Linee Guida FleboLinfologiche del mese di agosto 2003

Linee Guida Diagnostiche e Terapeutiche delle malattie delle vene e dei linfatici

Rapporto basato sull’evidenza a cura del Collegio Italiano di Flebologia
pubblicate su Acta Phlebologica vol 4 . suppl 1-2 – agosto 2003
Divulgazione scientifica a cura dell’Associazione Italiana dei Flebologi in Internet

INDICE

  1. Introduzione e Principi
  2. Linee Guida sulla Diagnosi e Terapia della Insufficienza Venosa Cronica
  3. Linee Guida sulla Diagnosi, Prevenzione e Terapia della Malattia Tromboembolica
  4. Linee Guida sulla Diagnosi e Terapia delle Malattie dei Linfatici

INTRODUZIONE

1.1 Il Collegio Italiano di Flebologia (CIF) è stato istituito nel 1996 come riunione della Società Italiana di Flebologia Clinica e Sperimentale, della Società Italiana di Flebolinfologia e della Società Italiana di Flebologia. Il CIF rappresenta l’ Italia nell’ Union International de Phlébologie.

1.2 Nel triennio 1998-2000 tre gruppi costituiti per la produzione di Linee Guida in FLEBOLOGIA e LINFOLOGIA nel campo della DIAGNOSTICA e TERAPIA hanno pubblicato le stesse su un Supplemento della nuova rivista del CIF (1). Nel 2002 si è provveduto alla revisione con la costituzione di nuove task.forces, allargate in questa occasione da soli specialisti medici cultori della flebologia e linfologia a categorie diverse di esperti interessati all’ argomento ( fisiatri, infermieri, economisti, giuristi, rappresentanti degli utenti).

1.3 La BASE METODOLOGICA di partenza è data dalla evidence-based medicine seguendo lo schema delle rules of evidence applicate alla letteratura medica per produrre raccomandazioni per il management clinico (2, 3, 4). Sono state considerate in particolare le evidenze emerse dai Consensus Statement disponibili in questo campo (5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15 ) e privilegiate le meta -analisi e gli studi randomizzati esistenti. Si è infine considerato il lavoro della Cochran Collaboration che ha sinora pubblicato i risultati dell’analisi di due temi flebologici : la tromboembolia venosa e le ulcere venose (16), oltre ad altri come la scleroterapia e gli interventi per varici ed edema in gravidanza disponibili in Database (17). Si è cercato di adattare i risultati del lavoro alle caratteristiche operative e culturali del Sistema Sanitario Nazionale italiano nonché alla prolungata storia esperienziale della flebologia europea rispetto a modelli scientifici anglosassoni recenti, reperibile nella trattatistica italiana flebolinfologica (18, 19). Per tale motivo la definizione del tipo di raccomandazione in gradi A, B e C è stata così intesa:

Grado A, raccomandazione basata su grandi studi clinici randomizzati, meta-analisi, assenza di eterogeneicità ;

Grado B, raccomandazione basata su studi clinici randomizzati anche in piccole popolazioni, meta-analisi anche di studi clinici non randomizzati.

Tale schema di grading si rifà a quello della US Agency for Healthcare Research and Quality (AHRQ già AHCPR) semplificato senza i livelli di evidenza sia per le motivazioni suddette che per i limiti oggettivi (vi possono essere raccomandazioni forti anche in presenza di solo studi osservazionali) .

1.4 Per le FONTI BIBLIOGRAFICHE sono state utilizzate le comuni risorse di evidenza disponibili (MEDLINE, Cochrane Database of Systematic review , et al.), ma altresì si è ritenuto di valutare ampiamente la vasta esperienza flebologica delle Società Scientifiche nazionali, membri dell’ Union International de Phlébologie attraverso i rispettivi organi di stampa scientifica :

– Acta Phlebologica (Italian College of Phlebology)

– Australian & New Zealand Journal of Phlebology (The Australian College of Phlebology and Autralian & New Zealand Society of Phlebology), possibile eterogeneicità ;

Grado C, raccomandazione basata su studi osservazionali e sul consenso raggiunto tra i membri autori delle presenti linee-guida

– Dermatologic Surgery (American College of Phlebology)

– Flebología (Sociedad Argentina de Flebología y Linfología)

– International Angiology (International Union of Angiology)

– Journal of Vascular Surgery (American Venous Forum)

– Phlebologie ( Deutschen Gesellschaft für Phlebologie ; Societé Suisse de Phlebologie)

– Phlébologie- Annales Vasculaires (Société Française de Phlébologie)

– Phlebology (Venous Forum of The Royal Society of Medicine –UK and Societas Phlebologica Scandinava)

1.5 E’ stata iniziata una ANALISI ECONOMICA (costo/efficacia; costo/beneficio) da svilupparsi in futuro in relazione alla necessità di disporre di maggiori studi.

1.6 Non sono dichiarati CONFLITTI DI INTERESSI, salvo rimborsi per la partecipazione a simposi, lezioni e conferenze, da aziende farmaceutiche o biomedicali (cfr modalità dichiarative in : Ministero della Salute. Clinical Evidence, Ed. italiana, 2001, n. 1).

1.7 Sono state già utilizzate numerose STRATEGIE DI IMPLEMENTAZIONE per la diffusione, conoscenza delle Linee Guida: convegni e corsi per ECM; edizioni ridotte a diffusione specifica (Linee Guida sulla Terapia Compressiva – Minerva Medica, Torino – supportate da CIZETA Medicali; Manuale estratto da Linee Guida per Medici di Medicina Generale- Minerva Medica , Torino- supportato da Servier Italia); edizione internazionale in inglese (International Angiology, 2001,20, Suppl.2 to N°. 2); audit e feedback al Congresso Nazionale CIF, Lecce, ottobre 2002).

PRINCIPII

Si ritiene opportuno, in questa prima revisione delle linee guida, ricordare in linea di principio i più recenti aspetti generali, oggi fortemente influenzanti le scelte del medico.

2.1 Obbligo dell’aggiornamento

Dall’1/4/2002 sono operativi, e dovere degli operatori della Sanità parteciparvi, i programmi di Educazione Continua in Medicina (E.C.M.).Pur essendo riconosciuta piena autonomia al proprio aggiornamento, è auspicabile privilegiare gli obiettivi formativi d’interesse nazionale e regionale. Come Società Scientifica nazionale si invita inoltre a privilegiare l’insieme organizzato e controllato di tutte quelle attività formative, sia teoriche che pratiche , promosse dalle Società Scientifiche e Professionali (20).

2.2 Conflitto d’interessi

L’esistenza, per lo specialista, di interessi economici diretti nell’industria biomedica , tecnologica e farmaceutica, dall’effettuazione di trial clinici alla partecipazione in simposi e convegni sponsorizzati, dalla stesura di articoli scientifici o editoriali alla mancanza di trasparenza nella scelta di tecniche chirurgiche o farmaci nelle aziende ospedaliere pubbliche, sono tutti aspetti di possibili casi di conflitto di interessi. É ormai indispensabile per ogni medico e specialista la necessità di rivedere i rapporti anche apparentemente innocui con l’industria o la partecipazione congressuale perché “il conflitto di interessi è innanzitutto una condizione prima ancora che un comportamento”. Si raccomanda di seguire apposite linee-guida e le più recenti prese di posizione al riguardo (21, 22).

2.3 Etica e codice deontologico

Viene rinnovato il principio dell’impegno ad operare nell’interesse del paziente, mai compromesso da “forze di mercato”, “pressioni sociali” “esigenze amministrative” , promuovendo la massima giustizia possibile del sistema sanitario , inclusa l’equa distribuzione delle risorse disponibili. La “Carta della professionalità medica”del 2002 elaborata dalle Fondazioni americane ed europea di Medicina Interna, è un’opportunità per un nuovo contratto tra medicina e società (23). Anche le nuove norme del “Codice di condotta”della F.N.O.M.C.e O. italiana si prospettano come uno strumento fondamentale per delimitare in corrette forme il rapporto tra informazione e propaganda sanitaria al pubblico (24). Numerosi altri aspetti etici emergenti dalle più recenti tendenze della medicina dovranno essere presi in considerazione, quale ad esempio la capacità etica di inviare ad altri il proprio paziente per particolari necessità come un’ulcera cutanea (dermatologo;infermiere specializzato) o un intervento chirurgico (finanche ad altro chirurgo più esperto per il caso specifico) (25).

2.4 Tutela medico legale

“I tempi in cui il medico non accettava di rispondere dei suoi atti che alla sua coscienza ed ai suoi pari è finito”. Ogni azione dello specialista dovrà considerare questo aspetto senza peraltro arrivare a praticare una medicina “difensiva” nel suo interesse a scapito del suo paziente. Le Linee Guida non hanno valore legale, ma possono essere considerate un momento base di valutazione per eventuali controversie legali successive. Rappresentano dunque uno strumento “non ufficiale “di tutela medico-legale. Questa si basa su altri punti chiave dell’odierna giurisprudenza, tra cui il consenso informato del paziente ha priorità assoluta (26, 27, 28). Il C.I.F. ha istituito una apposita Commissione per l’affronto degli aspetti etico-deontologici e medico-legali.

