiale e/o profondo, incontinenza valvolare primaria, persistenza di vene embrionarie di tipo tronculare come la vena marginale.

Nelle forme con ipo-aplasia si osserva l’agenesia completa o un’ipoplasia con variabile estensione e riduzione di calibro a carico di uno o più segmenti del sistema venoso superficiale e/o profondo di un arto. Una delle anomalie che si osservano più frequentemente è rappresentata dall’agenesia dal tratto popliteo-femorale e/o femoro-iliaco con ipertrofia compensatoria della grande safena che in alcuni casi si continua tipicamente in una grossa vena sovrapubica cross-over confluente nell’asse iliaco controlaterale.

Nelle forme con incontinenza valvolare congenita si osserva una condizione di insufficienza venosa profonda primaria causata da un’atresia completa delle cuspidi di una valvola venosa oppure da un’alterazione displasica producente un difetto meccanico di chiusura dei lembi valvolari. Tali anomalie si riscontrano più spesso nella vena femorale superficiale, ma possono interessare anche la vena femorale profonda, la vena femorale comune e la vena ipogastrica.

Le forme con vene embrionarie sono caratterizzate dall’anomala presenza di tronchi venosi di grosso calibro che si sviluppano nei primi stadi della vasculogenesi e che normalmente regrediscono durante le ultime fasi di modellamento dell’albero vascolare.

Le vene embrionarie di più frequente osservazione sono rappresentate dalla vena ischiatica e dalla vena marginale.

La vena ischiatica si presenta come un grosso tronco venoso in continuità con la vena poplitea che decorre nella regione posteriore di coscia e termina nel bacino confluendo nell’asse iliaco omolaterale.

La vena marginale è costituita da un collettore venoso di grosso calibro che origina in regione malleolare esterna e decorre lungo la superficie laterale dell’arto inferiore per una distanza variabile sboccando in diversi tratti del circolo venoso profondo, come illustrato in una recente classificazione (Tabella 5) delle molteplici varianti di confluenza della suddetta vena.

Tabella 8: Classificazione delle varianti di sbocco della vena marginale

Sbocco in vena femorale superficiale
Sbocco in vena femorale profonda

Sbocco in vena femorale comune



Sbocco in vena femorale comune

Sbocco in vena glutea inferiore

Sbocco in vena ipogastrica

Sbocco in vena iliaca comune

Confluenze multiple

QUADRO CLINICO

Il quadro semeiologico e sintomatologico delle malformazioni venose è estremamente variabile in relazione alla sede, alla profondità, all’estensione ed alle alterazioni anatomo-emodinamiche presenti.

Le vene malformate si evidenziano nelle localizzazioni superficiali come tumefazioni sottocutanee di dimensioni e forma variabili, di consistenza molle-elastica, facilmente collassabili alla compressione, ricoperte da cute di colorito bluastro o violaceo, normotermica. Non possiedono una pulsatilità intrinseca ma presentano una caratteristica espansibilità in posizione antigravitaria, che dev’essere attentamente ricercata con opportune manovre semeiologiche. Alla palpazione è possibile apprezzare piccoli noduli di consistenza dura, che corrispondono a fleboliti derivanti da fenomeni di trombosi locale.

Le malformazioni venose intramuscolari o intraarticolari sono meno evidenti all’esame obiettivo, soprattutto se di piccole dimensioni, in quanto sono localizzate in profondità e sono spesso ricoperte da cute sana. Tuttavia un’attenta osservazione clinica rileva generalmente una tipica asimmetria rispetto alla regione anatomica corrispondente dell’emisoma controlaterale, che si accentua in posizione declive.

Le vene embrionarie si presentano come tronchi venosi ectasici a decorso tortuoso e irregolare, che si estendono dalle regioni acrali per una lunghezza variabile verso la radice dell’arto.

Nelle forme con ipo-aplasia del circolo venoso profondo o con incontinenza valvolare congenita si evidenziano i segni clinici dell’ipertensione venosa cronica: edema, varici secondarie, dermoipodermite ed ulcere da stasi.

Alterazioni dello scheletro e dei tessuti molli con ipertrofia o ipotrofia sono meno frequenti rispetto alla malformazioni artero-venose, ma possono essere presenti soprattutto nelle localizzazioni periferiche.

Le malformazioni venose si associano frequentemente ad anomalie del sistema linfatico, per cui si osservano spesso segni di linfostasi.

Nelle forme miste capillaro-venose si riscontra tipicamente l’associazione di vene malformate sottocutanee con un angioma piano superficiale.

La triade costituita da una malformazione venosa periferica complessa, da una malformazione capillare cutanea e dall’ipertrofia dello scheletro e dei tessuti molli di un arto definisce la cosiddetta sindrome di Klippel-Trenaunay.

La coesistenza in un arto di malformazioni capillaro-venose e linfatiche multifocali con anomalie dell’apparato muscolo-scheletrico e dei nervi periferici configura la sindrome di Proteo, caratterizzata da notevole ipertrofia e deformazione dell’arto colpito.

L’associazione di una malformazione venosa superficiale e di encondromi multipli delle estremità superiori o inferiori, che inducono marcate deformazioni scheletriche con accorciamento dell’arto e possono talora degenerare in condrosarcomi, costituisce la cosiddetta sindrome di Maffucci.

La presenza di malformazioni venose sottocutanee multiple può costituire in casi rari un elemento della cosiddetta sindrome di Bean, caratterizzata dalla simultanea presenza di malformazioni venose disseminate del tubo gastro-enterico.

DIAGNOSI

La diagnosi di malformazione venosa è generalmente posta all’atto dell’esame clinico.

Tuttavia ciascun paziente dev’essere sottoposto ad un’accurata valutazione diagnostica clinico-strumentale preoperatoria, in quanto l’indicazione al tipo di trattamento è strettamente correlata ad alcune caratteristiche morfologiche e funzionali della MV che devono essere adeguatamente studiate: sede e rapporti anatomici, estensione e dimensioni, effetti emodinamici, pervietà e continenza del circolo venoso superficiale e profondo.

E’ necessario pertanto applicare un protocollo diagnostico rigorosamente standardizzato che si fonda sulle seguenti indagini strumentali: rx standard, ecocolordoppler, tomografia computerizzata (TC), risonanza magnetica (RM), flebografia (Tabella 8).

Tabella 9: Approccio diagnostico al paziente con malformazione venosa

Malformazione venosa cranio-faccialeRx cranio
Ecocolordoppler
Flebografia diretta
RM cranio-facciale
Malformazione venosa perifericaRx comparativa arti
Ecocolordoppler
Flebografia ascendente
Flebografia discendente
Flebografia diretta
RM o TC arto interessato

L’rx standard consente di evidenziare segni indiretti delle malformazioni venose quali i fleboliti o eventuali displasie e dismetrie scheletriche associate.

L’ecocolordoppler rappresenta l’esame preliminare, utile per studiare l’estensione della malformazione venosa, la pervietà e la continenza dei sistemi venosi superficiale e profondo, la morfologia e la funzionalità delle valvole venose, e per escludere la presenza di fistole artero-venose.

La TC e la RM consentono di definire in maniera più accurata l’estensione della malformazione e i suoi rapporti anatomici con organi interni e strutture muscolo-scheletriche, soprattutto nelle localizzazioni profonde.

L’iter diagnostico viene completato dalla flebografia, che è indispensabile al fine di ottenere un quadro morfologico ed emodinamico completo della malformazione e dell’intero sistema venoso superficiale e profondo. E’ necessario eseguire l’indagine sia in fase ascendente che in fase discendente e per puntura diretta della malformazione, in quanto complementari per le informazioni che sono in grado di fornire.

La fase ascendente esplora la pervietà e la conformazione dei principali assi venosi, evidenziando con grande accuratezza diagnostica la presenza di eventuali ipo-aplasie.

La fase discendente indaga la continenza valvolare dimostrando un’eventuale insufficienza venosa primaria e stabilendone il grado in base all’opacizzazione in via retrograda dell’asse venoso profondo.

L’indagine viene completata da uno studio emodinamico selettivo mediante puntura diretta, che è imprescindibile nell’esame di vene malformate di tipo lacunare con flusso a bassa velocità o di vene embrionarie che possono in tal modo essere visualizzate in tutto il loro decorso fino alla confluenza.

L’uso di lacci e bracciali emostatici o altri sistemi di compressione selettiva possono essere di grande utilità per studi selettivi del circolo venoso in tutte le fasi della flebografia.

Tale procedura può essere eseguita anche intraoperatoriamente in quanto consente un monitoraggio in tempo reale della malformazione venosa nel corso del trattamento scleroembolizzante e permette un controllo post-operatorio immediato dei risultati ottenuti.

TERAPIA

Il trattamento delle MV pone notevoli problematiche al chirurgo vascolare, trattandosi di malformazioni estremamente complesse che si manifestano in età pediatrica o giovanile e sono gravate da severe implicazioni emodinamiche, funzionali ed estetiche.

Obiettivi del trattamento sono la regressione parziale o completa della malformazione, la riduzione o scomparsa dei segni di insufficienza venosa, la riabilitazione funzionale dell’arto interessato, l’eliminazione o il ridimensionamento di vari inestetismi.

La terapia è subordinata in maniera imprescindibile ad una adeguata e completa valutazione diagnostica preoperatoria: i risultati degli esami strumentali devono guidare nel singolo caso la programmazione della strategia terapeutica, scegliendo e combinando opportunamente tra loro le procedure chirurgiche e/o percutanee più idonee.

Le indicazioni e la forza delle raccomandazioni per le varie opzioni terapeutiche nelle diverse forme di malformazioni venose possono essere schematizzate in una tabella riassuntiva (Tabella 9).

Tabella 10: Condotta terapeutica nel paziente con malformazione venosa

Malformazione venosa periferica semplice intraossea

Malformazione venosa cranio-faccialeScleroterapia percutanea (++)
Scleroterapia flebo-guidata (++++)
Chirurgia (+)
Malformazione venosa periferica semplice sottocutaneaScleroterapia percutanea (+++)
Scleroterapia flebo-guidata (+++)
Chirurgia (++)
Malformazione venosa periferica semplice intramuscolareScleroterapia percutanea (+)
Scleroterapia flebo-guidata (++++)
Malformazione venosa periferica complessa con ipo-aplasiaScleroterapia flebo-guidata (++++)
Astensione (+++)
Chirurgia (+)
Malformazione venosa periferica complessa con incontinenza valvolareChirurgia (++)
Malformazione venosa periferica complessa con vena embrionariaChirurgia (+++)
Scleroterapia flebo-guidata (++)
Scleroterapia percutanea (+)

La scleroterapia può essere effettuata per via percutanea diretta nelle MV superficiali, isolate e di modeste dimensioni. Nelle forme più estese e a localizzazione profonda è preferibile eseguire la scleroterapia sotto controllo radioscopico, utilizzando la tecnica della flebografia per puntura diretta: in tal modo è possibile avere un rigoroso controllo della sede di iniezione e della diffusione del mezzo sclerosante e si può inoltre ottenere una verifica immediata dei risultati della sclerosi.

Si utilizzano vari mezzi sclerosanti in rapporto alle caratteristiche morfologiche, alla sede anatomica e all’estensione della malformazione.

In presenza di vene malformate reticolari e/o di piccolo calibro, soprattutto nelle localizzazioni al labbro e alla lingua, si preferisce l’uso del polidocanolo in soluzione al 2-3%.

Nei casi di vene malformate di grosso calibro ed ampia estensione (vene lacunari), di frequente riscontro nelle localizzazioni temporo-mandibolari, conviene optare per l’utilizzo di agenti sclerosanti più potenti come l’etanolo al 95% e l’Ethiblocâ.

Il dosaggio dell’agente sclerosante viene stabilito in proporzione alle dimensioni delle vene malformate, considerando come massimale la dose di 2 ml / Kg di peso corporeo.

La tecnica della scleroterapia dev’essere estremamente rigorosa, in quanto l’iniezione accidentale del mezzo sclerosante in sede extravasale può provocare molteplici e gravi complicazioni: tromboflebiti, necrosi cutanea, granulomi, deficit neurologici.

E’ da ritenersi un normale e reversibile effetto secondario la comparsa di una reazione flogistico-edematosa loco-regionale di variabile entità ed estensione, che generalmente regredisce nel volgere di alcune settimane con l’ausilio di una opportuna terapia antiinfiammatoria corticosteroidea.

La chirurgia riveste comunque un ruolo fondamentale nella complessa strategia di trattamento delle malformazioni venose.

La procedura chirurgica più frequente consiste nella asportazione di vene malformate di tipo lacunare o reticolare degli arti inferiori, che deve essere preferibilmente eseguita con tecnica mini-invasiva praticando micro-incisioni cutanee e utilizzando speciali uncini da flebectomia.

In caso di persistenza di una vena embrionaria a morfologia tronculare l’unica possibilità terapeutica consiste nella rimozione chirurgica, che dev’essere eseguita anche in questi casi con la minore invasività: laddove in passato si praticavano ampie incisioni lungo la superficie esterna dell’arto, attualmente si eseguono interventi esteticamente più accettabili con incisioni cutanee di minima. A tal fine è indispensabile un accurato mappaggio preoperatorio della vena embrionaria e può essere utile, se possibile, il ricorso ad appositi mini-stripper.