2.5 Livelli Essenziali di Assistenza

All’eterogeneità clinica delle malattie venose e linfatiche corrisponde una eterogeneità di modalità assistenziali in cui tali malattie possono essere gestite. Tale complessità è resa ancora più articolata e problematica dai limiti posti da una normativa sempre in evoluzione. Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) e Protocolli per la Revisione dell’Uso dell’Ospedale (29) rappresentano griglie che lo specialista che gestisce tali malattie non può ignorare. I LEA prevedono 3 macro aree di assistenza in cui vengono elencati le diverse tipologie di assistenza che la Conferenza Stato – Regioni (con accordo sancito l’8 agosto 2001) ha riconosciuto come “essenziali” dunque tali da essere garantite a tutti i cittadini. (v. Gazzetta Ufficiale n° 26, Suppl. Ord. alla GU n° 33 del 8/2/2002). Compito ed onere delle Società Scientifiche è individuare se e in quali tipologie assistenziali possano o debbano essere compresi le procedure diagnostico – terapeutiche, i farmaci o i presidi inerenti alla propria disciplina. In ambito flebolinfologico per esempio non sono rientrati nel regime di erogabilità nell’ambito del macrolivello “Assistenza Distrettuale” i presidi di supporto elastici e di massoterapia specifica (drenaggio linfatico manuale) per i pazienti flebolinfopatici, così come non è prevista, sempre nella medesima macroarea la pressoterapia nell’ambito della Medicina Riabilitativa. Parallelamente all’introduzione di criteri normativi volti alla razionalizzazione delle risorse, si è creata l’esigenza di individuare strumenti con i quali verificare e quantificare rischi di natura non clinica quali l’utilizzo improprio delle varie modalità assistenziali (ricovero ordinario, day hospital, assistenza ambulatoriale, domiciliare, ecc). Uno di questi strumenti è stato messo a punto per verificare l’appropriatezza di utilizzo dell’ospedale per acuti ed è rappresentato dal Protocollo per la Revisione dell’Uso dell’Ospedale (PRUO), recepito dalle Regioni n ll’ambito degli indirizzi indicati dalle leggi nazionali (Piano Sanitario Nazionale 1998 – 2000; DL 502/92 e successive integrazioni) e operativo dal 2001. Il PRUO è una metodologia di verifica basata su criteri espliciti utili a quantificare la frequenza di uso non appropriato della struttura ospedaliera per acuti . Per inappropriato si intende una prestazione erogabile altrove ovvero ad altro livello assistenziale (lungodegenza, ambulatorio, domicilio, residenza protetta ecc). Il concetto di inappropriatezza non deve avere alcuna connotazione clinica, quindi non deve intendersi come inutile e/o inefficace. PRUO non si prefigge di esprimere giudizi su appropriatezza clinica. Nell’ottica del PRUO una ammissione e/o giornata di degenza sono edicalmente giustificate (= appropriate) se fanno uso delle competenze /risorse documentate e se l’utilizzo di esse è intenso e coordinato /organizzato nel tempo in modo da evitare sprechi di risorse. Tra i prossimi oneri le Società Scientifiche dovrebbero farsi carico di definire a quale livello o tipologia assistenziale erogare le prestazioni di propria afferenza operando una stadiazione delle malattie per gradi di gravità cui far corrispondere le diverse tipologie di assistenza, di indicarne i percorsi diagnostico – terapeutici adeguati ad ogni tipologia e di elaborare modelli di PRUO dedicati.

BIBLIOGRAFIA

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LINEE GUIDA SULLA DIAGNOSI E TERAPIA DELLA INSUFFICIENZA VENOSA CRONICA

TASK FORCE

G.B. Agus, C. Allegra, G. Arpaia, G. Botta, V. Gasbarro, G. Genovese, S. Mancini

con la collaborazione di P.L. Antignani, G. Bianchini, P. Bonadeo, A. Cataldi, M. Georgiev, F. Stillo

1) EPIDEMIOLOGIA

2) CLASSIFICAZIONE

3) NUOVA CLASSIFICAZIONE CEAP

4) DIAGNOSTICA NON INVASIVA

5) TRATTAMENTO CHIRURGICO

6) SCLEROTERAPIA

7) COMPRESSIONE

8) FARMACOTERAPIA

9) FISIOTERAPIA

10) TERMALISMO

11) TERAPIA DELLE ULCERE VENOSE

12) VARICOCELE PELVICO

13) MALFORMAZIONI VENOSE

14) QUALITA’ DELLA VITA

LEGENDA

A.: Ambulatoriale

A.P.G.: Pletismografia ad Aria

C.E.A.P.: Classificazione Clinica, Eziologia; Anatomica, Patofisiologica delle flebopatie

C.H.I.V.A.: Cura Conservatrice Hèmodynamique de l’ Insuffisance Veineuse en Ambulatoire

C.P.I.: Compressione Pneumatica Intermittente

C.W.: Doppler a Onda Continua (continous wave)

D.R.G.: Disease Related Groups

D.S.: Day Surgery

Den: Denari (Deniers)

E.C.: Comunità Europea (European Community)

E.C.D.: Eco(Color)Doppler

E.C.M.: Educazione Continua in Medicina

G.U.: Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana

I.V.C.: Insufficienza venosa Cronica

L.E.A.: Livelli Essenziali di Assistenza

M.V.: Malformazioni Venose

N.H.P.: Nottingham Health Profile

P.P.G.: Fotopletismografia (photo-pulse-phletismography)

P.R.U.O.: Protocollo di Revisione Utilizzo Ospedale

P.V.A.: Protocolli Valutazione Appropriatezza

Q.: Questionari di valutazione Q.L.

Q.L.: Qualità della Vita

R.L.R: Reografia a Luce Riflessa

R.M.: Risonanza Magnetica

R.O.: Ricovero Ordinario

S.E.P.S.: Legatura Endoscopica Sottofasciale Perforanti

S.G.P.: Pletismografia Strain-Gauge

T.C.: Tomografia Computerizzata

To: Venous Refilling Time (tempo di riempimento venoso)

U.V.: Ulcera Venosa

Vo: Potenza della Pompa Venosa

EPIDEMIOLOGIA

L’Insufficienza Venosa Cronica (IVC) appare una condizione clinica assai rilevante sia dal punto di vista epidemiologico sia per le importanti ripercussioni socio-economiche che ne derivano. Nei Paesi occidentali sono ben note le conseguenze della sua elevata prevalenza, i costi dell’iter diagnostico e del programma terapeutico, le significative perdite in ore lavorative e le ripercussioni sulla qualità di vita (106, 158, 201).

La prevalenza attuale dell’IVC a carico degli arti inferiori è del 10-50% nella popolazione adulta maschile e del 50-55% in quella femminile. La malattia varicosa è presente, clinicamente manifesta, nel 10-33% delle donne e nel 10-20% dei maschi adulti (77, , 78, 88, 106, 438).

Fra i diversi studi epidemiologici, ai fini di fornire dati di incidenza pura, appaiono di notevole interesse speculativo quelli prospettici. Pochi sono in realtà dedicati all’IVC. Il più citato è il FRAMINGHAM in cui l’incidenza di varici (comparsa di nuovi casi nell’unità di tempo) è del 2.6% nella donna e dell’1.9% nell’uomo per anno; a due anni le varici colpiscono rispettivamente 39/1000 uomini e 52/1000 donne (71).

La correlazione fra prevalenza di varici e età è quasi lineare: il 7-35% e il 20-60% rispettivamente degli uomini e delle donne fra i 35 e i 40 anni; dal 15 al 55% degli uomini e dal 40 al 78% delle donne oltre i 60. Le flebopatie e le varici sono rare nei bambini e negli adolescenti. Tuttavia bambini con familiarità positiva per varici possono sviluppare vene ectasiche ed incontinenti già nell’adolescenza (82, 106, 438).

Notevoli variazioni circa la prevalenza di varici si osservano negli studi epidemiologici condotti in differenti aree geografiche (438).

La trasmissibilità ereditaria dei disturbi venosi è discussa. L’incidenza di varici in persone con o senza fattori ereditari trasmissibili varia dal 44 al 65% in presenza dei suddetti fattori vs il 27-53% in loro assenza (438).

Una predisposizione familiare coesiste nell’85% dei portatori di varici vs il 22% di pazienti senza antecedenti (372). Tuttavia se molti studi dimostrano una “eredità verticale” nessuno al momento ne rivela una “orizzontale” che potrebbe spiegare un modello genetico.

L’IVC colpisce prevalentemente il sesso femminile fino alla quinta-sesta decade, successivamente non si notano significative differenza fra i sessi. Globalmente gli studi epidemiologici evidenziano un rapporto uomo/donna di 1:2-3 sebbene l’importante studio di Basilea di Widmer (437) dimostri un rapporto di 1:1. Probabilmente influiscono le differenti metodiche di studio (438).

Numerosi studi epidemiologici correlano l’incidenza delle varici con la gravidanza e con il numero dei parti. Esse variano dal 10 al 63% in donne con figli vs 4-26% in nullipare.

Da 1 a 5 gravidanze comportano un’incidenza di malattia varicosa dell’11-42% con progressione lineare con l’aumento dei parti. La correlazione è ancora più evidente se la donna è già affetta da disturbi venosi. Tuttavia non mancano studi che dissentono negando una relazione fra incidenza di varici e numero di gravidanze (438).

La relazione fra varici e peso corporeo è stata esaminata da vari autori. Persone in sovrappeso, specie se di sesso femminile e abitanti in aree civilizzate, soffrono maggiormente di IVC e di malattia varicosa rispetto a soggetti di peso normale, dal 25 ad oltre il 70% (in entrambi i sessi) vs il 16-45% (438).

Le varici si manifestano abitualmente ad entrambi gli arti inferiori, dal 39 al 76% dei casi (438).

L’ipertensione, il fumo di sigaretta, la stipsi non si sono rivelati fattori di rischio statisticamente significativi e correlabili all’IVC.

È ampiamente riconosciuto che alcune occupazioni, particolarmente quelle che obbligano ad un prolungato ortostatismo, si associno con maggiore prevalenza di varici anche se una tale correlazione è estremamente difficile da dimostrare sul piano statistico (78, 195). Si è esaminata l’incidenza di varici in soggetti occupati in varie professioni, particolarmente in lavoratori dell’industria. Una positiva associazione tra la stazione eretta e le varici è dimostrata da più autori (438, 249). Risulta inoltre influente la temperatura del luogo di lavoro (195).

I molteplici ed indipendenti indicatori di rischio per la comparsa di varici suggeriscono come una reale prevenzione delle varici sia difficile su singoli indicatori epidemiologici (156, 237).

Ciononostante, per quanto riguarda le varici, nella più moderna accezione di IVC viene dilatato l’interesse per una prevenzione / cura all’intero arco dell’anno. E ciò per le variazioni climatiche o microclimatiche da un lato, per la cronobiologia sotto la visuale di nuove conoscenze.

E’ notorio il maggior impegno flebologico nelle stagioni calde ed è stato ipotizzato il rafforzamento delle anglosassoni vein clinics in tali stagioni. Tuttavia , nell’esperienza italiana (7) , da uno studio inglese (108) e dallo studio austriaco SERMO (365) emerge come non vi siano differenze né sintomatologiche né nella decisione di farsi trattare da parte di due gruppi omogenei di pazienti sottoposti a questionario in due diversi periodi dell’anno

Ciò, o per le variazioni climatiche – caldi improvvisi in stagioni considerate fredde e viceversa -, o per le variazioni microclimatiche – ambienti abitativi o di lavoro surriscaldati d’inverno, lunghi trasferimenti in auto con riscaldamento diretto alle gambe, e viceversa più diffusa vita in ambienti climatizzati con aria condizionata e congrui periodi di vacanza in estate -.

Dalla cronobiologia e cronoepidemiologia ci arrivano segnali di maggior incidenza di eventi acuti, sul versante dell’insufficienza venosa, con insorgenza di trombosi venose più elevata in inverno (gennaio, febbraio), forse correlata ad aspetti metereologici come la pressione atmosferica più bassa (146), o più probabilmente emoreologici, comuni anche agli altri due più frequenti eventi cardiovascolari, l’infarto e l’ictus (257).

L’edema e la comparsa di lesioni trofiche, l’iperpigmetazione e l’eczema, espressioni di IVC CEAP 4-6 variano dal 3 all’11% della popolazione. Lo sviluppo di nuovi sintomi/anno è circa l’1% per l’edema e lo 0.8% per modeste dermopatie (106).

Ulcere venose (U.V.) in fase attiva si ritrovano in circa lo 0.3% della popolazione adulta occidentale e la prevalenza globale di ulcere attive e guarite si attesta sull’1% con sconfinamento oltre il 3% negli ultrasettantenni (352). La guarigione delle U.V. può essere ritardata od ostacolata dall’appartenenza dei pazienti a classi sociali medio-basse. La prognosi delle U.V. è poco favorevole tendendo esse a guarire in tempi lunghi e a recidivare con grande facilità. Il 50-75% ripara in 4-6 mesi mentre il 20% resta aperto a 24 mesi e l’8% a 5 anni. Se in età lavorativa, il 12.5% dei pazienti ha registrato un prepensionamento (31, 106, 201, 295, 400).

L’IVC rappresenta un notevole onere per i servizi di prestazione di salute ed un’importante fonte di costo per la società (38, 351).

Il numero di ore lavorative perse per IVC ogni anno in Inghilterra e Galles è pari a circa 500.000 mentre negli USA (dove 25.000.000 di persone sono portatori di varici, 2.500.000 di IVC e 500.000 di ulcere venose attive) è di 2.000.000. Dati desunti dal servizio sanitario pubblico brasiliano dimostrano che fra le 50 malattie più frequentemente citate come causa di assenteismo dal lavoro e regolarmente riconosciute sul piano finanziario col rimborso, l’IVC è al 14° posto essendo la 32a causa di inabilità permanente (106).

I costi annuali per la gestione dell’IVC, sicuramente in difetto, sono stimati in 290 milioni di Sterline, 2.241.000.000 di € in Francia, 1.237.326.000 di € in Germania, 845.956.400 di € in Italia e 103.614.400 di € in Spagna. Inoltre viene stimato che per i principali Paesi europei la Comunità Europea stanzi l’1.5-2% dell’intero budget sanitario del 1992 esulando dai cosi indiretti dovuti all’invalidità (201, 351).

Il costo annuale per la cura delle U.V. in UK è di circa 400-600.000.000 di Sterline (40.000.000 per il solo materiale di medicazione), oltre 1 bilione di Dollari negli USA (300.000.000 di Dollari solo per le cure domiciliari), 204.520.000 € in Germania e 32.940.000 di € in Svezia mentre in Francia il trattamento di un’ulcera comporta una spesa media di 36.000 € all’anno (106).

In Italia si effettuano circa 291.000 visite/anno per lesioni ulcerative con prescrizioni nel 95% dei casi e onere pari a 125.499.026 € all’anno (199). Complessivamente il costo diretto ed indiretto dell’IVC è di circa 1.000 miliardi di € per ogni Stato europeo di cui si disponga di maggiori dati (UK, Francia, Germania) (106, 295).

CLASSIFICAZIONE

Il campo della malattia venosa cronica ha sofferto per la mancanza di precisione nella diagnosi che ha procurato dati contrastanti negli studi sul trattamento di specifiche patologie venose (436).

Si ritiene che queste divergenze potrebbero essere risolte da una precisa diagnosi e classificazione relativamente ad ogni arto affetto, prima del trattamento terapeutico.

A tale scopo, l’utilizzazione di una singola classificazione universale faciliterebbe la comunicazione sulla IVC e servirebbe da fondamento per una analisi più precisa e scientifica dei trattamenti alternativi (24).

Nel Febbraio 1994 una commissione internazionale dell’American Venous Forum istituita appositamente si è interessata a queste problematiche in occasione di un meeting organizzato dalla Straub Foundation in Maui, Hawaii, Usa. Questa commissione, sotto la presidenza di Andrew Nicolaides, ha messo a punto un Consensus Document per la classificazione e la stadiazione della IVC chiamata classificazione CEAP basata sulle manifestazioni cliniche (C), sui fattori eziologici (E), la distribuzione anatomica (A), le condizioni fisiopatologiche (P).

Lo scopo fu quello di fornire una classificazione obiettiva ed esauriente che potesse essere utilizzata in tutto il mondo (217; 226, 287, 326).

La classificazione CEAP è stata pubblicata in 25 riviste e testi in 8 lingue.

Tabella 1

C linica
E tiologia
A natomia
P atofisiologia

C = segni clinici (C 0-6)
a = asintomatico

s = sintomatico

E = etiologia (Ec, Ep, Es)
A = topografia (As, d, p)
P = fisiopatologia (Pr, o)

Tabella 2

Classificazione clinica (C 0-6) classe 0: assenza di segni clinici visibili o palpabili di malattia venosa classe 1: presenza di teleangiectasie o vene reticolari classe 2: presenza di vene varicose classe 3: presenza di edema classe 4: turbe trofiche di origine venosa: pigmentazione, eczema, ipodermite, atrofia bianca classe 5: come classe 4 con ulcere cicatrizzate classe 6: come classe 4 con ulcere in fase attiva   Classificazione etiologica (Ec, Ep, Es) Ec = congenita (dalla nascita) Ep = primitiva (da causa non identificabile) Es = secondaria (post-trombotica, post-traumatica, altre)   Classificazione fisiopatologia (Pr, Po, Pr+o) Pr = reflusso Po = ostruzione Pr+o = ostruzione + reflusso

Tabella 3

Classificazione anatomica (As, d, p) As = interessamento del sistema superficiale Ad = interessamento del sistema profondo Ap = coinvolgimento delle vene perforanti   Classificazione anatomica Sistema superficiale: As 1 – teleangiectasie, vene reticolari safena interna: 2 – al di sopra del ginocchio 3 – al di sotto del ginocchio 4 – safena esterna 5 – distretti non safenici Sistema profondo: Ap 6 – vena cava inferiore 7 -vena iliaca comune 8 – vena iliaca interna 9 – vena iliaca esterna 10 – vene pelviche: genitali, legamento largo, altre 11 – vena femorale comune 12 – vena femorale profonda 13 – vena femorale superficiale 14 – vena poplitea 15 – vene di gamba o crurali: vene tibiali posteriori vene tibiali anteriori vene peroniere 16 – vene muscolari: vene gemellari vene soleali altre Vene perforanti: Ap 17 – a livello di coscia 18 – a livello di gamba

Oggi la maggior parte delle pubblicazioni in Flebologia usano la classificazione CEAP.

Gli autori di questa classificazione hanno compreso però la necessità di ampliarla e modificarla in seguito alle nuove conoscenze che vengono man mano acquisite in campo flebologico. Nel 2000 sono stati pubblicate due modifiche della classificazione CEAP. Un apposito comitato dell’American Venous Forum ha presentato un nuovo sistema di valutazione delle malattie venose secondo la loro severità (356) ed una Consensus Conference internazionale a Parigi ha proposto una nuova classificazione per le varici ricorrenti dopo interventi chirurgici (317).

Su iniziativa francese è stata istituita una Banca Dati Flebologica Europea, dove 49 Angiologi di nove paesi europei hanno fornito dati completi di 872 pazienti. Dall’analisi statistica è emerso che la consistenza esterna della classificazione clinica “C” era buona mentre la consistenza interna era scarsa (408).

Il gruppo francese ha anche studiato la riproducibilità delle classi C e ha verificato che la riproducibilità intra-osservatori era buona, 85%, mentre la riproducibilità inter-osservatori era più bassa (47%)(85).

Sulla scorta di tali osservazioni è stata organizzata una Consensus Conference sulla ridifinizione della “C” in CEAP durante il 14° congresso mondiale della Unione Internazionale di Flebologia, tenutosi a Roma nei giorni 8-14 Settembre 2001 (22) .

I membri di questo gruppo di lavoro hanno preso in considerazione approfonditamente le definizioni esistenti nell’originale documento CEAP ed hanno ritenuto che in alcuni casi fossero necessari una migliore definizione ed un ampliamento (13).

NUOVA CLASSIFICAZIONE CEAP

I risultati di tale lavoro relativi alla definizione dei termici di comune uso nella CEAP sono riportati nella tabella che segue (13). Le definizioni sono essenziali per un corretto e uniforme linguaggio “flebologico”.

DEFINIZIONE DEI TERMINI CLINICI

TELEANGECTASIA

Confluenza di venule intradermiche permanentemente dilatate di meno di 1 mm di calibro.

Spiegazione: esse dovrebbero essere normalmente visibili da una distanza di 2 metri in buone condizioni di luce.

Sinonimi: “spider veins”, “hyphen webs”, “thread veins”

VENE RETICOLARI

Vene intradermiche bluastre permanentemente dilatate solitamente di diametro da 1 mm a meno di 3 mm.

Spiegazione: sono di solito tortuose. Questo esclude vene visibili “normali” nei soggetti con cute trasparente.

Sinonimi: vene blu, varici intradermiche, venulectasie.