Nelle forme con incontinenza valvolare congenita, qualora lo studio ecografico preoperatorio dimostri la presenza di lembi valvolari displasici, è possibile effettuare la ricostruzione chirurgica dell’apparato valvolare venoso mediante venoplastica esterna con protesi in dacron o in PTFE armato: il corretto posizionamento della fascia protesica e la scelta della calibrazione più idonea consentono di ripristinare la continenza valvolare mediante l’accostamento dei lembi displasici, preservando al tempo stesso la pervietà dell’asse venoso.

Nelle forme con ipoplasia segmentaria del circolo venoso profondo secondaria a compressione estrinseca da parte di bande fibro-muscolari anomale, come spesso si osserva nel cavo popliteo, si può eseguire un intervento di decompressione allo scopo di favorire lo sviluppo dell’asse venoso ipoplasico.

In presenza di un’agenesia venosa profonda con ipertrofia compensatoria di vene superficiali come la grande safena e le sue collaterali, sussiste per ovvie ragioni una controindicazione assoluta all’asportazione chirurgica di vene malformate che svolgono una funzione vicariante sul piano emodinamico.

In definitiva, la strategia terapeutica dev’essere opportunamente ragionata e programmata nel singolo paziente sulla base dei reperti clinico-strumentali con particolare riferimento alla sede anatomica, alla morfologia e all’estensione della malformazione venosa, nonchè all’architettura e all’emodinamica dell’intero circolo venoso loco-regionale.

La sede della malformazione può essere determinante per la scelta del trattamento: nelle localizzazioni facciali e genitali si preferisce la scleroterapia per le minori implicazioni estetiche e funzionali, laddove nelle forme periferiche prevale la chirurgia per la maggiore radicalità.

Il grado di complessità e le dimensioni delle malformazioni venose devono orientare in maniera direttamente proporzionale verso un approccio chirurgico: nelle MV semplici o isolate si pratica quale trattamento elettivo la scleroterapia percutanea endovascolare su guida flebografica, nelle MV complesse è necessario eseguire interventi chirurgici correttivi e/o ricostruttivi a seconda delle alterazioni anatomo-emodinamiche presenti.

Occorre infine sottolineare che nella maggioranza dei casi di malformazioni venose è preferibile attuare una terapia combinata, in quanto l’associazione di trattamenti chirurgici e percutanei consente di ottenere migliori risultati clinici sia morfologici che funzionali.

Gli interventi di legatura e asportazione di vene malformate possono essere vantaggiosamente combinati ad un trattamento sclerosante preliminare o intraoperatorio per ottenere con tecnica mini-invasiva l’obliterazione di vene displasiche di tipo lacunare o reticolare di modeste dimensioni.

Analogamente l’asportazione del tronco principale di una vena embrionaria può essere perfezionata mediante la sclerosi percutanea delle numerose collaterali e soprattutto del suo tratto terminale in prossimità della confluenza nel sistema venoso profondo.

In conclusione la chirurgia e la scleroterapia percutanea non sono da considerarsi alternative, ma possono utilmente combinarsi nella complessa e delicata strategia di trattamento delle malformazioni vascolari di tipo venoso.

E’ importante sottolineare infine come, soprattutto nei casi di MV molto estese, siano spesso necessari numerosi trattamenti chirurgici e/o scleroterapici sequenziali per ottenere la completa regressione della malformazione.

Raccomandazioni
  1. In passato l’unica opzione terapeutica era rappresentata da interventi chirurgici di tipo demolitivo sulle vene malformate, spesso gravati da insuccessi, recidive o esiti esteticamente deturpanti.Negli ultimi anni ha trovato ampia diffusione ed è stata progressivamente perfezionata la pratica della scleroterapia percutanea endovascolare delle MV.Si tratta di una tecnica mini-invasiva che in molti studi recenti ha condotto ad ottimi risultati morfologici e funzionali, proponendosi come valida alternativa o utile complemento della chirurgia soprattutto nelle MV a localizzazione facciale, genitale e periferica – Grado C
  2. Di estrema importanza nella programmazione terapeutica è anche la scelta del momento più idoneo per l’intervento, in funzione dello sviluppo somatico del paziente, dell’evoluzione della malformazione e delle sue ripercussioni emodinamiche – Grado C
  1. QUALITA’ DELLA VITA (QL)

Sono ormai numerose le basi per considerare la QL (Quality of Life) tra gli outcomes terapeutici anche nell’IVC (Garrat, 1993; Lamping, 1997; Consensus Statement, 1998). L’attuale metodo di misurazione generica, considerato gold standard negli USA ed in Europa, è il MOS (Medical Outcomes Study) SF36 (Short Form Health Survey- 36) (Ware, 1994; Stewart, 1992).

Specifici questionari per l’IVC (CVIQ1 e CVIQ2) sono stati sviluppati a partire dal 1992 con risultati sotto questo aspetto sorprendenti per una malattia spesso sottostimata dalla categoria medica: l’IVC interferisce profondamente con la vita di ogni giorno del paziente e risulta enfatizzato l’impatto dell’IVC sulle capacità locomotorie quanto l’efficacia della farmacoterapia (Launois 1994, Kliscz 1998).

Più complessa risulta la valutazione di trial randomizzati controllati e dalla QL sugli esiti della chirurgia (Solomon, 1995). Attualmente peraltro sono in corso esperienze in tale campo specie per la valutazione di nuove tecniche chirurgiche sull’IVC come la legatura endoscopica delle perforanti (SEPS) e la valvuloplastica.

Raccomandazioni

L’analisi dei parametri clinici di valutazione della qualità di vita dovrebbe utilizzare criteri psicometrici standard per riproducibilità, validità e accettabilità. L’SF-36 (Medical Outcomes Study Short Form Health Survey) e l’NPH (Nottingham Health Profile) si sono dimostrati di rilevo scientifico ma la loro corrispondenza nella IVC necessita di essere confermata.

C’è bisogno di misure specifiche della malattia per lo studio della qualità di vita nella IVC che siano:

– realizzabili,valide e responsive

– pratiche da effettuare dal monitor sulla base dei risultati clinici

– disponibili in un’ampia varietà di lingue per essere usati nel corso di studi internazionali. Grado C

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  1. PROFILASSI E TERAPIA DELLA TVP

Le Linee Guida elaborate dalla Unione Internazionale di Angiologia (IUA) e pubblicate nel marzo ’97 su International Angiology, costituiscono il riferimento obbligato di Linee Guida nazionali, necessariamente integrate da quanto emerso dalle acquisizioni successive al ’97. (raccomandazioni American College of Chest Physicians del 1998 (Claget 1998) e rimandando per l’approfondimento di alcuni argomenti alle Linee Guida SIAPAV.

Categorie di rischio

La conoscenza dei fattori di rischio consente di classificare i pazienti in base alla probabilità di sviluppare un evento tromboembolico venoso. Il criterio principale sul quale basare la scelta tra i diversi mezzi di profilassi farmacologici e/o meccanici è il grado di rischio individuale del singolo paziente. Tale grado è la risultante tra grado di rischio oggettivo della condizione clinica chirurgica e medica, e condizioni individuali che incrementano il rischio (età, obesità, neoplasie, pregresso tromboembolismo venoso, varici e condizioni trombofiliche congenite o acquisite). Il rischio è inoltre influenzato dalla durata dell’intervento, dal tipo di anestesia, dalla immobilità pre e post operatoria, grado di idratazione e da eventuali sepsi.In base a tali criteri è possibile suddividere i pazienti in classi di rischio basso, medio, elevato e molto elevato (Tab 1)

CLASSIFICAZIONE DEL LIVELLO DI RISCHIO (CHEST 1998)

Livello di rischio Evento tromboembolico, %

Trombosi Trombosi

di una vena di una vena

del polpaccio prossimale EP clinica EP fatale

Basso 2 0.4 0.2 0.002

(chirurgia minore* non complicata in pazienti <40 anni senza fattori di rischio aggiuntivi**)


Moderato 10‑20 2‑4 1‑2 0.1‑0.4

qualsiasi intervento chirurgico in pazienti di 40‑60 anni senza fattori di rischio aggiuntivi;

chirurgia maggiore in pazienti<40 anni senza fattori di rischio aggiuntivi; chirurgia minore in pazienti con fattori di rischio)


Alto 20‑40 4‑8 2-4 0.4‑1.0

(chirurgia maggiore in pazienti >60 anni senza fattori di rischio aggiuntivi oppure di 40‑60 anni con fattori di rischio aggiuntivi; pazienti con IM; pazienti medici

con fattori di rischio)


Più alto 40‑80 10‑20 4‑10 1‑5

(chirurgia maggiore in pazienti >40 anni con pregressa tromboembolia venosa, neoplasia o stato ipercoagulativo; pazienti sottoposti a interventi di chirurgia ortopedica maggiore d’elezione agli arti inferiori, frattura dell’anca, ictus, trauma multiplo o lesione al midollo spinale)

* Chirurgia minore: tutti gli interventi di durata minore di 45 minuti, ad eccezione della chirurgia addominale

** Fattori di rischio tromboembolico individuali i aggiuntiviEtà, peso, varici, pregressa TVP, neoplasie, condizioni trobofiliche congenite o acquisite, malattie infettive in mobilità

* ** Chirurgia maggiore: tutti gli interventi di durata superiore ai 45 minuti o di chirurgia addominale

Pazienti di chirurgia generale, urologica e ginecologica

Metodi di profilassi

Eparina non frazionata (UH) a basse dosi (5000 UI ogni 8 o 12 ore sottocutanea), riduce sia la TVP (Livello di evidenza di gradoA) che le EP fatali (Livello di evidenza di grado A).

Eparina a basso peso molecolare (LMWH), riduce non solo l’incidenza di EP fatali, ma anche la mortalità complessiva in pazienti chirurgici, rispetto ai controlli senza profilassi e mostra pari o maggiore efficacia della UH, nella profilassi delle trombosi venosa profonda post chirurgica.

Destrano e antiaggregaanti piastrinici (ASA) seppure vari studi ne abbiano dimostrato una certa efficacia rispetto alla non profilassi, sono scarsamente utilizzati.

Sono stati riportati dati sull’efficacia di alcuni eparinoidi (organon e dermatansolfato)in chirurgia generale e in artroprotesi totale dell’anca .

Compressione pneumatica intermittente (IPC) e compressione elastica graduata (GEC): riducono l’incidenza delle TVP, sono ancora di dimensioni troppo limitate gli studi per valutarne l’efficacia per la profilassi delle EP. Sono ancora insufficienti gli studi d’efficacia su altri metodi di profilassi meccanica.

Sia la compressione pneumatica intermittente che la compressione elastica graduata sembrano, secondo alcuni studi, più efficaci in associazione con altri metodi di profilassi rispetto al loro uso quale unico mezzo di profilassi. Le ridotte dimensioni di tali studi rendono opportuna una ulteriore verifica.

Per quanto riguarda la chirurgia laparoscopica, studi recenti (Gagner 1997), seppure di dimensioni limitate hanno riportato una elevata incidenza di complicanze tromboemboliche.

Raccomandazioni

Pazienti chirurgici a basso rischio: I dati disponibili sono insufficienti per dare precise raccomandazioni; sulla base del rapporto rischio/beneficio ed estrapolando da studi su pazienti a rischio moderato, sembra di pratica comune la mobilizzazione precoce e il mantenimento di idratazione adeguata, oltre ad eventuale utilizzo di calze a compressione graduata. Grado C

Pazienti chirurgici a rischio moderato: Sono raccomandati mezzi farmacologici quali eparina non frazionata, eparina a basso peso molecolare, destrano o aspirina, per tutti i pazienti a rischio moderato.

Una raccomandazione alternativa riguarda l’uso continuativo fino alla ripresa della mobilizzazione attiva, di IPC o di GEC, o di ambedue (Wells PS, 1994) – Grado A

In chirurgia ginecologica l’eparina non frazionata a basse dosi (5000 UI/12 ore) e l’eparina a basso peso molecolare si sono dimostrate efficaci nella profilassi in pazienti a rischio moderato Grado A

Pazienti chirurgici a rischio elevato e moloto elevato: La profilassi utilizzata per i pazienti a rischio moderato, dovrebbe essere applicata a tutti i pazienti ad alto rischio – Grado A

Dovrebbe essere ritenuta potenzialmente più efficace la combinazione dei singoli mezzi farmacologici, quali l’eparina non frazionata a basso dosaggio o l’eparina a basso peso molecolare, con metodi meccanici di profilassi quali la compressione pneumatica intermittente o le calze a compressione graduate – Grado B

Raccomandazione

La profilassi dovrebbe essere praticata nelle donne in terapia estrogenica contraccettiva, se l’assunzione non è stata interrotta da almeno 4-6 settimane prima dell’intervento. Il vantaggio dell’interruzione della contraccezione va soppesata con il rischio di una nuova gravidanza – Grado C

Non sembra necessario invece interrompere prima dell’intervento la terapia ormonale sostitutiva (Royal College of Obstetricians and Gynaecologists,1995)

Raccomandazione

Le misure di profilassi di tipo meccanico, in alternativa ai mezzi farmacologici, devono essere prese in considerazione nei pazienti ad alto rischio emorragico, sia da disordini coagulativi sia per motivi inerenti alle procedure chirurgiche – Grado C

Neurochirurgia

I pazienti neurochirurgici dovrebbero essere considerati eleggibili alla profilassi con metodi meccanici.