VENE VARICOSE

Vene sottocutanee permanentemente dilatate, di 3 mm di diametro o più, in posizione eretta.

Spiegazione: le vene varicose sono solitamente tortuose ma anche le vene rettilinee con reflusso possono essere classificate come varicose. Possono essere vene varicose tronculari, tributarie o non safeniche.

Sinonimi: varice, varici, varicosità.

CORONA FLEBECTASICA

Teleangectasie intradermiche a ventaglio localizzate nelle regione laterale e mediale del piede.

Spiegazione: il significato e la localizzazione sono controverse e richiedono alcune considerazioni. A volte potrebbe rappresentare il segno iniziale di malattie venose in stadio avanzato. In alternativa si può riscontrare negli arti che presentano semplici teleangectasie in altre sedi.

Sinonimi: “flare” malleolare, “flare” della caviglia.

EDEMA

Incremento percepibile del volume del fluido nel tessuto sottocutaneo identificato dalla formazione di una impronta sotto pressione.

Spiegazione: questa definizione include solo l’edema attribuibile alla malattia venosa. L’edema venoso si manifesta di solito nella regione della caviglia ma può estendersi al piede e alla gamba.

PIGMENTAZIONE

Scurimento pigmentato brunastro della cute che si riscontra di solito nella regione della caviglia ma che può estendersi al piede ed alla gamba.

Spiegazione: è una modificazione iniziale della cute.

ECZEMA

Eruzione eritematosa, vescicolare, essudativa o desquamativa della cute della gamba.

Spiegazione: è spesso localizzato vicino a vene varicose, ma può essere riscontrato in qualsiasi zona della gamba.

Talvolta può estendersi a tutto il corpo. L’eczema è di solito dovuto a malattie venose croniche e/o alla sensibilizzazione a terapie locali.

Sinonimi: dermatite da stasi.

LIPODERMATOSCLEROSI

Indurimento cronico della cute localizzato, talvolta associato a cicatrizzazione e/o contrattura.

Spiegazione: è un segno di malattia venosa severa, caratterizzata da infiammazione cronica e fibrosi della cute, del tessuto sottocutaneo e talvolta della fascia.

IPODERMITE

L’ipodermite viene riferita ad una forma acuta di lipodermatosclerosi. E’ caratterizzata da fragilità e diffuso arrossamento della cute dovuto ad infiammazione acuta.

Spiegazione: L’assenza di linfoadenite e di febbre differenzia questa condizione dalla eresipela o cellulite.

ATROPHIE BLANCHE O ATROFIA BIANCA

Area biancastra e atrofica, circoscritta spesso circolare della cute circondata da chiazze di capillari dilatati e talvolta iperpigmentazione.

Spiegazione: è un segno di malattia venosa severa. Lesioni cicatriziali di ulcere guarite sono escluse in questa definizione.

ULCERE VENOSE

Alterazioni croniche della cute che non riescono a guarire spontaneamente, causate da malattie venose croniche.

Riguardo la classificazione CEAP, la classe 4 viene suddivisa in due parti: C4a, comprendente la pigmentazione e l’eczema, e la classe C4b, con lipodermatosclerosi e atrofia bianca, allo scopo di definire più correttamente la severità delle alterazioni trofiche considerando che i segni della classe C4b sono predittivi dello sviluppo di ulcere (13).

DIAGNOSTICA NON INVASIVA

La diagnostica non invasiva delle malattie venose è stata sviluppata per lo screening, la quantificazione del danno e lo studio emodinamico. I medici generici e gli specialisti devono conoscere –con diversi gradi di competenza– il significato dei vari test vascolari e le loro indicazioni e limitazioni, così da limitare al massimo l’uso di test piu’ invasivi e costosi (300, 394, 97). Le malattie venose presentano una maggiore difficoltà di valutazione rispetto alle malattie arteriose e richiedono quindi una certa esperienza ed una valutazione più accurata. Per tali motivi i test venosi risultano maggiormente operatore-dipendente e richiedono una competenza specifica clinica soprattutto per la valutazione dell’insufficienza venosa cronica.

L’(IVC) può essere il risultato di ostruzione al deflusso, reflusso, o una combinazione di entrambe. L’obiettivo dell’esame clinico e strumentale è rilevare quale fra tali condizione sia presente. Va ricercata inoltre la localizzazione anatomica dell’alterazione e quantificato il reflusso e/o l’ostruzione. Sono disponibili molti test, semplici, rapidi ed efficaci per costo-beneficio.

Le procedure diagnostiche, riportate di seguito in forma sintetica, rispecchiano quanto pubblicato nelle PROCEDURE OPERATIVE PER INDAGINI DIAGNOSTICHE VASCOLARI” edite dalla Società Italiana di Diagnostica Vascolare ed accettate dal Collegio Italiano di Flebologia (383).

INDAGINI UTILIZZABILI

  • Ultrasonografiche:
  • Doppler C.W.
  • Eco-Doppler (duplex)
  • Eco(color)Doppler (ECD)
  • Imaging Radiografico
  • angio – TC
  • angio – RM
  • pletismografiche
  • fotopletismografia quantitativa
  • flebografia

ITER DIAGNOSTICO

Lo scopo dell’esame è l’accertamento di un reflusso oppure di una trombosi venosa superficiale e/o profonda. Nei due casi l’ iter diagnostico e procedure sono differenti.

Il circolo venoso profondo deve sempre essere valutato.

ACCERTAMENTO DI UN REFLUSSO

L’indagine utilizzata può essere una di quelle sopra indicate. Le metodiche di prima scelta sono quelle ultrasonografiche o la fotopletismografia; i due tipi di indagine devono essere considerati complementari piuttosto che alternativi.

L’esame Doppler con ultrasuoni permette di dimostrare la presenza di un reflusso, identificare la sua origine e seguire l’asse di reflusso in senso cranio-distale.

Strumentazione: Si utilizza per il Doppler C.W. una sonda da 8 MHz, per l’eco-Doppler una sonda lineare da 5-10 MHz

PROCEDURA

L’esame viene eseguito con il paziente in ortostatismo. La mano destra dell’esaminatore tiene la sonda che viene posta all’origine della vena grande o piccola safena.

La mano sinistra esegue delle brevi manovre di compressione e successivo rilasciamento sulla stessa vena in sede distale. Queste manovre sono essenziali , specie per il Doppler c.w. che non permette di vedere la vena insonata. Dopo aver centrato la sonda sulla vena, il paziente esegue una manovra di Valsalva standardizzata e prolungata.

Si valuta la durata del reflusso durante la manovra di Valsalva. I valori limite normali e patologici più frequentemente utilizzati sono i seguenti:

Safena normale reflusso < 0.5 sec.

Safena dilatata ma continente reflusso > 0.5 sec. < 1.0 sec

Safena svalvolata reflusso > 1.0 sec

E’ possibile seguire la vena in direzione distale identificando così l’asse del reflusso e definendo se tutta la safena è svalvolata o solo una sua parte. Questo dato è importante per decidere l’estensione distale dell’ intervento di strip safenico.

L’esame eco(color)Doppler è più facile da interpretare rispetto all’esame Doppler C.W. e fornisce delle ulteriori indicazioni connesse alla morfologia della grande safena, come il diametro della stessa, il calibro e la continenza valvolare delle collaterali ostiali e di eventuali safene accessorie, una visualizzazione ottimale della valvola ostiale e pre-ostiale (23, 55). Nella valutazione del reflusso nella piccola safena l’ eco(color)Doppler permettte di studiare l’anatomia vascolare del poplite, la sede esatta di origine dalla vena poplitea piuttosto che una origine alta della safena dalla vena femorale superficiale, la continenza della vena di Giacomini, un ’origine del reflusso da perforante poplitea.

In conclusione la procedura per l’esame Doppler ed eco Doppler è simile. Entrambe le indagini forniscono l’informazione essenziale che è la durata del reflusso in secondi durante Valsalva che deve essere sempre ben valutabile nella documentazione allegata all’esame.

L’eco (color) Doppler fornisce informazioni morfologiche permettendo di ricostruire l’anatomia vascolare, il diametro dei vasi, permettendo di studiare in modo accurato la mappa emodinamica pre-operatoria e le possibili recidive post chirurgia o post scleroterapia.

La dimostrazione di un reflusso da una perforante incontinente è invece accurata con l’eco(color) Doppler, poco precisa con il Doppler C.W. che non dovrebbe più essere utilizzato a questo scopo.

L’esame ultrasonoro permette di studiare il singolo asse superficiale o profondo, identificandolo in base alla diversa sede anatomica e permette di dimostrare in modo completo l’origine e l’asse del reflusso. Anche questo esame consente di ottenere un dato quantitativo in modo ripetibile ed attendibile (la durata del reflusso durante manovra di Valsalva eseguita in maniera standardizzata). Il limite dell’esame ultrasonoro è legato proprio alla sua valutazione selettiva e distrettuale che male si presta a studiare in maniera globale e funzionale la rilevanza del danno causato dal singolo reflusso sul ritorno venoso (364, 181).

L’esame fotopletismografico (PPG) quantitativo computerizzato eseguito con il test della pompa venosa, per esempio con le manovre di estensione dorsale dell’articolazione tibio-tarsica, valuta invece l’efficacia funzionale globale della pompa muscolare e la continenza valvolare degli assi venosi (62, 369).

La pletismografia venosa consente di valutare la funzionalità venosa globale misurando i cambiamenti del volume di sangue venoso nella gamba. Queste misurazioni possono essere effettuate con una delle tre tecniche pletismografiche oggi in uso: la fotopletismografia/reografia a luce riflessa (PPG/RLR), la pletismografia strain gauge (estensimetrica, SGP) e la pletismografia ad aria (APG) (47, 106, 299).

La PPG/RLR utilizza fotosensore fissato sulla cute che misura il riempimento del plesso venoso cutaneo (300); la SPG utilizza sensore estensimetrico (laccio conduttore elastico) che misura i cambiamenti della circonferenza della gamba nel punto dove è applicato (394), mentre il sensore della APG è un gambaletto gonfiabile che misura i cambiamenti del volume venoso totale della gamba (97).

Effettuando misurazioni in diverse posizioni e con diverse manovre, si possono valutare i seguenti parametri:

  • deflusso venoso (rallentato se presente una occlusione venosa);
  • reflusso venoso totale (grado di incontinenza valvolare);
  • efficacia della pompa muscolovenosa del polpaccio (grado di svuotamento venoso durante l’esercizio muscolare e velocità di riempimento venoso dopo la fine dell’esercizio).

L’esame può essere eseguito prima e dopo la occlusione venosa superficiale, ottenibile con uno o più lacci per isolare il reflusso superficiale e prevedere il risultato di un intervento di asportazione safenica sulla funzione del ritorno venoso. Il miglior laccio e’ un manicotto alto 3cm, gonfiato a 100mmHg.

Il vantaggio della PPG è quello di poter ottenere un dato quantitativo in secondi (il tempo di riempimento venoso o “ venous refilling time”) che descrive in maniera globale la eventuale compromissione funzionale del ritorno venoso secondaria a reflusso venoso.

Strumentazione: fotopletismografo computerizzato quantitativo.

PROCEDURA

L’indagine quantitativa permette un aggiustamento automatico del segnale basale ( basato sulla elaborazione del segnale ) e valuta in modo più preciso i parametri connessi al tempo di riempimento dopo test della pompa muscolare e i parametri connessi all’ampiezza del segnale. Il sensore viene fissato circa 8 cm al di sopra del malleolo interno con un anello biadesivo. Il paziente è seduto e rilassato con i piedi ben poggiati a terra. Tronco-cosce e cosce-gambe devono formare tra loro un angolo di circa 110°. Il test della pompa muscolare è quello più frequentemente utilizzato e richiede l’esecuzione di 8 estensioni dorsali dell’articolazione tibio-tarsica in 16 secondi. Alla fine dell’esercizio il paziente resta immobile e rilassato per 30 secondi. Gli apparecchi più moderni sono programmati; emettono dei segnali sonori sia per eseguire le estensioni dorsali del piede che per delimitare il periodo di riempimento.

Il parametro di valutazione è il tempo di riempimento venoso o “ venous refilling time” (To ) espresso in secondi.

Si distinguono 4 classi:

– normale To > 24 secondi

– insufficienza di pompa grado 1 leggera To da 24 a 20 secondi

– “ “ grado 2 moderata To da 19 a 10 secondi

– “ “ grado 3 severa To < 10 secondi

Esiste un secondo parametro di valutazione negli apparecchi computerizzati, la potenza della pompa venosa ( Vo ) che non è ancora sufficientemente standardizzata e che quindi non va considerato nella refertazione.

Nella pratica clinica la pletismografia venosa ha le seguenti applicazioni:

  1. Quantificare e documentare il grado di compromissione delle diverse funzioni venose (ostruzione, reflusso) e seguirle nel tempo;
  2. Quantificare il contributo delle vene superficiali e profonde e predire gli effetti emodinamici della chirurgia delle vene superficiali;
  3. Studiare e documentare gli effetti emodinamici delle diverse operazioni chirurgiche e validare le nuove tecniche operatorie.

Va tenuto presente un limite della PPG: può essere difficile differenziare un reflusso venoso superficiale da un reflusso profondo e/o da un reflusso in perforanti incontinenti.

La flebografia con iniezione in una vena del piede non viene più eseguita per valutare un reflusso venoso, sostituita dall’esame ECD. Lo studio flebografico dovrebbe essere riservato a pazienti con precedenti flebotrombosi o precedenti interventi, con recidive ad incerta etiologia (tecnica chirurgica ignota) e nei pazienti con reperto ultrasonografico dubbio.

Alcuni centri utilizzano ancora oggi la varicografia per lo studio delle recidive post chirurgia o post scleroterapia, specie a livello del cavo popliteo o di perforanti incontinenti, in particolare se plurime.

L’imaging radiologico (secondo livello richiesto dallo specialista) completa lo studio ultrasonografico nella determinazione della sede e della natura della lesione, e nella valutazione della patologia, soprattutto a carico del circolo profondo. Indicato nello studio delle angiodisplasie, soprattutto la angio-RM. Attualmente non è ancora sostituibile all’angiografia (120, 368).

Indagini sulla microcircolazione

  • Laser-Doppler
  • Capillaroscopia
  • Microlinfografia
  • Pressioni interstiziali
  • Misurazione pressioni parziali O2 e CO2

Raccomandazioni

L’esame ultrasonoro permette di dimostrare la presenza di un reflusso, identificare la sua origine e seguire l’asse di reflusso in senso cranio-caudale – Grado A

Accanto alla clinica, per lo screening dell’IVC, l’esame di primo livello deve essere considerato il Doppler CW – Grado B

Le metodiche Eco-Doppler ed Eco(color)Doppler sono da riservarsi alla definizione della localizzazione e della morfologia del problema e come esame pre-operatorio – Grado A

La Flebografia andrebbe presa in considerazione solo in un ridotto numero di pazienti portatori di anomalie anatomiche, malformazioni o quando vi sia indicazione ad un intervento sul sistema venoso profondo – Grado B

Le pletismografie devono essere considerate test aggiuntivi di tipo quantitativo – Grado B

Le indagini rivolte allo studio della microcircolazione hanno indicazioni selettive e prevalentemente di ricerca – Grado C

TRATTAMENTO CHIRURGICO

TRATTAMENTO CHIRURGICO DELL’INSUFFICIENZA VENOSA SUPERFICIALE

  • Generalità e indicazioni

Le basi del trattamento chirurgico delle varici degli arti inferiori sono state stabilite circa un secolo fa con gli interventi eseguiti nel 1905 da Keller (stripping per invaginazione), nel 1906 da Mayo (stripping extraluminale) e nel 1907 da Babcock (stripping endoluminale con sonda rigida) e sono tuttora valide grazie alla conferma di decine e decine di migliaia di interventi praticati e “validati dall’esperienza comune” e successivamente da studi accreditati (5, 52, 133, 285, 288, 319).

Sostanzialmente tre innovazioni si sono inserite in una tecnica chirurgica standard per migliorarne i risultati: l’evoluzione della tecnica stessa dello stripping safenico su nuove basi anatomiche e fisiopatologiche; l’introduzione di gesti chirurgici semplificati come la flebectomia per miniincisioni (283, 346) e lo stripping per invaginazione in anestesia locale (411); la pratica dello studio cartografico preoperatorio mediante ecocolordoppler (157, 292, 409, 431).

Va rilevata la nascita e la diffusione di nuovi interventi, talvolta limitati all’ambito dello stesso proponente. Tali interventi, pur assicurando spesso buoni risultati, necessitano di studi clinici controllati multicentrici e non possono allo stato attuale essere considerati sostitutivi di tecniche standard, bensì alternativi.

L’importanza della chirurgia delle varici nei sistemi sanitari occidentali è data dalla frequenza della domanda. Si calcola in generale un fabbisogno di 80.000 interventi nel Regno Unito (251), 200 per 100.000 abitanti in Finlandia (236), fino ad oltre 150.000 interventi per anno in Italia (dati 2000 dal sistema DRG e stima approssimativa della flebologia privata) e 200.000 per anno in Francia (32).

L’indicazione chirurgica deve tuttavia essere approfonditamente discussa. Lo stesso scopo della chirurgia, cioè la risoluzione totale delle varici, deve essere rivisto all’interno del quadro patologico di base, rappresentato dall’insufficienza venosa cronica, e del gravoso problema delle varici recidive a chirurgia e della comparsa di nuove varici.

Il trattamento del paziente portatore di IVC riconosce come principale obiettivo la risoluzione o il miglioramento del quadro sintomatologico e la prevenzione e terapia delle complicanze. L’elevazione dell’arto inferiore in posizione di scarico e l’elastocompressione per il controllo dell’edema, oltre alla medicazione locale in caso di complicanza ulcerativa, sono infatti i fondamenti della terapia conservativa, ma non correggono il disturbo emodinamico responsabile della flebopatia. Molti progressi sono stati fatti negli ultimi decenni nella terapia chirurgica delle più severe forme di IVC grazie alla diagnostica non-invasiva per immagini ed alla velocitometrica. Si possono così distinguere situazioni in cui prevale l’evento ostruttivo da quelle, primarie o secondarie, in cui il reflusso è l’elemento dominante. Dalla differente presentazione dei quadri clinici ed anatomo-patologici dipende una strategia chirurgica oggi diversificata, non più indiscriminatamente ed estensivamente ablativa, ma finalizzata, ove possibile, alla correzione dell’alterata emodinamica venosa e microcircolatoria dell’arto dell’arto (429).

Le indicazioni alla chirurgia della IVC si basano pertanto sulla sintomatologia e sul quadro clinico sicuramente correlabili alle varici o alle loro complicanze.

Di seguito, gli aspetti sintomatologici ed anatomo-patologici che motivano la scelta chirurgica:

  • Presentazione clinica ed aspetto estetico
  • Sintomatologia dolorosa
  • Pesantezza alle gambe
  • Facile affaticabilità dell’arto
  • Trombosi venosa superficiale
  • Varicorragia
  • Iperpigmentazione della caviglia
  • Lipodermatosclerosi
  • Atrofia bianca
  • Ulcerazione

Tuttavia molti di questi sintomi e segni possono non essere attribuiti dal paziente alla IVC, per cui è raccomandabile un’accurata e specifica anamnesi. Si tenga presente che il 50% dei pazienti con teleangiectasie e varicosità soffre soltanto di alcuni dei disturbi menzionati, i quali dopo opportuna terapia possono essere eliminati nell’85% dei casi (428).

D’altra parte secondo studi recenti l’eziologia della pesantezza alle gambe, una delle motivazioni più frequenti per la visita flebologica soprattutto nelle giovani donne, può non dipendere da uno stato varicoso, né può essere considerata una sindrome pre-varicosa, essendo invece il risultato dell’associazione tra flebostasi costituzionale, ipertensione venosa e lipedema (14; 94).