In pazienti sottoposti a neurochirurgia elattiva intracranica sono stati condotti studi di profilassi prevalentemente con mezzi fisici (Compressione Pneumatica Intermittente, calze a compressione graduata) per l’elevato rischio di emorragie intracraniche.Tutti riportano risultati favorevoli rispetto ai controlli..

L’efficacia e sicurezza dell’ eparina a basso peso molecolare è stata valutata in due studi recenti. Ambedue gli studi hanno confrontato eparina non frazionata associata a calze elastiche versus calze elastiche da sole. (Agnelli 1998)

Raccomandazione

I risultati sono significativi in ordine sia all’inefficacia delle calze elastiche quale unico mezzo di profilassi, in discordanza con gli studi precedenti sull’efficacia dei mezzi fisici da soli, sia in ordine alla efficacia e sicurezza dell’eparina a basso peso molecolare purché somministrata il giorno successivo l’intervento, escludendo i pazienti che alla TAC cerebrale di controllo presentino segni evidenti di sanguinamento – Grado A

Chirurgia ortopedica e traumatologica

I pazienti traumatizzati o sottoposti a chirurgia ortopedica elettiva sono da considerare a rischio tromboembolico moderato, elevato o molto elevato.

In assenza di profilassi, la chirurgia elettiva o traumatica d’anca si associa a TVP per circa il 50%, di cui circa la metà coinvolge gli assi venosi prossimali.

Metodi di profilassi e raccomandazioni

Non è risultata efficace la profilassi con mini dosi di anticoagulanti orali, mentre l’anticoagulazione orale a dosi aggiustate a mantenere INR tra 2 – 3 aumenta l’efficacia, ma comporta notevoli difficoltà di gestione (evidenza di grado A).

Dati recenti sostengono l’efficacia della combinazione delle calze elastiche a compressione graduata con “foot impuls tecnology”, nelle riduzione delle TVP prossimali artroprotesi elettiva d’anca e nella chirurgia del ginocchio.

Nei pazienti ortopedici sottoposti a artroprotesi elettiva d’anca l’eparina non frazionata a dosi fisse (5000 UI /8 o /12 ore) è risultata efficace nel ridurre sia l’incidenza di TVP che di EP (evidenze di grado A). L’incremento delle dosi favorisce l’incremento del rischio emorragico. Aggiustare la dose in base ai test coagulativi, può migliorare l’efficacia, ma comporta una maggiore difficoltà di gestione e un maggiore rischio emorragico.

Gli studi condotti finora sembrano sostenere la maggiore efficacia dell’eparina a basso peso molecolare rispetto alle eparine non frazionate, nella riduzione della TVP e della EP nella artroprotesi elettiva d’anca

Secondo la maggior parte dei trials controllati, il rischio assoluto di TVP nell’artroprotesi di ginocchio rimane alta nonostante la profilassi.

Traumi Multipli

Dagli studi condotti è possibile sostenere la praticabilità dell’eparina a basso peso molecolare, più efficace delle eparine non frazionate e la compressione pneumatica intermittente, anche se sono necesari ulteriori valutazioni. L’impiego profilattico dei filtri cavali rimane controverso.

Anestesia Regionale

L’anestesia regionale (spinale o epidurale) non giustifica l’omissione di misure di profilassi specifica, e non può considerarsi additivo se associata ad altri metodi di profilassi. Non ci sono evidenze che la somministrazione preoperatoria di basse dosi di eparina non frazionata o di eparina a basso peso molecolare incrementi il rischio di ematoma spinale. La rarità delle segnalazioni di ematoma peridurale in Europa, diversamente dal numero più rilevante delle segnalazioni USA, autorizza a supporre che lo schema di profilassi più praticato in Europa, che prevede la somministrazione di eparina a basso peso molecolare la sera prima dell’intervento e poi una volta al dì, induca una attività antitrombotica modesta al momento dell’introduzione e della rimozione del catetere , quindi un minor rischio di ematoma.

Inizio, durata e dosi della profilassi

Dal momento che sono da ritenersi importanti i fattori di rischio intraoperatori, la profilassi dovrebbe teoricamente iniziare prima dell’intervento, ma sarebbero quanto mai necessari studi random di confronto tra l’inizio pre e post operatorio. Nella maggior parte degli studi sono stati presi in esame i risultati della profilassi per 7–10 giorni successivi all’intervento o fino alla mobilizzazione dei pazienti. Tre recenti studi randomizzati hanno peraltro documentato che la profilassi prolungata con eparina a basso peso molecolare ha ridotto la frequenza delle TVP flebograficamente dimostrate. Prima di poter fornire raccomandazioni di carattere generale sono comunque necessari ulteriori studi. Come nella chirurgia ortopedica elettiva e d’urgenza, la profilassi dovrebbe essere iniziata non appena possibile.

Le raccomandazioni sulla eparina non frazionata e sulla eparina a basso peso molecolare, eparinoidi, e anticoagulanti orali, sono di grado A.

L’eparina non frazionata viene generalmente iniziata 2 – 3 ore prima dell’intervento per contrastare l’attivazione della coagulazione indotta dall’intervento.

Raccomandazione

Dagli studi condotti sembra ragionevole utilizzare dosi relativamente basse di eparine a basso peso molecolare, iniziando la somministrazione 2-3 ore prima dell’intervento, secondo i risultati soddisfacenti riportati con deltaparina 2500/die, enoxaparina 2000/die, clivarin 1750/die, nella chirurgia a rischio non elevato, mentre dosaggi più elevati, iniziati 10 – 12 ore prima dell’intervento, andrebbero utilizzati in pazienti a rischio più elevato, in base a dati secondo cui dosi giornaliere di 2500 UI di dalteparina si sono dimostrate inadeguate nei pazienti neoplastici sottoposti ad interventi di chirurgia addomino pelvica – Grado C

Contraccettivi Orali.

Nelle pazienti di chirurgia ginecologica la contraccezione con estroprogestinici si associa ad incremento del rischio di TVP.

Raccomandazione

La profilassi con eparina è consigliabile in caso di non interruzione degli estroprogestininici e in presenza di altri fattori di rischio. Per l’alto rischio di TVP, la tromboprofilassi dovrebbe essere attuata nella chirurgia d’urgenza delle donne che assumono anticoncezionali estroprogestinici – Grado C

Terapia Ormonale Sostitutiva (HRT). In assenza di altri fattori di rischio, non vi sono dati sufficienti a supportare la correttezza della sospensione indiscriminata della HRT, prima di interventi chirurgici. Nonostante la mancanza di dati, è consigliabile la tromboprofilassi in caso di non sospensione della HRT prima di interventi chirurgici.

Raccomandazione

la maggior parte delle pazienti in terapia sostitutiva presentano fattori aggiuntivi di rischio quali principalmente età, che di per sé costituisce un’indicazione alla tromboprofilassi Grado C

Gravidanza

Si rileva la scarsità di studi controllati che dimostrino l’efficacia della terapia antitrombotica in gravidanza (Raj 1995, Ginsberg 1992)

Raccomandazioni

la profilassi con eparina non frazionata a basso dosaggio è comunemente praticata nelle pazienti in gravidanza ad alto rischio sia per pregresse TVP – EP o stati trombofilici Grado C

La profilassi della tromboembolia venosa con anticoagulanti orali è controindicata nel primo trimestre di gravidanza per il rischio di embriopatia e, come emerge da dati disponibili, nel secondo e terzo trimestre per il rischio di emorragie materne o fetali. In caso di controindicazioni all’eparina, la profilassi con anticoagulanti orali può essere presa in considerazione solo nel secondo trimestre, per il rischio relativamente minore di complicanze in tale trimestre – Grado C

Non vi sono dati a sostegno della profilassi nel parto cesareo in assenza di fattori di rischio aggiuntivi (Tam WH, 1999; Ginsberg JS, 1998; Nelson-Piercy C, 1998; Letsky EA, 1999).

Raccomandazioni

La profilassi perioperatoria e post partum dovrebbe essere presa in esame in presenza di fattori di rischio quali età superiore ai 35 anni, obesità, pregresso evento tromboembolico e condizioni trombofiliche primarie o acquisite – Grado C

Dati recenti sembrano incoraggiare l’utilizzo delle LMWH per la profilassi nelle gravidanze a rischio, anche se sono ancora necessari studi per stabilirne le dosi e la durata e che mettano a confronto le varie eparine a basso p.m. – Grado C

Gravidanza e Anticoagulante Lupico

(Hirsh 1995, Rai 1997)

Raccomandazioni

Donne con anticorpi antifosfolipidi e positività anamnestica per pregresso evento trombotico, sono suscettibili a profilassi con dosi terapeutiche aggiustate nel corso della gravidanza e a anticoagulanti orali nel post partum.

Donne con anticorpi antifosfolipidi e anamnesi negativa possono essere trattate con aspirina a basse dosi o, in alternativa, alla sola sorveglianza clinica e strumentale non invasiva. L’associazione aspirina con eparina non frazionata a basso dosaggio si è rivelata più efficace della aspirina sola, in termine di numero di nascite.

Le pazienti che presentano un evento tromboembolico in gravidanza, devono essere trattate con eparine a dosi terapeutiche aggiustate per tutta la durata della gravidanza. In prossimità del parto le dosi dovrebbero essere ridotte per ridurre il rischio di emorragia. Anche se non è stata ancora stabilita la durata ottimale, la terapia anticoagulante andrebbe prolungata per almeno 6 settimane nel post partum – Grado C

Le donne che in gravidanza o nel puerperio presentino un evento tromboembolico dovrebbero essere sottoposte ad indagini ematologiche per condizioni trombofiliche – Grado C

Pazienti di medicina generale.

Nonostante le malattie internistiche a rischio tromboembolico più studiate sono l’ictus cerebrale e l’infarto del miocardio, i dati disponibili sembrano suggerire che la profilassi con anticoagulanti (generalmente eparina non frazionata a basse dosi (Collins R, 1996) e eparina a basso peso molecolare), o antiaggreganti (generalmente aspirina), abbia dimostrato una riduzione del rischio relativo di incidenza delle TVP dimostrate con metodi obiettivi, nei pazienti medici comparabile alla riduzione osservata nei pazienti chirurgici, ovvero la prevenzione di circa due terzi dei casi di TVP.

In mancanza di studi sull’efficacia della profilassi meccanica con calze elastiche a compressione graduata o compressione pneumatica intermittente nei pazienti medici, non vi sono ragioni per ritenere che tali metodiche siano meno efficaci che nei pazienti chirurgici.

Tutti i pazienti di medicina generale dovrebbero essere classificati in base al rischio tromboembolico e una profilassi dovrebbeessere attuata nei pazienti a rischio moderato e alto.

Infarto miocardico acuto (IMA)

Gli anticoagulanti a piedne dosi non associati ad aspirina si sono dimostrati efficaci nella prevenzione del tromboembolismo venoso mentre non vi sono dati a sostegno dell’effetto aggiuntivo, in termini di EP, se associati ad aspirina.

Il regime combinato (anticoagulanti orali o eparine + aspirina) è associato ad un numero maggiore di eventi emorragici (3 ‰; p<0.0001

Raccomandazioni

L’aspirina si è dimostrata efficace anche nella prevenzione della TVP e della EP . In assenza di specifiche controindicazioni, l’aspirina dovrebbe essere somministrata rutinariamente nei pazienti con IMA o angina instabile – Grado A

La compressione pneumatica intermittente e/o le calze elastiche a compressione graduata sono raccomandate nei pazienti con IMA con controindicazione alla terapia anticoagulante per emorragia in atto o ad alto rischio emorragico – Grado C

Ictus ischemico

I pazienti con stroke acuto con plegia di un arto inferiore presentano un alto rischio di sviluppare una TVP, frequentemente dell’arto plegico, e una EP, così come sono ad alto rischio di mortalità causata in particolare da EP.

Nei pazienti con stroke, analogamente a quanto è emerso da studi sugli antipiastrinici in pazienti medici ad alto rischio, l’aspirina si è dimostrata efficace nella riduzione della TVP. Sono tuttora in corso ampi trials randomizzati per la verifica dell’efficacia complessiva e dei rischi della profilassi con eparina e o aspirina nei pazienti con stroke.

Tali conclusioni sono state ulteriormente confermate da trials successivi.

Sono state valutate diverse modalità di profilassi: eparina non frazionata, eparina a basso peso molecolare, eparinoidi, compressione pneumatica intermittente, calze elastiche a compressione graduata e stimolazione elettrica dell’arto plegico.

Aspirina; L’efficacia dell’aspirina nell’ictus in fase acuta è stata confermata dal Chinese Acute Stroke Trial (CAST, 1997).

Eparina non frazionata e Eparine a basso peso molecolare: i risultati degli studi più recenti depongono per un atteggiamento prudente per quanto riguarda la somministrazione di eparina nella fase acuta dell’ictus:.

Danaparoid: l’eparinoide ORG 10172 è stato utilizzato in un ampio studio (TOAST) che ha riportato un aumento delle trasformazioni emorragiche degli infarti cerebrali nei pazienti trattati, contraddicendo in parte quanto emerso da studi precedenti, numericamente più limitati, che ne avevano documentato l’efficacia e sicurezza (Turpie 1997).

Raccomandazioni

La profilassi con eparina non frazionata o con eparina a basso peso molecolare o con un eparinoide, è efficace nella riduzione dell’incidenza delle TVP in pazienti con stroke sospetto o dimostrato. Ciascuna di queste terapie è raccomandata nei pazienti con Stroke e plegia di un arto inferiore – Grado A

E’ comunque indispensabile escludere emorragie intracraniche, usualmente con TAC precoce, prima di instaurare la profilassi con eparina.

Raccomandazione

Nei pazienti con stroke emorragico sospetto o dimostrato e nei pazienti in cui il rischio emorragico è rilevante rispetto al beneficio della profilassi con anticoagulanti, sono raccomandati metodi di profilassi meccanica come la compressione pneumatica intermittente o le calze elastiche a compressione graduata Grado C

Neoplasie

Il tromboembolismo venoso può rappresentare sia la prima manifestazione di una neoplasia occulta, sia la complicanza di una neoplasia già diagnosticata.

Nelle trombosi venose in corso di neoplasia già diagnosticata devono essere incluse le trombosi venosa post chirurgiche, le trombosi venosa indotte dalla chemioterapia, e le trombosi venosa complicanti l’inserzione di un catetere venoso a permanenza (Agnelli 1997).

La riduzione del rischio trombotico esige misure di profilassi, quali eparina non frazionata a basse dosi, eparine a basso peso molecolare a basse dosi, o mezzi fisici di prevenzione nei pazienti neoplastici allettati per qualsiasi motivo o se sottoposti a procedure chirurgiche (Claget 1995).

Più complesso è il problema della profilassi a lungo termine nei pazienti neoplastici in terapia chemioterapica.

Studi randomizzati controllati hanno dimostrato la riduzione della prevalenza di trombosi venose conseguenti all’inserzione di cateterismo venoso a permanenza, con 1 mg / die di warfarin. Uno studio di Monreal del ’96 con una eparina a basso peso molecolare (dalteparina) somministrata a 2500 UI/24 h per 90 giorni) ne ha dimostrato l’efficacia nelle riduzione delle trombosi dell’arto superiore da accesso venoso.

Raccomandazioni per altri pazienti di medicina generale

In tale gruppo vengono inclusi pazienti ospedalizzati allettati, con scompenso cardiaco, processi broncopneumonici severi, condizioni critiche in pazienti di terapia intensiva, così come pazienti con plegia acuta degli arti (tipo sindrome di Guillan Barré), chetoacidosi o coma diabetico, neoplasie, sindrome nefrosica, osteomieliti, con pregressa TVP o EP, trombofilia primaria o acquisita (deficit ATIII, Prot. C. o Prot.S, APCR, Fattore II mutante, LAC, policitemia, malattie mieloproliferative, omocistinemia, connettiviti, m. di Beçet).

Raccomandazione

La profilassi con basse dosi di eparina non frazionata può essere raccomandata in pazienti con scompenso cardiaco, processi broncopneumonici, e pazienti di terapia intensiva (raccomandazione basata su trials di piccole dimensioni di livello I) – Grado A

Mentre l’età aumenta il rischio di tromboembolismo venoso, l’età superiore ai 65 anni non costituisce di per sé, un rischio sufficiente a giustificare una profilassi rutinaria nei pazienti geriatrici o di medicina generale, in assenza di altri fattori di rischio.

Un recente studio multicentrico controllato ha dimostrato l’efficacia profilattica di una dose più elevata di EBPM (Enoxaparina 4000 U), ma non di quella più bassa (2000 U), in pazienti di medicina generale affetti da condizioni patologiche acute (Samama 1999).

Non vi sono segnalazioni su criteri di condotta su soggetti in condizioni a rischio generico ambientale, se non quanto riportato relativamente al rischio elevato di tromboembolismo venoso in corso di lunghe tratte aeree (“economy class” syndrome). Tutti i soggetti esposti a rischio, come appunto un lungo viaggio aereo, dovrebbero essere informati del rischio potenziale e dovrebbero essere istruiti ad alzarsi frequentemente e bere liquidi durante il volo. Soggetti con storia positiva o con fattori di rischio per tromboembolismo dovrebbero consultare un medico prima del viaggio che valuti l’opportunità di attuare misure di profilassi fisica (calze elastiche a compressione graduata) e/o farmacologica.

Fattori predisponenti ematologici

  1. Condizioni trombofiliche ereditaterie:
  • Deficit degli inibitori della coagulazione – Sono rappresentate da carenza di proteina (difetti di tipo I) o da alterata funzionalità (difetti di tipo II) di Antitrombina III, Proteina C o Proteina S
  • Mutazione Fattore V Leiden (G1691A)- La presenza di tale mutazione comporta la comparsa di una alterazione funzionale denominata “Resistenza alla proteina C attivata”
  • Mutazione G20210A del gene della Protrombina – Questa mutazione è stata dimostrata essere associata ad elevati livelli plasmatici della Protrombina
  1. Condizioni trombofiliche acquisite:
  • Lupus Anticoagulant (LAC)
  • Anticorpi anti cardiolipina e le malattie mieloproliferative
  1. Iperomocistinemia:
  • E’ stato recentemente documentato che livelli di omocisteina superiori alla norma sono associati a trombofilia.

Gli esami raccomandati per individuare tali condizioni sono:

Esami generali: esame emocromocitometrico completo, compreso la conta piastrinica, TdP, aPTT

Esami per trombofilia: AT III, Prot. C, Prot. S, Resistenza alla Prot. C attivata (APC Resistence, se ridotta ricerca fatt. V Leiden), Mutazione Fatt. II, LAC, Ac anticardiolipina, omocistinemia.

Uno screening indiscriminato pur essendo tecnicamente possibile, non è proponibile per gli oneri economici che comporterebbe e potendo disporre di una profilassi efficace non è da ritenere né necessario né conveniente. Tuttavia uno screenig su gruppi selezionati di pazienti ad alto rischio ne può migliorare la storia clinica. Nei soggetti geneticamente predisposti le TVP non si verificano in genere senza l’azione scatenante di condizioni facilitanti quali interventi chirurgici, traumi, o fattori acquisiti addizionali.

La predisposizione congenita alla trombosi (trombofilia), dovrebbe essere presa in considerazione in pazienti con trombosi documentata insorta senza causa identificabile prima dei 40 – 45 anni o dopo stimoli di entità trascurabile, con trombosi venose profonde ricorrenti o con storia familiare positiva per trombosi, necrosi cutanea indotta da anticoagulanti orali, trombosi venosa in sede inusuale.

Profilassi nei pazienti con trombofilia

Pazienti asintomatici

Non vi sono ancora elementi di valutazione sulla profilassi primaria nei pazienti asintomatici con trombofilie congenite, ma tali soggetti dovrebbero essere cautelati in caso di interventi chirurgici o di altre condizioni associate ad incremento del rischio trombotico. La profilassi dovrebbe essere presa in considerazione durante tutta la gravidanza nelle donne con trombofilia congenita. Il periodo a rischio può iniziare nelle prime fasi del primo trimestre, particolarmente in caso di carenza di ATIII.

Pazienti sintomatici

In ordine alle condizioni trombofiliche congenite o acquisite, per i pazienti con trombofilia congenita e due o più episodi tromboembolici, vi è un generale accordo sulla profilassi a lungo termine, nonostante l’incremento del rischio emorragico. In relazione al minor rischio emorragico per un basso grado di ipocoagulazione, è stato suggerito (DURAC II, 1997) di mantenere il trattamento anticoagulante standard (INR 2-3), per almeno 6 mesi dopo il primo evento e proseguire a lungo termine con un trattamento a bassa intensità (INR 1.5 – 2) in pazienti con trombofilia congenita, con condizioni a rischio persistente o in pazienti al secondo evento. Sono generalmente ritenute valide le indicazioni secondo cui le varie condizioni trombofiliche congenite non sono ugualmente trombotiche. Il deficit di ATIII sembra a rischio maggiore rispetto al deficit di proteina C e S .

L’incidenza delle trombosi venose profonde in pazienti con resistenza alla proteina C attivata (APC-R) per mutazione eterozigote del Fattore V Leiden è più bassa rispetto alle altre trombofilia, così come non sembra aumentate l’incidenza di recidive (Zöller B et al. 1994), mentre studi di ampiezza limitata riportano un maggior rischio tromboembolico in pazienti con mutazione V omozigote, (Zöller B, 1995). Il rischio trombotico aumenta in soggetti con più condizioni trombofiliche associate (Rosenthal, 1997, Zoller, 1999)

Livelli elevati di anticorpi anticardiolipina costituiscono un importante fattore di rischio tromboembolico. Gli studi DURAC riportano un elevato rischio di recidive in pazienti con livelli elevati di anticorpi anticardiolipina, ma che una ipocagulazione standard con INR 2-3 è sufficiente a proteggere tali pazienti.

Nelle pazienti con alterazioni ematologiche acquisite, le decisioni dovrebbero essere prese in base a valutazioni personalizzate.

Gli anticoncezionali estroprogestinici, compresi quelli a basso dosaggio (max 30 mcg) e quelli di terza generazione (WHO, 1995), sono controindicati in donne con trombofilia accertata, sulla base degli studi epidemiologici che hanno evidenziato la correlazione tra contraccettivi orali e tromboembolismo, almeno per quanto riguarda la carenza di ATIII, prot. C e la APC Resistence.

Nelle pazienti sintomatiche, non è ancora definita la durata ottimale del trattamento anticoagulante, ma dovrebbe essere valutato caso per caso, in base al rischio /beneficio individuale della paziente.

Raccomandazione

Per minimizzare il rischio tromboembolico sembra ragionevole sospendere i contraccettivi orali almeno un mese prima di un intervento chirurgico in elezione, e considerare una profilassi antitrombotica in caso di traumi rilevanti, immobilità forzata prolungata, o in caso di procedura chirurgica d’urgenza. Uno screenig generalizzato per tutte le donne che intendono assumere contraccettivi orali non è praticabile sia in ordine a considerazioni epidemiologiche (rischio assoluto basso), sia in relazione a considerazioni economiche.

Uno screening per le condizioni trombofiliche congenite principali (antitrombina, proteinaC, proteina S, e risistenza alla proteina C attivata –Fatt. V Leiden, Fatt. II mutante) è raccomandabile in donne con storia personale o familiare di tromboembolismo venoso – Grado C

Terapia ormonale sostitutiva

In ordine al rischio tromboembolico, la terapia ormonale sostitutiva post menopausale si associa ad un modesto incremento di rischio tromboembolico venoso. Nella scelta a favore o contro della terapia ormonale sostitutiva è necessario considerare il bilancio tra gli effetti favorevoli sulla morbilità e mortalità coronarica e sull’incremento di massa ossea, e gli effetti sfavorevoli relativi nell’incremento di rischio di carcinoma mammario in caso di familiarità per tale neoplasia o in caso di mastopatia fibrocistica e l’incremento di rischio di trombosi venosa in caso di storia familiare o personale di tromboembolismo venoso.

Valutazione costo beneficio della profilassi

Sono stati condotti molti studi sulla valutazione costo/efficacia delle metodiche di profilassi comunemente in uso. Nei pazienti a rischio medio ed elevato, il costo della diagnosi e della terapia degli eventi tromboembolici nei pazienti senza profilassi, si è dimostrato più elevato del costo della profilassi correntemente praticabile.

Non sono disponibili dati sul rapporto costo efficacia della profilassi nei pazienti a basso rischio.

TERAPIA DELLA TVP: METODI E RACCOMANDAZIONI

Considerazioni generali

L’ideale terapeutico del tromboembolismo venoso con il quale indurre la rapida ricanalizzazione del lume vasale trombizzato, impedire il distacco di frammenti e/o dell’intera massa trombotica e garantire l’integrità valvolare, non è attualmente disponibile. Con gli attuali mezzi terapeutici è possibile ostacolare l’estensione della trombosi, ridurre l’edema dell’arto cui consegue l’incremento della pressione compartimentale con conseguente probabile evoluzione in phlegmasia, gangrena venosa e perdita dell’arto, ridurre le recidive trombotiche e le EP, limitare la sindrome post trombotica preservando la funzionalità valvolare e il deflusso venoso.

Anticoagulanti: anticoagulanti orali e eparine

La terapia iniziale con anticoagulanti orali nei pazienti con TVP è gravata da una inaccettabile probabilità di recidiva (Brandjes DPM, 1992), per tale motivo si rende necessaria la terapia iniziale con eparina, seguita dalla terapia anticoagulante orale a lungo termine. L’anticoagulazione deve essere iniziata da eparina non frazionata a dosi aggiustate somministrata per infusione venosa, o da eparina non frazionata a dosi aggiustate sotto cute, preceduti da un bolo endovena.