La stessa facile affaticabilità o esauribilità funzionale dell’arto inferiore appartengono al corredo sintomatologico di numerose altre affezioni, quali le artropatie, le neuropatie e le arteriopatie periferiche per citare le più frequenti. Similmente gli edemi declivi non sono necessariamente correlati alla IVC, ponendosi in diagnosi differenziale con epifenomeni di cardiopatie congestizie, con discrasie ematiche, con dismetabolismi, ecc. Infine possono coesistere con un quadro di IVC, o addirittura prevalere su di essa, stili di vita incongrui come l’eccesso di peso, la scarsa attività fisica, l’esagerata sedentarietà e i difetti posturali: situazioni che, se corrette preventivamente, possono essere sufficienti ad evitare, se non a controindicare, l’intervento chirurgico.

Alcuni studi sottolineano l’ipotesi che molti sintomi possono avere una causa non venosa e la malattia venosa essere una semplice concomitanza: in questi casi deve essere considerata la scarsa efficacia dell’intervento chirurgico al fine del miglioramento della sintomatologia (69; 305).

La chirurgia del sistema venoso superficiale è responsabile di un notevole carico di lavoro per le strutture operative di chirurgia generale e vascolare e produce liste di attesa ancora oggi significativamente lunghe.

Si ipotizza, inoltre, che una chirurgia venosa “inadeguata” sia responsabile di molti casi di recidiva, nonostante una tecnica chirurgica esente da errori (413), anche se non è ancora definito che cosa si debba intendere per chirurgia adeguata (o appropriata) e inadeguata (o non-appropriata) (206).

Raccomandazioni:

Lo scopo della chirurgia delle varici è la risoluzione del momento varicoso a scopo sintomatologico, preventivo o terapeutico delle complicanze, fermo restando il carattere evolutivo della malattia varicosa – Grado A

Il paziente operato necessita di controlli clinici e strumentali nel tempo – Grado A

La terapia delle varici di vene collaterali, esistendo valide alternative di tipo medico o scleroterapico, non è esclusivamente chirurgica – Grado B

TECNICHE CHIRURGICHE PER LE VARICI

Attualmente ogni intervento chirurgico per l’insufficienza venosa superficiale può essere definito a scopo emodinamico, a patto che venga preceduto da un’appropriata mappa emodinamica venosa mediante Eco-(Color)-Doppler (211, 286, 321).

Le tecniche chirurgiche possono essere raggruppate in tre categorie principali:

  • Tecniche ablative
  • Tecniche conservative
  • Trattamenti obliterativi endovascolari

1) CHIRURGIA ABLATIVA

La chirurgia ablativa comprende gli interventi di stripping della safena, la crossectomia e la flebectomia.

a) STRIPPING DELLA SAFENA

Lo stripping può interessare sia la grande safena (safenectomia interna) che la piccola safena (safenectomia esterna). Nel primo caso può essere lungo (con asportazione della grande safena dalla crosse al malleolo tibiale), medio (dalla crosse al terzo medio di gamba), corto (dalla crosse al terzo superiore di gamba), ultracorto (dalla crosse al terzo inferiore o medio di coscia).

Lo stripping rappresenta la tecnica strandard del trattamento chirurgico, la più studiata nel tempo e l’unica che è stata comparata alla scleroterapia ed alla crossectomia da sola od associata alla scleroterapia. Nei loro riguardi lo stripping si è dimostrato in molti studi clinici superiore in termini di efficacia a lungo tempo (5, 52, 134, 205, 291, 354, 361). Per realizzare questi scopi, sono state descritte varie tecniche (stripping endovenoso con sonda rigida alla Babcock o con sonda flessibile alla Myers, stripping esovenoso alla Mayo e derivati, stripping per invaginazione sec. Keller e Van der Stricht, stripping sec. Ouvry o sec. Oesch), spesso meno invasive e con miglior esito sulla qualità della vità rispetto allo stripper standard (132).

L’asportazione dei tronchi safenici può essere associata alle varicectomie di coscia e/o di gamba ed alla sezione-legatura delle perforanti insufficienti (332), raggiungendo così anche una finalità emodinamica attraverso l’exeresi delle vie di reflusso.

b) CROSSECTOMIA SEMPLICE O ASSOCIATA A FLEBECTOMIA

La crossectomia semplice consiste nella deconnessione safeno-femorale con legatura e sezione di tutte le collaterali della crosse. Essa realizza documentati risultati funzionali, ma è risultata inferiore allo stripping nel trattamento delle varici (273; 1).

La crossectomia associata a flebectomia è comparabile nei risultati alle tecniche di stripping, solo quando è preceduta da un accurato studio preoperatorio (44, 80, 187).

c) FLEBECTOMIA

La flebectomia con miniincisioni secondo la tecnica di Muller può essere attuata sia come metodo di cura delle varici a sé stante sia come complemento degli altri interventi chirurgici. Questa tecnica dalle finalità estetiche, oltre che funzionali, si realizza con l’asportazione dei rami insufficienti del circolo superficiale attraverso incisioni di pochi millimetri, nelle quali vengono introdotti degli strumenti simili ad uncini, che consentono di portare all’esterno le vene da asportare (283, 346).

In caso di trombosi venosa superficiale la miniincisione sec. Muller può essere utilizzata per l’ablazione dei rami varicosi trombizzati o più semplicemente per la spremitura del materiale trombotico in essi contenuto.

La resezione e l’ablazione per via endoscopica di varicosità mediante elettroresettore venoso e sonda luminosa idroresecante con soluzione tumescente, rappresentano una tecnica ambulatoriale di recente sviluppo tuttora in corso di valutazione (386).

Raccomandazioni:

E’ importante fare precedere la tecnica ablativa dello stripping da un accurato studio preoperatorio con Eco-(Color)-Doppler per evitare gli errori diagnostici – Grado A

I pazienti vanno edotti delle finalità sintomatiche e delle indicazioni circoscritte dell’intervento di Muller – Grado B

2) CHIRURGIA CONSERVATIVA

La finalità della chirurgia conservativa è quella di trattare le varici, mantenendo una safena drenante e non più refluente. La direzione del flusso safenico potrà essere fisiologica (valvuloplastica esterna safeno-femorale e primo tempo della strategia CHIVA 2) oppure invertita e diretta verso la cosiddetta perforante di rientro (CHIVA 1). Anche queste tecniche conservative, per la cui realizzazione è assolutamente necessario lo studio preoperatorio con Eco-(Color)-Doppler, possono essere associate alla flebectomia sec. Muller.

a) VALVULOPLASTICA ESTERNA SAFENO-FEMORALE

Il razionale del trattamento è basato sull’osservazione istologica che negli stadi iniziali le cuspidi valvolari sono ancora sane, ma non più continenti per la dilatazione della parete vasale (66). E’ indispensabile la dimostrazione ecografica di cuspidi mobili e non atrofiche a livello della valvola terminale e/o subterminale della grande safena.

La finalità dell’intervento è quella di ridurre la dilatazione parietale, riaccostando così i foglietti valvolari (109, 254). A questo scopo si possono usare o delle suture dirette della parete o il cerchiaggio con materiali protesici esterni, rappresentati attualmente da Dacron o PTFE su anima di nitinolo (200). E’ consigliabile almeno un controllo con milking maneuvre e/o Doppler intraoperatorio dell’avvenuta continenza.

Dopo oltre un decennio di fase sperimentale, sono ora disponibili risultati favorevoli a lungo termine in studi clinici randomizzati multicentrici, qualora siano rispettate le indicazioni chirurgiche e di fattibilità della valvuloplastica esterna (6, 110, 229).

Raccomandazione:

La valvuloplastica esterna della grande safena a livello della valvola terminale e/o sub-terminale, previa accurata valutazione pre- ed intra-operatoria, rappresenta una valida terapia del reflusso safenico in circa il 5-8% dei pazienti varicosi – Grado B

b) CORREZIONE EMODINAMICA TIPO CHIVA 1

La correzione dell’alterazione emodinamica in un unico tempo si realizza quando la perforante di rientro di un sistema safenico refluente è centrata sul tronco safenico stesso (shunt tipo 1 e alcuni sottotipi di shunt tipo 3). Consiste nella deconnessione safeno-femorale con conservazione delle collaterali della crosse non refluenti e nella deconnessione dalla safena di tutte le tributarie insufficienti con o senza flebectomia. La perforante di rientro potrà o meno essere trattata con legatura-sezione della safena al di sotto del suo sbocco, ottenendo così la sua terminalizzazione (33, 157). La buona riuscita emodinamica dell’intervento è data dalla presenza di un flusso retrogrado.

c) CORREZIONE EMODINAMICA TIPO CHIVA 2

La correzione dell’alterazione emodinamica in due tempi ha l’obiettivo di trasformare uno shunt di tipo III in uno shunt di tipo I. Si realizza quando la perforante di rientro di un sistema safenico refluente è centrata su di un ramo tributario, oppure sulla safena stessa quando è interposto un tratto safenico valvolato tra la perforante e l’origine della collaterale varicosa (84). In questi casi l’esecuzione contemporanea della deconnessione sia della giunzione safenofemorale sia delle collaterali varicose realizza un sistema safenico non drenante, con conseguente aumento del rischio di trombosi safenica o di recidiva a distanza.

Il primo tempo della CHIVA 2 consiste nella deconnessione a raso della parete safenica di detta tributaria e nella sua eventuale flebectomia. Nella maggioranza dei casi tale tempo realizza un sistema a flusso anterogrado, che può rimenere stabile nel tempo in percentuali variabili riportate in letteratura. Qualora il sistema sviluppa una perforante di rientro safenico, si passerà al secondo tempo della CHIVA 2, che consiste negli stessi gesti chirurgici descritti per la CHIVA 1.

Attualmente gli interventi CHIVA hanno superato il follow-up di tre anni in pubblicazioni di evidenza scientifica (83, 107, 440).

Raccomandazione:

Gli interventi CHIVA rimangono limitati per numero e difficoltà di riproducibilità. Non deve essere eseguita la procedura CHIVA 2 in safene con calibro superiore ai 10 mm alla coscia, specialmente se il tratto safenico sottostante all’origine delle collaterali è aplasico/ipoplasico, per ridurre il rischio di trombosi safenica a crosse aperta GRADO C

3) TRATTAMENTI OBLITERATIVI ENDOVASCOLARI

L’obliterazione del lume della safena si può ottenere sia con mezzi chimici sia con mezzi fisici.