Raccomandazione

Raggiungere un aPTT compreso nell’intervallo terapeutico (1,5 – 2,5 volte il tempo di controllo, ovvero del tempo di aPTT del paziente prelevato prima dell’inizio della terapia, equivalente ad un livello di eparinemia di 0.2 – 0.4 U/ml.), utilizzando uno dei normogrammi per l’aggiustamento della posologia della eparina sia somministrata endovena sec. Cruickshank, che sottocute sec. Raschlke – Grado A

La terapia anticoagulante orale può essere iniziata anche il primo giorno di terapia eparinica o successivamente, a meno non sia prevista una procedura medica o chirurgica tipo trombolisi o inserimento di filtro cavale o in presenza di pazienti multitraumatizzati o in situazioni potenzialmente emorragiche

Il trattamento eparinico dovrebbe essere proseguito per almeno cinque giorni e dovrebbe essere interrotto non appena l’INR del paziente si mantiene nell’intervallo terapeutico (2.0 – 3.0) per almeno due giorni .La durata dell’infusione eparinica non prolungata oltre i cinque giorni consente di ridurre il ricovero ospedaliero e conseguentemente comporta un significativo risparmio.

La terapia anticoagulante orale dovrebbe essere proseguita per almeno tre – sei mesi nei pazienti al primo episodio tromboembolico, in assenza della persistenza delle condizioni a rischio. In pazienti in cui persistono le condizioni a rischio, la terapia dovrebbe durare più a lungo (1 anno), ma non è stata definita la durata ottimale.

L’eparina non frazionata a dosi aggiustate trova la sua indicazione nella profilassi secondaria in particolari condizioni cliniche quali la gravidanza, in cui è controindicata la terapia anticoagulanti orale.

Secondo recenti trials clinici randomizzati, le eparine a basso peso molecolare (EBPM)sottocute possono essere considerate sostitutive dell’eparina non frazionata endovena nel trattamento del tromboembolismo venoso (Koopman 1996). Gli schemi terapeutici proposti prevedono la terapia iniziale con eparine a basso peso molecolare a dosi fisse pro peso e l’inizio rapido (anche contemporaneo in assenza di controindicazioni) della terapia con anticoagulanti orali. Uno degli argomenti a favore del trattamento della trombosi venosa profonda con eparina a basso peso molecolare sottocute, è la non necessità di monitoraggio di laboratorio ad accezione della conta piastrinica. Su tali presupposti ne è stato enfatizzato l’utilizzo nel trattamento del TVP non complicate in pazienti domiciliari e per la profilassi secondaria del tromboembolismo in caso di controindicazioni alla terapia con anticoagulanti orali.

Raccomandazione

A proposito del trattamento iniziale della trombosi venosa profonda con eparine a basso peso molecolare possono essere adottate le conclusioni cui è giunta la Consensus della Società Tedesca di Emostasi e Trombosi del ’97: alti dosaggi (terapeutici) di eparina a basso peso molecolare sono altrettanto efficaci e sicuri della eparina non frazionata (raccomandazione di grado B).

Restano discordi i pareri sul trattamento delle trombosi venosa profonda prossimali non complicate in pazienti a basso rischio emorragico, in regime extra ospedaliero che, a fronte della riduzione dei costi legata alla non ospedalizzazione, deve prevedere una gestione di non facile realizzazione, sia in ordine al monitoraggio delle condizioni cliniche, alla corretta somministrazione, alla continuità e facilità di connessione con strutture di riferimento.

Controindicazioni alla terapia anticoagulante

  1. Assolute
  • grave episodio emorragico in atto (sia esso post-operatorio, traumatico o spontaneo)
  • recente intervento neurochirurgico o recente emorragia a carico del sistema nervoso centrale
  • gravi diatesi emorragiche congenite o acquisite
  1. Relative
  • ipertensione arteriosa di grado elevato resistente alla terapia ipotensiva
  • trauma cranico recente
  • endocardite batterica
  • recenti episodi di sanguinamento gastro-intestinale
  • grave insufficienza epatica o renale
  • retinopatia proliferativa diabetica
  • piastrinopenia (conta piastrinica < 100.000/mmc)
  • piastrinopenia da eparina
    rara (0.3 – 1%), non dose dipendente, da porre in bilancio anche con le EBPM, anche se con minore probabilità

Terapia trombolitica

Il ruolo di questa categoria di farmaci è ristretto alle condizioni più gravi (TVP prossimale massiva con gangrena venosa incipiente).

Per il trattamento del tromboembolismo venoso sono utilizzabili trombolitici di vecchia generazione (streptochinasi (SK), e di nuova: l’urochinasi (UK), l’attivatore tessutale del plasminogeno ricombinante (rt-PA) e il complesso attivatore acilato plasminogeno-streptochinasi (APSAC).

  • Streptochinasi: può causare reazioni allergiche immediate (per la pre-esistenza di anticorpi da precedenti infezioni streptococciche) o previa sensibilizzazione (non deve essere ripetuto entro 6 mesi da una prima somministrazione); per questo motivo alcuni prescrivono una premedicazione con metilprednisolone 40 mg ev. È stata usata alla dose di 250.000 U in 20 minuti, seguita da 100.000 U/ora per 24-48 ore; una lunga durata (2-3 giorni) è in genere richiesta per il trattamento delle TVP massive, ciò che aumenta il rischio emorragico. Durante la prima mezz’ora di somministrazione il paziente deve essere sorvegliato per il rischio di reazioni anafilattiche.
  • Urochinasi: a differenza della SK, ha un elevato costo di produzione. È stata utilizzata alla dose di 4.400 U/Kg in 20 minuti seguita da 4.400 U/Kg/ora, o a dosi dimezzate in associazione con l’eparina, o a dosi ancora più basse nel trattamento loco-regionale.
  • rt-PA: è il principale attivatore della fibrinolisi nel sangue; ha una azione litica elettiva sul trombo formato, ma alle dosi terapeutiche comporta alterazioni dell’emostasi e compli­canze emorragiche al pari degli altri trombolitici. In Italia l’impiego del rt-PA è autorizzato nel trattamento dell’infarto miocardico acuto e della TVP con sospetto clinico di embolia polmonare, non della TVP.

Un trattamento fibrinolitico prolungato richiede il monitoraggio dei fattori della coagulazione, a scopo cautelativo. Anche se l’allungamento di PTT e tempo di trombina (TT) possono venir utilizzati per valutare l’effetto biologico del trattamento trombolitico, non vi è un adeguato metodo di monitoraggio della terapia. Il parametro che meglio ne riflette l’efficacia è il TT, ma non esiste una chiara correlazione con la clinica. Alla sospensione, il trattamento va continuato con eparina e.v. a dosi terapeutiche, se il aPTT ratio non è già superiore a 2.

Tra i vari studi condotti molti hanno dimostrato una riduzione della massa trombotica, ma nessuno un chiaro beneficio clinico o una superiorità rispetto alla sola terapia eparinica in ordine alla complicanza tromboembolica e lo sviluppo della IVC.

Una modalità possibile di terapia fibrinolitica è per via locoregionale con catetere.

Recenti avanzamenti tecnologici hanno permesso di mettere a punto dei trombolisatori meccanici, posizionabili con tecnica percutanea. Le prime esperienze sembrano interessanti, ma, attualmente non sono disponibili dati sufficienti per una valutazione della metodica.

Raccomandazioni

Non è raccomandabile un uso estensivo del trattamento fibriniolitico della TVP.

Il trattamento fibrinolitico deve essere riservato in casi selezionati:

– potenziale compromissione della vitalità dell’arto (gangrena venosa),

– interessamento massivo iliaco-femorale o cavale,

-TVP ad esordio clinico non superiore a 7 giorni

-pazienti giovani in assenza di controindicazioni

-assenza di fattori di rischio emorragico assoluti o relativi.

Questo trattamento va preso in considerazione anche di fronte alla presenza di una controindicazione assoluta all’eparina, come in caso di trombocitopenia da eparina di tipo II (con un livello di piastrine non inferiore a 40.000-50.000/ml), tenendo comunque conto del fatto che esistono altri farmaci (irudina, danaparoid), utilizzabili nella stessa condizione.

Elastocompressione

L’utilità dell’applicazione della contenzione elastica, con calza antitrombo o con bendaggio fisso adesivo nella fase iniziale e con calza elastica (40 mmHg) dalla dimissione, è stata confermata da studi osservazionali che dopo 5 anni di follow-up in pazienti con recente TVP hanno osservato una sindrome post-trombotica di entità moderata solo nel 12% della popolazione controllata e di entità maggiore (ulcera o recidiva di TVP) solo nel 6% dei pazienti

Alcuni preferiscono l’impiego di compressione anelastica dell’arto con fascia di tipo forte, non adesiva, applicata dal piede alla coscia; altri quello di una contenzione elasto-adesiva. Qualora non fosse possibile garantire l’applicazione idonea delle fasciature di cui sopra, può essere in alternativa applicata una calza antitrombo, ma solo durante la permanenza a letto, in quanto la calza antitrombo è insufficiente se il paziente si alza e va sostituita con calza elastica classe compressiva.(v. capitolo relativo)

Trombectomia chirurgica

La rimozione chirurgica del trombo risulta possibile o efficace solo nei pazienti con trombosi di durata inferiore ai 15 giorni, anche se i migliori risultati si ottengono nelle trombosi inferiori ai 7 giorni; d’altra parte anche il trattamento trombolitico risulta inefficace nelle trombosi inveterate. La mortalità chirurgica è estremamente modesta o assente ed i risultati tardivi continuano ad essere particolarmente buoni. Vengono riportate pervietà elevate – del 58%, dell’84%, pervietà iliaca del 72%. Non vengono considerati indicati per l’intervento i pazienti con scarsa aspettativa di vita o con lesioni retroperitoneali infiammatorie o neoplastiche, coagulopatie, malattie arteriose periferiche o cardiache (Juhan 1991).

Allo stato attuale mancano lavori prospettici o randomizzati per poter confrontare i risultati della trombectomia chirurgica e della trombolisi farmacologica, (che per quanto riguarda la pervietà tardiva sono comunque migliori di quelli ottenuti con il solo trattamento eparinico).

Numerose review e lavori anche recenti, confermano l’indicazione alla trombectomia chirurgica in casi selezionati, ed in particolare nelle flebiti ischemizzanti e nelle trombosi iliaco-cavali flottanti. I buoni risultati stanno favorendo numerose esperienze di trombolisi meccanica percutanea, per le quali mancano ancora dati sufficienti per poter esprimere raccomandazioni a riguardo.

Filtri cavali

Il posizionamento di un filtro cavale prevede una diagnosi accertata di TVP e l’esecuzione preventiva di una cavografia inferiore per valutare la sede dello sbocco delle vene renali, la pervietà della cava ed il suo calibro; quest’ultimo dato è indispensabile nella scelta del tipo di filtro per un corretto ancoraggio alle pareti cavali.

Sono attualmente disponibili filtri definitivi che non possono essere rimossi e temporanei, da rimuovere entro 7 giorni. Un dispositivo temporaneo prolungato (2-3 settimane), non è al momento disponibile.

Indicazioni

Le indicazioni comunemente accettate al posizionamento di un filtro cavale sono le seguenti:

  • TVP prossimale, anche senza controindicazioni assolute alla terapia anticoagulante
  • Complicanze da terapia anticoagulante ben condotta
  • Inefficacia (EP ricorrenti e/o progressione della TVP) di terapia anticoagulante ben condotta

Altre situazioni, quali malattia tromboembolica con ridotta riserva cardiopolmonare, embolia polmonare cronica non trattata, trombo flottante in vena cava , per i quali mancano dati, richiedono una approfondita valutazione individuale da caso a caso.

Pazienti con storia pregressa di malattia tromboembolica e programma di intervento chirurgico addomino-pelvico, donne gravide con TVP prossimale e rischio embolico al parto, pazienti con trauma agli arti inferiori e al bacino, o casi di immobilità prolungata con severa ipertensione polmonare scarsamente compensata, possono trarre beneficio da un filtro a scopo profilattico. In questi casi un filtro temporaneo può rappresentare una alternativa alla terapia anticoagulante, in caso di controindicazione o fallimento di questa. Quando possibile, il filtro temporaneo deve essere preferito nei pazienti in giovane età, in considerazione della possibile insorgenza di complicanze a lungo termine associate alla permanenza in sede dei filtri cavali definitivi.

Un recente studio multicentrico randomizzato (Decousus) ha posto in evidenza il fatto che i filtri cavali non controllano efficacemente la malattia tromboembolica in assenza di terapia anticoagulante associata. In questo studio la superiorità iniziale del filtro (minor eventi embolici) è risultata controbilanciata nel lungo periodo (2 anni) da una maggior incidenza di recidive trombotiche agli arti inferiori, possibilmente riferibili alla trombizzazione del filtro stesso. I filtri cavali sono dispositivi validi e semplici da impiantare, ma non rappresentano una protezione aggiuntiva nei pazienti con malattia tromboembolica e che possono essere trattati efficacemente con terapia anticoagulante (Kaufman 1995).

Raccomandazione

I filtri cavali sono da prendere in considerazione solo in presenza di inefficacia o impossibilità della terapia anticoagulante o in situazioni particolari – Grado C

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  1. MALATTIE DEI LINFATICI

LINFEDEMA

Considerazioni generali
Il linfedema è una malattia cronica, frustrante per il paziente e per il medico. Questa patologia è causata da un difetto del sistema linfatico a cui segue un accumulo di linfa nello spazio interstiziale, che in un primo momento si localizza prevalentemente a livello sovrafasciale.

La prima funzione del sistema linfatico è quella di rimuovere dallo spazio interstiziale le grosse molecole, l’acqua e di permettere un tournover alle cellule del sistema linfatico (Bergan, 1996).

L’insufficienza linfatica dal punto di vista fisiopatologico viene suddivisa in insufficienza di tipo dinamico e meccanico.

L’insufficienza dinamica ( o insufficienza ad alta portata) è presente nel caso di un sistema linfatico integro che deve far fronte ad un carico proteico maggiore che supera le sue capacità di portata.

L’insufficienza meccanica ( o insufficienza a bassa portata) deriva da un danno primitivo o secondario del sistema linfatico, con carico proteico normale. (Földi, 1983).

Le proteine stimolano l’arrivo dei mastociti e dei granulociti neutrofili istaurando un processo di granulazione aspecifico che nel tempo volgerà a fibrosi dell’interstizio con un sovvertimento strutturale (Rutili, 1989)

Epidemiologia

Allo stato attuale permane difficile avere una visione chiara della diffusione del linfedema nel territorio mondiale in quanto persiste la difficoltà di avere sempre e in maniera immediata e specifica una corretta diagnosi. Dati epidemiologici dimostrano che il linfedema è molto diffuso nei vari paesi del mondo senza grosse differenze riguardo le sue manifestazioni cliniche: un terzo della popolazione mondiale presenta uno stato di edema dei quali il più serio è il linfedema: centoquarantamilioni di casi. Di questi la maggior parte è di tipo parassitario (quarantacinque milioni di casi), i restanti si dividono in linfedema secondari a chirurgia o a trauma (venticinquemilioni) ed i linfedema primitivi con un numero compreso tra i cinque ed i ventimilioni (WHO, 1984; Piller, 1997-98; Casley_Smith, 1985).

In Europa la Spagna presenta un incidenza prevalente nel sesso femminile (84%) con un età compresa tra i 45 ed i 59 anni.

La distribuzione del linfedema è rispettivamente nel 79% dei casi di tipo primario e nel 21% secondario, di cui il 76,5% dei casi di linfedema primario è sotto i 45 anni e l’80% dei casi di linfedema secondario è sopra i 45 anni. L’incidenza del linfedema secondario vede al primo posto l’ortopedia (33%) a cui si associano i traumi (25,5%) ed i tumori (18,9%). In quest’ultimo caso, il 90% dei secondari a neoplasie è rappresentato dal linfedema post-mastectomia. Localizzazione: 21,7% arti superiori; 79% arti inferiori (Cantalejo, 1997).

In Italia vi sono pochi dati riguardanti i linfedemi primitivi che rappresenterebbero il 30-40% del totale. I linfedemi secondari sono rappresentati per il 40% dai post-mastectomia e per il 40% dai post-isterectomia (Statistiche della sanità, 1997; Michelini, 1998).

Raccomandazioni

Mancano a tutt’oggi dei dati attendibili riguardo l’epidemiologia del linfedema in Italia e nel mondo – Grado C

Prevenzione

Il linfedema primario è una condizione clinica ad esordio improvviso, perciò imprevedibile. Al contrario quello secondario è clinicamente prevedibile anche se non per quanto concerne il momento dell’esordio così come, in fase conclamata, sono prevedibili alcune sue complicanze, ed il decorso clinico ingravescente.

Le proposte di prevenzione finora effettuate da vari esperti del settore in tutto il mondo,riguardano esclusivamente il linfedema secondario e sono prevalentemente indirizzate al chirurgo operatore, (tipo di incisione e tecnica chirurgica, conservazione dell’integrità delle zone di drenaggio linfatico di maggior importanza per l’arto), o all’oncologo (allestire una radioterapia moderatamente aggressiva, se possibile). Le proposte avanzate mirano ad un’analisi del sistema linfatico prima che si instauri il linfedema post-chirurgico mediante linfangiografia radioisotopica entro 2-3 mesi dall’intervento per studiare l’anatomia e la funzionalità residue dell’arto a rischio (Witte 1996) e ad una prevenzione delle manifestazioni infettive (dermolinfangioadenite) mediante somministrazione di benzatin-penicillina ad vitam (Olszewsky 1996).

Attualmente la prevenzione del linfedema, nella maggior parte dei casi, viene mirata a evitare le complicanze, soprattutto infettive, ma riteniamo che debba essere soprattutto tesa a bloccarne l’evoluzione macroscopica: ovvero, aumento di volume dell’arto affetto. Questo è attuabile solo se, come ufficialmente riconosciuto dal Consensus Document ISL 1995, viene prontamente allestito e protratto nel tempo il protocollo terapeutico fisico complesso modificato secondo la clinica, con tutti gli accorgimenti consigliati al paziente, (regole di vita, ginnastica domiciliare, psicoterapia, autoterapia) in tutti i tipi di linfedema ma in particolar modo se si tratta di un linfedema negli stadi iniziali (molle intermittente, molle remittente). Resta fermo un punto: prevenire un linfedema vuol dire evitarne l’esordio, se possibile, o bloccarne l’evoluzione. Nei casi non ancora complicati questi fini sono raggiungibili mediante una tempestività terapeutica rappresentata dalla kinesiterapia (linfodrenaggio, pressoterapia), e dall’uso di materiale compressivo (bendaggi multipli, tutori elastici, calze elastiche) nonché da alcuni medicamenti ad azione linfotropa. La prevenzione secondaria dipende a sua volta dalla scelta e dalla disponibilità di kinesiterapisti esperti, dalle aspettative del paziente, dalla sua capacità di collaborazione e dai costi. (Kauffmann 1996, Biassoni 1996, Pecking 1996, Campisi 1996).

Raccomandazioni

– Informazione del paziente sulla evoluzione della sua malattia e sulla probabile comparsa di un linfedema per prepararlo ad affrontare il problema

– Diagnosi precoce e l’impostazione di una terapia fisica coadiuvata da terapia farmacologica e norme di vita per evitare che un edema molle diventi fibrotico qualunque sia la sua etiologia.

– Valutazione chirurgica di tecniche e procedure da scegliere nei pazienti a rischio – Grado C

Diagnostica clinica

Spesso un’accurata anamnesi e l’esame obiettivo rivelano la causa dell’edema e suggeriscono la diagnosi di linfedema, a cui segue un successivo approfondimento diagnostico strumentale.

Ma sebbene l’etiologia del linfedema primitivo sia diversa da quella del linfedema secondario, il quadro clinico ed il caratteristico aspetto obiettivo della malattia sono spesso simili (Gloviczki, 1995).

L’anamnesi esclude la presenza di patologie di base (cardiache, nefrologiche,…) e chiarisce l’epoca, le modalità di comparsa dell’edema e l’evoluzione fino al quel momento dell’edema.

Il paziente affetto da linfedema deve essere visitato in posizione ortostatica e clinostatica. Nell’ispezione occorre valutare i caratteri cutanei, la distribuzione dell’edema, la presenza di dolore spontaneo o evocato, l’accentuazione delle pliche cutanee, la presenza di eventuale essudazione linfatica, la presenza

di reticoli venosi varicosi o di varici linfatiche, di linfoadenopatie, segni di linfangite o presenza di altre lesioni dermatologiche attive o pregresse. La palpazione valuta la presenza di dolore spontaneo o evocato, la consistenza dell’edema; si ricerca la presenza di pitting edema, il segno di Stemmer e si misura l’arto. Inoltre è importante definire i caratteri delle stazioni linfonodali esplorabili e valutare il peso e l’altezza del paziente.

Vari autori considerano dei punti chiave per la classificazione clinica del linfedema degli arti: la distribuzione temporo-spaziale e l’entità dell’edema, lo stato della cute e degli annessi, la funzionalità dell’arto, la presenza di linfangiti attuali o pregresse, e la presenza di essudazione linfatica (Gloviczki, 1995).

Sono state proposte: classificazioni eziopatogenetiche, anatomiche, funzionali e cliniche.

A grandi linee i linfedemi vengono suddivisi in due gruppi; Primitivi (per dilatazione, stenosi o aplasia dei collettori linfatici) e Secondari che originano da lesioni estrinseche che si producono a causa di exeresi di linfonodi o di danno sui vasi linfatici .Tanto il linfedema primitivo che secondario possono avere un evoluzione maligna.

Tra le varie classificazioni ad oggi usate vengo riportate solo alcune: criteria committee of the N.Y. Heart Associatio (1964), Classificazione di Zierman (1966), Classificazione di Battezzati-Donini (1967), Classificazione di Howard (1968), Classificazione di Földi (1971, 1982), Classificazione di Cordeiro (1983), Classificazione di Martorell (1972), Classificazione di Hunt (1972), Classificazione di Kinmonth (1982), Classificazione di Pietravallo (1988), Classificazione Operativa (Donini, 1992- modificata 1998), Classificazione di Campisi (1997).

In queste linee guida si è data preferenza alla classificazione operativa clinico-anatomico-funzionale (Donini, 1992 – modificata 1998) che inquadra il linfedema in cinque stadi clinici. Questa classificazione nasce da un analisi critica delle varie classificazioni riportate associando nuovi aspetti nella classificazione del linfedema dell’arto superiore e rapportando il quadro clinico al quadro istopatologico. A questa classificazione si associa la classificazione eziopatogenetica di Battezzati-Donini modificata (Tosatti, 1967) che divide il linfedema in base al danno anatomico o funzionale del sistema linfatico in malattie della funzione collettoria, malattie da alterazione della linfogenesi e dell’assorbimento linfatico, malattie ad eziopatogenesi mista.

Diagnostica strumentale

Le tecniche più utilizzate attualmente nella diagnostica del linfedema degli arti inferiori sono rappresentate dalla linfoscintigrafia e dall’ecografia. Altre tecniche supplementari sono l’ecodoppler venoso, la microlinfangiografia, la TC, la RMN, la flebografia, la biopsia linfonodale e la linfografia (utilizzate in casi selezionati) (Consensus document of ISL, 1995).

La linfoscintigrafia con l’utilizzo di tecnezio-99-m in forma di radiocolloide permette sia un esame morfologico che funzionale del sistema linfatico degli arti inferiori. (Taylor1957, Kinmonth1952).

L’ecografia dei tessuti molli dimostra la presenza di linfa libera a livello sovrafasciale ed interstiziale (Vettorello, 1992).

Gli altri esami sono tecniche di completamento diagnostico in particolar modo la TC con mezzo di contrasto, la flebografia, la linfografia e la biopsia linfonodale per l’esclusione di complesse malformazioni congenite o malattie di natura neoplastica (Pecking, 1997).

La microlinfangiografia a fluorescenza è una metodica non invasiva che attualmente permette di valutare il drenaggio linfatico spontaneo di alcune sostanze particolari iniettate a livello del derma. (Bollinger 1985, Allegra, 1995).

Raccomandazione

Esami di primo livello diagnostico: ecografia dei tessuti molli ed ecodoppler, esami di secondo livello diagnostico: linfoscintigrafia radioisotopica ed eventualmente la microlinfoscintigrafia a fluorescenza, esami di terzo livello diagnostico: la linfografia, la flebografia, la TC e la RMN ed altri esami strumentali – Grado A

Trattamento

Il trattamento del linfedema degli arti è prevalentemente conservativo, le metodiche chirurgiche vengono riservate a casi selezionati in stadi clinici avanzati.

Il trattamento conservativo si divide in farmacologico e fisico-compressivo.

Il trattamento fisico-compressivo comprende varie metodiche: il Drenaggio Linfatico Manuale (DLM), la Compressione, la Pressoterapia (PT), la declivoterapia e la termoterapia. (Bouchet, 1997).

La farmacoterapia prevede l’utilizzo dei benzopironi, quale la cumarina che agisce direttamene sulle fasi della flogosi, in particolar modo sul macrofago accelerando se usata in maniera continua la degradazione proteica attivando l’assorbimento extralinfatico (Casley-Smith, 1968). I benzopironi vengono utilizzati in tutte le fasi del linfedema sia esso di natura primitiva o secondaria.

Gli antibiotici sono usati in corso di complicanze infettive (linfangiti) e si da la preferenza agli antibiotici della classe delle pennicelline e cefalosporine, mentre viene sconsigliato l’uso dei diuretici poiché tendono a rimuovere prevalentemente la parte idrica, ma non la proteica (Casley-Smith, 1994).

Il trattamento fisico non dev’essere ridotto ad una sola metodica, ma dev’essere l’associazione di queste, combinate in funzione dello stadio evolutivo e della strategia del momento (Clodius, 1984; Oliva, 1996).

Laterapia fisica combinata viene suddivisa in due fasi: la prima fase è rivolta alla riduzione del carico linfatico interstiziale con conseguente diminuzione volumetrica dell’arto, mentre la seconda fase ha la funzione di stabilizzare ed eventualmente migliorare i risultati ottenuti.

La prima fase si attua con l’associazione del drenaggio linfatico manuale, del bendaggio, di adeguati esercizi fisici e la meticolosa cura della cute. La seconda fase consiste nell’utilizzo quotidiano della calza elastica, nell’esecuzione di specifici esercizi e nella meticolosa cura della cute (Földi, 1993). Alcuni autori associano alla seconda fase l’utilizzo della pressoterapia (Ko, 1998; Lerner, 1998).