Nel primo caso si parla più propriamente di Scleroterapia.

Nel secondo caso si parla di procedure obliterative endovascolari, le quali utilizzano tecniche relativamente sofisticate, quali la radiofrequenza e la tecnologia laser. Queste ultime sembrano offrire risultati più stabili rispetto all’elettrocauterizzazione del lume safenico, soggetta a rapida ricanalizzazione della trombosi ottenuta.

a) RADIOFREQUENZA

La procedura, utilizzata dal 1999, può essere praticata in anestesia locale, tumescente o locoregionale (91, 258).

L’obliterazione della vena safena viene ottenuta applicando alla parete energia termica, che produce una contrazione ed un ispessimento delle fibre collagene dell’avventizia, provocando così la riduzione del lume fino alla sua completa chiusura. Il corretto posizionamento del catetere operatore alla giunzione safenofemorale viene verificato con Ecodoppler.

Al controllo postoperatorio immediato si evidenzia, nei casi favorevoli, la safena trasformata in un cordone solido e contratto.

Ad un anno di distanza uno studio multicentrico osservazionale (274) riporta su 232 controlli l’83,6% di safene chiuse, il 5,6% di safene ancora aperte ed il 10,8% di safene ricanalizzate. A due anni di distanza i risultati percentuali su 142 controlli sono analoghi.Tale procedura può essere associata alla flebectomia oppure alla chirurgia endoscopica delle vene perforanti (173).

b) TRATTAMENTO LASER

La procedura laser viene eseguita preferibilmente in anestesia locale, tumescente o tronculare. L’obliterazione della vena safena è ottenuta per la contrazione delle fibre collagene della parete vasale, causata dall’energia termica sprigionata dall’attivazione della fibra laser. Le complicazioni, rappresentate da ecchimosi e da bruciore cutaneo transitorio, sono trascurabili. Nei lavori pubblicati (278, 289;), tralasciando le ricerche cliniche riportate come preliminari, viene messo in evidenza come a distanza di un anno vi sia il 100% di occlusione della grande safena.

Rimangono per entrambe le procedure una serie di incognite:

  1. Le casistiche sono per ora insufficienti sia in valori assoluti che in relazione ai risultati ottenuti a distanza dall’intervento. Non sono ancora trascorsi 5 anni per un follow up ottimale dei pazienti trattati.
  2. L’obliterazione della safena si ottiene a distanza di sicurezza dall’ostio. Rimane di conseguenza pervio un piccolo “cul di sacco” terminale, nel quale si drenano una o più collaterali della crosse, contrariamente a quanto si realizza con l’intervento di crossectomia. Secondo gli autori delle procedure obliterative questa situazione finale sembra essere favorevole nell’evitare le recidive. (90).
  3. Per quanto riguarda il rapporto costo-beneficio, l’unità di controllo prevede una spesa iniziale notevole, mentre i cateteri sono molto costosi. Una ricerca randomizzata (341) su un numero limitato di pazienti ha evidenziato come la radiofrequenza costi il doppio dell’intervento chirurgico tradizionale di stripping, mentre costa un po’ meno il trattamento laser, perchè l’industria fornisce fibre sterilizzabili e quindi riutilizzabili.

Raccomandazione:

Entrambe le procedure obliterative endovascolari non sono a tutt’oggi validate dalla letteratura scientifica internazionale. Debbono essere ancora considerate come procedure in fase di validazione clinica a distanza e come tali praticate in Centri flebologici accreditati e dotati di strumentazione dedicata dopo un necessario periodo di apprendimento. Grado C

CHIRURGIA DELLE VENE PERFORANTI

Le vene perforanti assicurano la comunicazione attraverso l’aponeurosi muscolare tra le vene del sistema superficiale e le vene del sistema profondo. In numero variabile da 80 a 140 per arto inferiore, hanno un diametro che non supera i due millimetri e sono provviste di una valvola che si localizza di norma nel tratto sotto-aponeurotico.

L’identificazione di vene perforanti di gamba incontinenti è oggetto di controversie. Se l’ecodoppler sembra l’indagine più affidabile, la metodologia dell’esame resta controversa (58, 362). E’ certo che un reflusso della durata superiore ad 1 secondo con un calibro della perforante superiore ai 2 mm. debba essere considerato patologico.

Il rapporto tra grado di severità della IVC e vene perforanti incontinenti è determinato dal numero di perforanti interessate e soprattutto dalla associazione di più sistemi venosi patologici (223; 287).

L’eliminazione delle perforanti incontinenti in associazione con la bonifica delle vene varicose e del reflusso safenico nel trattamento dei pazienti con grave insufficienza venosa cronica costituisce un approccio terapeutico importante nel trattamento dei disturbi trofici della cute (95, 208).

L’indicazione al trattamento chirurgico è elettiva in pazienti con perforanti incontinenti di gamba e con ulcera attiva o chiusa [classe C5-C6 della CEAP], mentre il trattamento delle perforanti da insufficienza superficiale viene riservato ai pazienti sintomatici con distrofie cutanee [classe C4 della CEAP] (434).

Si distinguono due modalità di trattamento chirurgico delle vene perforanti:

  1. il soprafasciale ed il sottofasciale con la metodica tradizionale;
  2. il sottofasciale con la metodica endoscopica.

I risultati del trattamento con la metodica tradizionale (tecnica di Linton, Cockett, Felder, De Palma) non si discostano tra le varie tecniche utilizzate, con una percentuale di recidiva ulcerosa che oscilla tra il 9 e il 16,7% con un follow-up variabile dai 5 ai 10 anni (115, 119).

Il trattamento endoscopico delle perforanti, di recente acquisizione, prevede sia un mono accesso (trocar unico) sia un doppio accesso chirurgico (trocar operatore ed ottica). Numerosi e recenti studi dimostrano la comparsa di recidiva ulcerosa a 5 anni di follow-up in una percentuale che oscilla tra lo 0% ed il 10% (52, 322, 434).

Molti Autori hanno associato il trattamento chirurgico endoscopico alla bonifica del sistema venoso superficiale incontinente (343; 324) con una percentuale di recidive ulcerose simile a 5 anni di follow-up, anche se in uno studio multicentrico che valutava la chirurgia endoscopica contro la chirurgia endoscopica e bonifica del sistema superficiale si osserva a due anni di follow-up una minore percentuale di recidiva ulcerosa nel secondo gruppo (171).

Per la sua minore invasività, per il ridotto numero di complicanze post-operatorie e per la possibilità di agire lontano dalla sede dell’ulcerazione, viene attualmente preferita la tecnica endoscopica rispetto al trattamento tradizionale delle perforanti (296).

Raccomandazioni:

Nei pazienti con sindrome post-trombotica il trattamento delle vene perforanti incontinenti, sia esso effettuato con scleroterapia o con tecnica chirurgica tradizionale o endoscopica, riveste un ruolo centrale – Grado B

Nelle varici essenziali si deve distinguere il ruolo emodinamico delle vene perforanti di coscia (perforanti di Dodd) e della perforante di Boyd. Quando sono incontinenti, esse vanno sempre interrotte. Per le restanti perforanti di gamba occorre tener conto dell’aspetto clinico associato all’aspetto strumentale – Grado C

VARICI RECIDIVE

Per varici recidive si intendono le varici che compaiono dopo terapia chirurgica e non le residue alla stessa (317). La chirurgia delle varici degli arti inferiori è una chirurgia semplice solo in apparenza, essendo assai numerose le insidie. La dimostrazione di tale affermazione è l’alta percentuale di recidive riportata dalla letteratura internazionale (10, 68, 140, 233, 244, 225, 357).

L’interpretazione di tali casistiche non è però sempre omogenea a causa della etereogenicità del reclutamento e del diverso percorso diagnostico terapeutico.

Le cause di recidiva più frequenti sono:

  1. Errata strategia diagnostica e di appropriatezza terapeutica

Il risultato a lungo termine della chirurgia delle varici è legato ad una corretta diagnosi. L’esatta individuazione delle cause emodinamiche delle vene varicose permette di istruire un appropriato progetto terapeutico (70). Così al concetto di “radicalità chirurgica”, intesa come estirpazione anatomica della safena con tutte le sue collaterali e di tutti i gozzi varicosi, che ha caratterizzato la chirurgia delle varici per quasi un secolo, si è sostituito quello di “radicalità emodinamica”, intesa come eliminazione di tutti i difetti emodinamici che sono alla base della formazione delle varici (i reflussi).

Per rendere riproducibili nel tempo tali situazioni, è nata da più di un decennio la “cartografia” (157), una sorta di carta geografica delle varici e dei difetti circolatori venosi degli arti inferiori, che ha contraddistinto non solo l’intervento CHIVA, ma anche la chirurgia cosiddetta “tradizionale”.

Un uso non corretto di tali nozioni, soprattutto su base anatomica, può essere causa di recidive.

  1. Errori tecnici

Numerosi lavori dimostrano in modo inconfutabile l’importanza degli errori nella esecuzione degli interventi, spesso piuttosto grossolani, e non solo nelle casistiche più datate (10, 113, 186, 264, 403).

Tra i motivi, che possono indurre in errore durante un intervento per varici degli arti inferiori, certamente il più importante è la considerevole variabilità anatomica della giunzione safeno-femorale, che può portare il chirurgo a lasciare in sede alcune collaterali.

La terapia delle varici recidive può essere nuovamente di tipo chirurgico con approccio inguinale laterale sottofasciale, per non incappare nelle difficoltà tecniche legate alla sclerosi cicatriziale (42; 68, 243), qualora sia documentato all’Eco(Color)Doppler un moncone safenico lungo con una o più collaterali refluenti (348).

In tutti quei casi in cui non sia indicato il trattamento chirurgico od in alternativa ad esso, può essere utilizzato il trattamento medico farmacologico, compressivo o la scleroterapia anche in considerazione dei ridotti benefici della chirurgia delle recidive sulla qualità della vita (251).