La declivoterapia è risultata sicuramente utile nel ridurre l’edema (O’Donnell, 1992).

La termoterapia molto utilizzata è tuttavia in fase di studio (Gloviczki, 1991).

Raccomandazione

E’ importante che il trattamento fisico non sia l’uso di una sola metodica, ma l’applicazione strategica delle varie metodiche decise in base ai momenti evolutivi del linfedema – Grado B

Trattamento Chirurgico

Attualmente molte tecniche vengono utilizzate nel trattamento chirurgico del linfedema degli arti

– Gli interventi di tipo fisiologico o derivativo prevedono un ripristino del normale flusso linfatico attraverso la creazione di anastomosi linfatico-venose, linfatico-venoso-linfatiche, e trapianti di linfatici autologhi con anastomosi linfo-linfatica.

– Gli interventi di tipo resettivo non seguono un principio strettamente fisiopatologico, ma si limitano alla demolizione di ampie aree di tessuto cutaneo, sottocutaneo e fasciale.

– Gli interventi di tipo misto associano i due concetti, e riconoscono come capo stipite di queste metodiche l’intervento di Thompson.

– Tra gli Interventi di tipo Escissionale l’Intervento di Charles è risultato utile in alcuni pazienti con edema esteso non responsivo alla terapia conservativa e con gravi alterazioni trofiche cutanee (Charles, 1912; Taylor, 1965).

– L’Intervento di Thompson ha visto una maggiore sperimentazione clinica con dei risultati a distanza discreti, anche se esami linfangiografici non hanno dimostrato la presenza di nuove anastomosi tra il sistema superficiale ed il profondo, ma in casi selezionati è risultato essere utile nel ridurre a distanza l’edema, anche se gravato da gravi complicanze infettive nel postoperatorio (Thompson, 1980; Kinmonth, 1965).

– L’Intervento di Homans ha dei risultati maggiori nei grossi linfedema con un recupero funzionale dell’arto nelle forme primitive, mentre nel secondario i risultati sono stati diversi in base alle diverse casistiche. (Homans, 1936; Sinstrunk, 1918).

– La Linfoliposuzione permette la rimozione di falde linfatiche con una buona diminuzione del 50% dell’edema ad un anno ed è caratterizzata, rispetto alle altre metodiche, da una minore invasività. (Gasbarro, 1998; Brorson, 1997)34,35.

Gli interventi di tipo derivativo prevedono come tecnica capostipite la creazione di anastomosi linfatico-venose. Le anastomosi linfatico-venose hanno in un primo momento riscontrato gran successo nell’ambiente linfologica ma la loro efficacia a lungo termine è risultata essere dubbia, in quanto non si riesce a ben documentare la pervietà a distanza dell’anastomosi, comunque in alcune casistiche il miglioramento ad un anno è stato del 74% dei casi trattati. (Zhu,1987; Campisi, 1997).36,37

– Altre metodiche di tipo derivativo sono state in gran parte abbandonate sia per gli scarsi risultati che davano a distanza sia per le complicanze associate: l’Innesto linfatico(Baumeister,1990); la tecnica di Kinmonth o del ponte mesenterico (Kinmonth, 1978); la tecnica di Goldsmith del lembo omentale(Goldsmith, 1974; O’Brien, 1979).

Raccomandazioni

La migliore indicazione per un intervento chirurgico escissionale è la compromissione funzionale dell’arto dovuta all’eccessivo linfedema refrattario al trattamento conservativo. I migliori risultati si sono ottenuti con l’associazione della linfoliposuzione con l’intervento di Homans modificato, benché le casistiche a livello internazionale sono esigue.

Attualmente non ci sono studi multicentrici che dimostrano la reale efficacia degli interventi derivativi.

Si raccomanda che la terapia chirurgica dev’essere eseguita in strutture altamente specializzate con esperienza specifica – Grado C

Consigli generali

– Modulazione dell’attività sportiva, con limitazione agli sport continuativi, non in maniera agonistica (nuoto, corsa, bicicletta, allungamento “se ben fatto”) (sconsigliata la pesistica o sport traumatici in genere).

– Porre gli arti in posizione declive non appena l’attività quotidiana lo consente (porli rialzati di 15-20 cm).

– Evitare la permanenza prolungata in posizione seduta così come quella in stazione eretta.

– Proteggersi dall’irradiazione solare (fare attenzione al caldo eccessivo anche sotto forma di bagni o di contatti con superfici calde o esposizione a fonti di calore.

– Non indossare calze con elastici che stringano in maniera eccessiva, così come portare calzature troppo costrittive.

– Portare sempre le scarpe più appropriate, comunque comode (tacchi bassi, sono da evitare i sandali o calzature scoperte che permettano traumatismi).

– Istruire il paziente che qualsiasi modificazione dell’arto di tipo termico o doloroso deve essere segnalata.

– Avere cura dell’igiene dei piedi.

– Le punture di insetti vanno evitate proteggendosi con apposite creme repellenti.

– Occorre fare molta attenzione alle lesioni cutanee procurate da animali domestici.

– Tenere sempre il peso corporeo sotto controllo.

– Redigere un diario clinico personale su cui si annotano: peso corporeo ogni due mesi, sintomi clinici (arrossamenti, dolore “indicando sede, intensità ed irradiazione”, diametri dell’arto (dorso del piede, caviglia, 1/3gamba – da rilevare ogni due settimane diametri sotto il ginocchio e coscia ogni mese), variazioni dietetiche, attività fisica, farmaci assunti, controlli specialistici, sedute di fisioterapia.

– Non calzare mai scarpe a piedi nudi e non camminare a piedi nudi.

– In caso di viaggi in treno, auto o aereo mantenere gli arti in scarico, muovendoli quando possibile.

Consigli Specifici

I Stadio

Clinica: L’edema è molle, recede con il riposo notturno e presenta una differenza di calibro con l’arto contro-laterale sano di 1-2 cm di circonferenza. La cute mantiene l’elasticità, con segno di Stemmer positivo; non si evidenziano lesioni trofiche. Il paziente non riferisce episodi precedenti di linfangiti. La funzionalità dell’arto è conservata o lievemente modificata. Non è presente essudazione linfatica.

Diagnostica strumentale: Ecodoppler venoso, Ecografia tessuti molli, Linfoscintigrafia.

Terapia:DLM: 2 sedute settimanali – ciclo di 12/15 sedute (almeno 2 cicli annuali) seguite da sedute di mantenimento.

Compressione: Tutore elastico di 18-21 mmHg.

Farmacoterapia:Benzopironi (cumarina, diosmina)

II Stadio

Clinica: L’edema è molle, recede parzialmente con il riposo notturno e presenta una differenza di calibro con l’arto controlaterale sano di 3-5 cm di diametro. La cute mantiene in parte l’elasticità, con segno di Stemmer positivo; non si evidenziano lesioni trofiche di rilievo (pachidermite semplice). Il paziente non riferisce generalmente episodi precedenti di linfangiti anche se in alcuni casi sono presenti episodi isolati. La funzionalità dell’arto è conservata o lievemente modificata. Non è presente essudazione linfatica.

Diagnostica strumentale: Ecodoppler venoso, Ecografia tessuti molli, Linfoscintigrafia, eventualmente la Microlinfoscintigrafia.

Terapia:DLM: 2 sedute settimanali – ciclo di 12/15 sedute (almeno 3 cicli annuali) seguite da sedute di mantenimento.

Compressione: Bendaggio anelastico. Tutore elastico di 25-32 mmHg.

Pressoterapia:2 sedute settimanali per 10-12 settimane (3 cicli annuali) – mantenimento con apparecchio domiciliare ( 1 seduta al dì).

Farmacoterapia: Benzopironi (cumarina, diosmina)

Termoterapia: due volte al giorno per quaranta minuti

III Stadio

Clinica: L’edema è duro-elastico, non recede con il riposo notturno e presenta una differenza di calibro con l’arto controlaterale sano di 5-8 cm di diametro. La cute perde di elasticità, con segno di Stemmer positivo; si evidenzia una pachidermite del lato esterno dell’arto. Il paziente riferisce numerosi episodi di linfangite. La funzionalità dell’arto è modificata con limitazione nei movimenti di flesso-estensione. Può essere presente essudazione linfatica.

Diagnostica strumentale: Ecodoppler venoso, Ecografia tessuti molli, Linfoscintigrafia, eventualmente la Microlinfoscintigrafia., Linfografia (casi selezionati)

Terapia:DLM: 2 sedute settimanali – ciclo di 12/15 sedute (almeno 4 cicli annuali) seguite da sedute di mantenimento.

Compressione: Bendaggio anelastico. Tutore elastico di 36-46 mmHg.

Pressoterapia:2 sedute settimanali per 10-12 settimane (4 cicli annuali) – mantenimento con apparecchio domiciliare ( 1 seduta al dì).

Farmacoterapia:Benzopironi (cumarina, diosmina)

Termoterapia: tre volte al giorno per quaranta minuti

Terapia Chirurgica Derivativa

IV Stadio

Clinica: L’edema è duro, non recede con il riposo notturno e presenta una differenza di calibro con l’arto controlaterale sano maggiore di 8 cm di diametro. La cute ha perso di elasticità, con segno di Stemmer negativo; si evidenzia una pachidermite diffusa con cute a “buccia d’arancia” ed è presente essudazione linfatica. Il paziente riferisce numerosi episodi di linfangite, con diminuzione dell’intervallo libero. La funzionalità dell’arto è notevolmente modificata con impotenza funzionale in rapporto all’aumento di peso dell’arto ed alla fibrosi.

Diagnostica strumentale: Ecodoppler venoso, Ecografia tessuti molli, Linfoscintigrafia, eventualmente la Microlinfoscintigrafia, Linfografia (casi selezionati), Biopsia tissutale (casi selezioanti), Flebografia (casi selezionati), TC, RMN (casi selezionati).

Terapia:DLM: di scarsa utilità

Compressione: Bendaggio anelastico . Tutore elastico > 59 mmHg.

Pressoterapia:di scarsa utilità

Farmacoterapia:Benzopironi (cumarina, diosmina)

Termoterapia:tre volteal giorno per quaranta minuti

Terapia Chirurgica Demolitiva

V Stadio

Clinica: L’edema è duro, l’arto assume un aspetto grottesco (elefantiasi) non recede con il riposo notturno. Si osservano deformazioni osteo-articolari. La cute ha perso di elasticità, con un segno di Stemmer negativo; si evidenzia una pachidermite diffusa con cute a “buccia d’arancia”, assenza di essudazione linfatica. La funzionalità dell’arto è notevolmente modificata con impotenza funzionale in rapporto all’aumento di peso dell’arto ed all’aumento notevole della fibrosi, che limita i movimenti funzionali dell’arto, con ipotrofia muscolare.

Diagnostica strumentale: Ecodoppler venoso, Ecografia tessuti molli, Linfoscintigrafia, eventualmente la Microlinfoscintigrafia, Linfografia (casi selezionati), Biopsia tissutale (casi selezioanti), Flebografia (casi selezioanti), TC, RMN.

Terapia:DLM: di scarsa utilità

Compressione: Bendaggio anelastico. Tutore elastico > 59 mmHg.

Pressoterapia: di scarsa utilità.

Farmacoterapia:di scarsa utilità

Termoterapia:tre-quattro volteal giorno per quaranta minuti

Terapia Chirurgica Demolitiva

Qualita’ della vita

Nel nostro paese la maggior parte della terapia del linfedema è affidata alla gestione di diversi operatori medici: angiologi, medici estetici, chirurghi generali e vascolari, chirurghi plastici, microchirurghi che sono portati a vedere il problema ognuno dalla propria angolazione. Ciò produce un confuso approccio terapeutico e quindi una non buona qualità di vita. Il linfedema primario e, tra i secondari, i linfedemi conseguenti a trattamenti chirurgici per cancro, soprattutto della mammella, rappresentano delle condizioni di riferimento per comprenderne le ripercussioni sulla qualità di vita del paziente (Casley-Smith 1997). Recenti indagini in proposito concordano sul fatto che il paziente è più preoccupato della differenza di volume tra un arto e l’altro rispetto ai sintomi a carico dell’arto edematoso come la pesantezza o il prurito o le parestesie. Inoltre è l’edema della mano che in maggior misura aggrava psicologicamente la paziente rispetto all’edema dell’intero braccio suscettibile di essere “nascosto”. Nel corso di linfedema post-mastectomia l’arto gonfio può rappresentare un vero e proprio handicap, soprattutto se dal lato maestro, sia per movimenti macroscopici come lavarsi, pettinarsi, indossare una camicia, lavare i piatti, sia per azioni più fini come allacciarsi una collana o scrivere, sia per altre attività od hobbies come stirare, trasportare pesi, praticare il giardinaggio, etc.

La qualità di vita del paziente con linfedema dipende da una diagnosi precoce, dall’informazione e da una terapia il più adeguata possibile alle sue esigenze. L’assenza di centri dedicati al trattamento del linfedema, la scarsità delle scuole e dei corsi di preparazione in campo linfologico, l’alto costo delle terapie e la loro durata “ad vitam” e condizioni specifiche, rappresentate essenzialmente dalla compliance del paziente, rendono difficoltoso perseguire buoni risultati. E’ possibile affermare che l’approvazione e la consapevolezza del paziente rappresentano circa il 40% del successo della strategia terapeutica. Il danno estetico (asimmetria degli arti), il danno funzionale (inadeguatezza o perdita di alcune funzioni ) e l’alterazione della vita di relazione (imbarazzo nel rapporto col proprio partner o nell’ambiente di lavoro) rappresentano i cardini della reazione emotiva alla malattia.

L’accettazione del trattamento nelle sue varie proposte rimane a volte un ostacolo per il linfologo: il DLM e la PT sono i trattamenti preferiti nonostante debbano essere effettuati a cadenza costante; al contrario il bendaggio o la contenzione, insostituibili se ben allestiti ed adeguatamente indossati per il processo di disinfiltrazione della cute, sono mal tollerati e mal accettati per l’aggravio estetico, perché costringono il paziente a rendere evidente la malattia e per la necessità di essere indossati quotidianamente sia durante il riposo che nella pratica di esercizi specifici (ginnastica decongestionante – GD). Nella compliance del paziente con linfedema riveste un ruolo fondamentale l’ambiente sociale e familiare che circonda il malato. Il sostegno psicologico e la sollecitazione all’autoterapia da parte dei parenti devono associarsi alla partecipazione attiva alla cura dell’arto malato (DLM, bendaggio, assistenza alla GD) da sotto la guida e l’insegnamento del medico linfologo. (Casley-Smith 1986, 1997; Oliva 1996; Alliot 1997; Földi 1999)

Raccomandazioni

– diagnosi precoce che consideri il tempo di comparsa della patologia, i fattori patogenetici che la hanno determinata e lo stadio clinico al momento della diagnosi;

– accertamento sui tentativi terapeutici precedenti alla diagnosi eventualmente inadeguati: DLM eseguito non correttamente o PT effettuata a pressione non adeguate,

negligenza dell’applicazione dei bendaggi quasi costante;

– proposta di una strategia terapeutica mirata e personalizzata alle esigenze del paziente. Ricordiamo che mentre la riduzione volumetrica del linfedema è misurabile non è

altrettanto facile valutare un peggioramento della qualità di vita che potrebbe pregiudicare il successo terapeutico – Grado B

Malformazioni linfatiche

Le malformazioni congenite del sistema linfatico hanno un’incidenza relativamente più bassa nella popolazione, ma costituiscono patologie gravemente invalidanti in quanto producono disordini funzionali ed estetici di grado severo.

Si tratta di malformazioni congenite del sistema linfatico caratterizzate da anomalie disembriogenetiche dei capillari linfatici tissutali o dei principali collettori linfatici degli arti, del capo e del tronco.

Si registra una netta prevalenza delle localizzazioni periferiche, soprattutto nel distretto degli arti inferiori, ma si osservano anche forme cervico-facciali, toraciche e pelviche.

In base al distretto dell’albero circolatorio linfatico che è prevalentemente interessato, è utile fare riferimento ad una classificazione anatomo-patologica che distingue forme capillari e forme tronculari (Tab. 21).

Tab. 11 Classificazione anatomo-clinica delle malformazioni linfatiche

Malformazioni dei capillari linfaticiLinfangiomi tissutali diffusi
 Linfangiomi microcistici
Malformazioni dei collettori linfaticiIgromi cistici
 Linfedemi congeniti

Le malformazioni dei capillari linfatici sono note comunemente come linfangiomi.

I linfangiomi sono caratterizzati dalla presenza nella cute, nelle mucose o nei tessuti molli sottostanti di una fitta rete di vasi linfatici microscopici. Le loro dimensioni sono estremamente variabili, da quelle di un piccolo nodulo a quelle di una voluminosa massa tumorale. Le localizzazioni più frequenti sono quelle cranio-facciali (soprattutto linguali e palpebrali), al cavo ascellare ed alla regione inguinale. In alcuni casi mostrano un aspetto infiltrativo diffuso (linfangiomi tissutali diffusi), in altri casi presentano una struttura microcistica con le caratteristiche vescicole linfatiche (linfangiomi microcistici).

Le malformazioni dei collettori linfatici sono rappresentate da varie anomalie congenite a carico di tronchi linfatici di medio e grosso calibro.

Gli igromi cistici sono costituiti dall’abnorme dilatazione con ectasia sacciforme di grossi collettori o cisterne di raccolta nelle principali stazioni di drenaggio del sistema linfatico: le sedi anatomiche caratteristiche sono in regione masseterina, sottomandibolare, latero-cervicale, ascellare ed inguinale. Raramente si riscontrano forme mediastiniche, che possono complicarsi con la compressione di strutture anatomiche vitali quali la trachea e le vene centrali.

I linfedemi congeniti sono caratterizzati da un’edema massivo massivo ingravescente a carico di un arto causato dall’ipoplasia o dall’agenesia dei principali tronchi linfatici periferici con conseguente ostacolo al deflusso e stasi linfatica nel compartimento interstiziale dei tessuti.

Si possono inoltre distinguere schematicamente malformazioni linfatiche pure, caratterizzate da alterazioni isolate dei vasi linfatici, e forme miste linfatico-venose, in cui si osserva la coesistenza di anomalie congenite del circolo linfatico e del sistema venoso superficiale e/o profondo.

La storia naturale delle malformazioni linfatiche è estremamente variabile.

I linfangiomi e gli igromi cistici sono in genere già presenti alla nascita e manifestano la tendenza ad un graduale accrescimento nel corso degli anni, con pousseés evolutive legate a vari fattori (ormonali, traumatici, infettivi). In alcuni casi si osserva una involuzione progressiva della massa o della sacca linfatica dopo la pubertà.

I linfedemi congeniti si manifestano più spesso alla nascita, nell’infanzia o nell’adolescenza, ma possono talora rendersi evidenti soltanto in età adulta. L’evoluzione è lentamente ingravescente.

Le complicazioni più frequenti sono in genere di carattere locale (Tab. 22).

Tab. 12 Complicazioni delle malformazioni linfatiche

LinfangiomiLinforragie
 Necrosi cutanee
Igromi cisticiEmorragia intracistica
 Infezione
 Compressione di organi vitali
Linfedemi congenitiLinfangiti
 Pachidermia
 Ulcerazioni cutanee

Quadro clinico

Il quadro clinico delle malformazioni linfatiche è strettamente correlato al tipo e alla gravità delle anomalie anatomiche presenti nonchè alla regione corporea interessata.

I linfangiomi si manifestano nelle localizzazioni superficiali come tumefazioni sottocutanee o chiazze cutanee rilevate di colorito biancastro, a superficie irregolare e verrucosa.

Nelle forme microcistiche è frequente il riscontro di caratteristiche microvescicole traslucide contenenti un liquido sieroso. Si associano spesso lesioni cutanee di tipo distrofico.

Gli igromi cistici si presentano come voluminose tumefazioni sottocutanee di consistenza molle e spugnosa, fluttuanti, moderatamente espansibili alle manovre antigravitarie, non pulsanti. Quando si complicano con una emorragia intracistica possono assumere una consistenza dura ed un colorito bluastro, che possono porre problemi di diagnosi differenziale.

I linfedemi congeniti si manifestano col progressivo aumento di dimensioni di un arto, a carattere lentamente ingravescente. Si distinguono forme sporadiche e forme familiari. Interessano tipicamente gli arti inferiori, ma colpiscono con minore frequenza anche gli arti superiori. Possono essere unilaterali o bilaterali.

L’edema linfatico è tipicamente pastoso nelle fasi iniziali della malattia ma diventa progressivamente duro e fibroso, si caratterizza per l’interessamento massivo dell’arto con massima evidenza nelle regioni acrali e manifesta una scarsa reversibilità al sollevamento dell’arto stesso. Nelle fasi avanzate possono evidenziarsi varie complicazioni: lesioni cutanee di tipo ipertrofico con verrucosi e pachidermia, eczemi e linfangiti essudative.

Diagnosi

Il protocollo diagnostico delle malformazioni linfatiche include l’ecocolordoppler, la risonanza magnetica (RM), la linfografia e la linfoscintigrafia. Le indicazioni e la forza relativa delle raccomandazione nelle varie forme di malformazioni linfatiche possono essere schematizzate in una tabella di riferimento (Tab. 23).

Tab. 13 Appoccio diagnostico al paziente con malformazione linfatica

LinfangiomaEcocolordoppler (++)
RM o TC (+++)
Igroma cisticoEcocolordoppler (+++)
RM o TC (+++)
Linfografia diretta (++++)
Linfedema congenitoLinfografia ascendente (++)
Linfoscintigrafia (++++)
Ecocolordoppler (+)

L’esame ecocolordoppler deve innanzitutto escludere la presenza di alterazioni del circolo arterioso e venoso, confermando il sospetto clinico di malformazione vascolare di tipo linfatico.

Nei linfangiomi si evidenzia generalmente un notevole ispessimento dei tegumenti nel cui contesto si riscontrano piccole cavità con segnale ecogenico di tipo fluido, scarsamente compressibili con la sonda, in assenza di flusso dimostrabile all’esame doppler.

Gli igromi cistici mostrano all’esame ecografico l’aspetto di voluminose formazioni espansive a contenuto liquido, di dimensioni estensione variabili, unicamerali ma più spesso polilobulate, con pareti spesse ed iperecogene, in cui l’analisi flussimetrica mediante colordoppler non evidenzia flusso ematico nè di tipo arterioso nè di tipo venoso.

Nei linfedemi l’ecocolordoppler non offre informazioni dirette significative sulle alterazioni del sistema linfatico ma consente uno studio accurato del circolo venoso superficiale e profondo, evidenziando l’eventuale associazione di un’insufficienza venosa congenita o secondaria.

La risonanza magnetica permette di valutare l’estensione, le dimensioni e i rapporti anatomici delle malformazioni linfatiche localizzate.

La linfografia per puntura diretta della cisterna linfatica è un esame indispensabile negli igromi cistici per ottenere uno studio morfologico della sacca ma soprattutto per eseguire una procedura di scleroembolizzazione percutanea.

La linfografia ascendente, eseguita incannulando un collettore linfatico del piede, è utile nei linfedemi congeniti per studiare l’anatomia della circolazione linfatica dell’arto.

La linfoscintigrafia viene eseguita iniettando albumina radiomarcata nel tessuto sottocutaneo del piede: è molto usata per lo studio del drenaggio linfatico nei linfedemi periferici in quanto consente di evidenziare e localizzare ostruzioni, ipoplasie, atresie di collettori linfatici in maniera poco invasiva.

Terapia

La strategia terapeutica è subordinata ad un’accurata valutazione diagnostica preoperatoria ed è principalmente correlata al tipo di malformazione linfatica, alle sue dimensioni, alla sede anatomica.

L’atteggiamento terapeutico dev’essere il più possibile conservativo, in quanto l’asportazione chirurgica delle malformazioni linfatiche è gravata da un’alta incidenza di recidive e da sequele estetiche spesso inaccettabili.

Le opzioni terapeutiche e la rispettiva forza delle raccomandazioni nei vari tipi di malformazione linfatica possono essere riassunti in uno schema di riferimento (Tab. 24).

Tab. 14 Condotta terapeutica nel paziente con malformazione linfatica

Linfangioma tissutale microcisticoSclerosi percutanea (+++) Chirurgia (+)
Linfangioma tissutale diffusoChirurgia (++)
Igroma cisticoScleroembolizzazione (++++)
Linfedema congenitoChirurgia (++)

La scleroterapia percutanea costituisce attualmente il trattamento di prima scelta nei linfangiomi tissutali microcistici e soprattutto negli igromi cistici, in quanto consente di ottenere in maniera non invasiva ottimi risultati clinici con la regressione completa delle vescicole o delle cisterne linfatiche. Le dimensioni della lesione orientano la scelta del mezzo sclerosante: nei linfangiomi e negli igromi cistici di piccolo calibro si preferisce l’uso del polidocanolo, laddove in presenza di voluminose sacche linfatiche è necessario ricorrere all’etanolo o all’ethibloc.

L’iniezione dell’agente sclerosante dev’essere sempre seguita da un’adeguata compressione selettiva loco-regionale, in particolar modo nelle forme lacunari di grosse dimensioni.

La chirurgia trova indicazione nelle forme tissutali diffuse con carattere evolutivo e nelle forme periferiche localizzate, in cui l’asportazione chirurgica radicale può essere eseguita senza esiti esteticamente deturpanti o funzionalmente invalidanti.

Nei linfedemi in fase avanzata con gigantismo di un arto è possibile eseguire interventi di cutolipofascectomia, che consentono al paziente di recuperare la funzione motoria altrimenti compromessa.

I risultati dei vari interventi di ricostruzione del sistema linfatico proposti negli ultimi anni, quali le anastomosi linfatico-venose, non sono sufficientemente favorevoli da indurre ad un uso routinario di tali procedure.

In casi selezionati può essere utile anche nelle malformazioni linfatiche il ricorso ad una terapia combinata, associando procedure chirurgiche e scleroterapiche per ottenere migliori risultati funzionali ed estetici.

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