Raccomandazioni:

Ferma restando la possibilità di recidiva delle varici quale evoluzione della malattia varicosa, al fine di porre rimedio al ripresentarsi della varicosi è necessaria una corretta diagnosi che è ben eseguibile con gli ultrasuoni (I e II livello), riservando ai casi particolari (III livello) la flebografia selettiva, onde ridurre al massimo l’errore – Grado B

DAY SURGERY

La possibilità clinica, organizzativa ed amministrativa di effettuare interventi chirurgici od anche procedure diagnostiche e/o terapeutiche invasive e semiinvasive, praticabili senza ricovero e senza necessità di osservazione postoperatoria, in studi medici, ambulatori o strutture protette, in anestesia locale e/o locoregionale, è attualmente in Italia in via di codifica normativa e legislativa attraverso i LEA (G.U. Repubblica Italiana, Febbraio 2002) , onde differenziare i tre possibili regimi di effettuazione della chirurgia delle varici: ambulatoriale (A) ; day-surgery (DS); ricovero ordinario (RO) .

I Protocolli di Valutazione Appropriatezza (PVA) sono strumenti discendenti dall’ originario protocollo Appropriateness Evaluation Protocol (AEP) per la valutazione di appropriatezza di utilizzo, sviluppato da Gertman e Restuccia nel 1981 (163).

AEP rappresenta il metodo più ampiamente verificato , validato ed usato nei programmi di gestione negli ospedali USA fin dai primi anni 80. Successivamente, un gruppo di lavoro formato da sette Paesi europei (Austria, Francia, Italia, Portogallo, Spagna, Svizzera, Regno Unito) ha verificato, aggiornato e validato il protocollo AEP da cui deriva una versione europea (230).

Una versione italiana, chiamata Protocollo di Revisione Utilizzo Ospedale (PRUO), viene impiegata in diverse Regioni italiane (342, 407).

Il PRUO è caratterizzato da aggiunte di sezioni specifiche mirate ad identificare le ragioni di ammissione e degenza non appropriate.

Moduli specifici sono necessari per identificare l’ appropriatezza del Ricovero Ordinario

piuttosto che in Day Surgery o prestazione Ambulatoriale .

I criteri utilizzati per la determinazione del livello assistenziale si dividono in quattro categorie :

  • Comorbilità (presenza di problemi medici concorrenti che pongono il paziente in una situazione di rischio speciale, indipendentemente dal tipo di intervento chirurgico);
  • Complicazioni (la possibilità di insorgenza nel post-operatorio , considerata durata dell’ intervento uguale o superiore a 60 minuti, fattori sociali quali paziente che viva da solo o con indisponibilità ad uso di mezzi di trasporto, grande distanza dalla struttura sanitaria,ecc);
  • Cure intensive (eventuali necessità nel post-operatorio);
  • Criteri straordinari (override).

La Day Surgery sembra oggi la più adatta alla maggioranza degli interventi chirurgici per le varici, a patto di seguire criteri selettivi precisi:

  1. la durata delle prestazioni in regime di DS deve essere preferibilmente contenuta entro un’ora;
  2. i pazienti da avviare a tale regime debbono essere opportunamente selezionati e debbono essere preventivamente informati sul tipo di intervento e/o di trattamento al quale saranno sottoposti, sottoscrivendo un consenso informato personalizzato. Attualmente è dimostrata una soddisfazione dei pazienti alla DS molto vasta, anche se essa non è gradita in percentuali vicine al 25% (155; 81; 35; 396);
  3. la selezione deve tener conto delle condizioni generali del paziente e dei fattori logistici e familiari;
  4. i pazienti che afferiscono ai programmi di chirurgia ambulatoriale e di DS devono essere in buone condizioni generali. I candidati ideali sono quelli classificati nelle classi ASA1 ed ASA2. Le urgenze chirurgiche sono escluse dal trattamento secondo tal regimi assistenziali;
  5. sono applicabili criteri di selezione in base ad età e peso. Con possibili eccezioni l’età massima indicativa è di 75 anni. L’obesità è un fattore di rischio di notevole importanza e tale condizione deve essere attentamente valutata;
  6. relativamente alla situazione logistica, è preferibile che il luogo di residenza del paziente non sia lontano dalla struttura dove viene praticata la prestazione per consentire un tempestivo intervento in caso di necessità e comunque il tempo di percorrenza dovrebbe essere preferibilmente compreso entro un’ora di viaggio. Ulteriore requisito è rappresentato dalla sicurezza di poter comunicare telefonicamente con la struttura di riferimento;
  7. tutti i pazienti debbono essere assistiti durante il ricovero da un familiare o persona di fiducia responsabile, opportunamente istruito, in grado di accompagnare a casa il paziente e fornire tutta l’assistenza necessaria, soprattutto nelle prime 24 ore dall’intervento chirurgico;
  8. la scelta di intervenire in un regime piuttosto che in un altro resta esclusiva responsabilità del medico, il quale potrà scegliere in assoluta libertà, nel rispetto del consenso informato del paziente, basandosi sui principi di scienza e coscienza su cui da sempre si fonda la facoltà di curare;
  9. la scelta del regime di ricovero più opportuno sarà guidata dall’accertamento delle condizioni cliniche e psicologiche del paziente. Molte delle patologia trattabili in regime ambulatoriale, se di maggiore estensione o complicate, dovranno essere trattate in regime di DS o addirittura in regime di RO;
  10. si precisa da ultimo che, se un tipo di intervento compare nell’elenco delle prestazioni eseguibili in DS, ciò non deve costituire alcun obbligo ad eseguire il trattamento indicato secondo tale regime assistenziale (11).
  11. E’ necessaria una gradualità e flessibilità nel passaggio dalla chirurgia delle varici in RO in DS . I dati più attuali disponibili dall’analisi del DRG 119 presenti nel sito web del Ministero della Salute italiano per l’anno 2000, documentano 106.158 interventi chirurgici per varici sull’intero territorio nazionale, di cui 78.521 interventi (74%) in RO con una degenza media di 2,79 giorni e 27.637 interventi (26%) in regime di DS con una degenza media di 1,6 giorni.

TRATTAMENTO CHIRURGICO DEL REFLUSSO VENOSO PROFONDO

Il paziente candidato alla chirurgia del sistema venoso profondo è affetto da IVC severa, con reflusso venoso significativo e ipertensione venosa ambulatoriale, in cui la terapia conservativa è fallita e la malattia venosa è causa di una cattiva qualità di vita. Quando il reflusso venoso profondo è lieve, lo stripping della safena può portare notevole beneficio e abolire il reflusso nella vena femorale (424). Al contrario, in caso di reflusso severo e veloce, è spesso necessario un trattamento chirurgico “diretto” del sistema profondo, anche considerando l’alta percentuale di recidiva dell’ulcera dopo terapia conservativa e i brillanti e duraturi risultati ottenuti dai Centri che hanno praticato questo tipo di chirurgia.

La chirurgia valvolare ricostruttiva comprende metodi diretti con lo scopo di ripristinare la continenza valvolare e metodi indiretti con il fine di migliorare l’emodinamica venosa degli arti (79, 266, 316, 335).

I metodi chirurgici diretti sono applicabili nella insufficienza venosa profonda primitiva, nella quale le cuspidi valvolari sono allungate o prolassate, ma presenti e funzionali. Nella sindrome posttrombotica o nella agenesia valvolare, nelle quali le valvole sono state danneggiate o sono assenti, la scelta terapeutica si orienta su una tecnica indiretta.

In una revisione di 423 interventi di ricostruzione valvolare (336) l’Autore riferisce il seguente ordine di durata nel tempo del successo delle metodiche chirurgiche ad un controllo Ecodoppler:

  1. valvuloplastica interna;
  2. valvuloplastica esterna con manicotto protesico;
  3. valvuloplastica esterna con sutura diretta;
  4. trapianto venoso.

Non è stata osservata nessuna differenza significativa tra le metodiche per quanto riguarda la recidiva dell’ulcera.

I tempi sono maturi per una standardizzazione dei reperti patologici, dei quadri clinici e dei parametri emodinamici, al fine di poter confrontare le differenti tecniche chirurgiche in studi prospettici randomizzati.

Raccomandazioni:

Non è raccomandabile l’uso comune di questi interventi chirurgici, che vanno selezionati e riservati a pazienti e strutture con specifiche indicazioni e competenze. Grado C

SCLEROTERAPIA

Definizione

La scleroterapia consiste nella obliterazione chimica delle varici. Allo scopo nelle varici viene iniettata una sostanza istolesiva (liquido sclerosante) che danneggia l’endotelio provocando spasmo, trombosi ed una reazione infiammattoria reattiva che nelle intenzioni del medico deve portare alla stenosi, fibrosi e obliterazione permanente della vena.

Efficacia

L’obliterazione iniziale delle vene si ottiene in oltre 80% dei casi, ma successivamente una parte delle vene sclerosate si ricanalizzano

Studi strumentali sulle singole vene

Dagli studi con controllo Doppler o ecografico risulta che la grande safena viene obliterata nel 81%-91% dei casi (178, 363, 86), ma dopo 4-6 mesi risulta ricanalizzata nel 14% e 33% dei casi (271, 86), dopo un anno nel 17%-35% dei casi (421, 367), dopo due anni nel 33%, 60% e 80% (202, 175, 58), e dopo 3 anni nel 48% (367) e dopo 5 anni nel 22% (152).

Simili risultati si sono ottenuti anche sulla piccola safena, obliterata inizialmente nel 87%-90% dei casi (178, 271), ma dopo 2 anni ricanalizzata nel 33% dei casi (202), mentre dopo 5 anni le ricanalizzazioni sono state del 27% quando la vena poplitea era continente (varici primarie) e 77% quando anche la vena poplitea era incontinente (varici secondarie) (370).

Per quanto riguarda i rami varicosi collaterali, nell’unico studio disponibile a due anni le ricanalizzazioni sono state di 26% (202).

Le safene ricanalizzate necessitano ulteriori trattamenti a distanza di tempo che può variare da un mese ad un anno (385, 271). Con questi ulteriori trattamenti la grande safena è rimasta obliterata dopo 2 anni nel 86% dei casi (385), dopo 3 anni nel 98% dei casi (271) e dopo 5 anni nel 80% (76, studio retrospettivo), mentre la piccola safena dopo 2 anni è risultata obliterata nel 90% (385) e dopo 3 anni nel 100% dei casi (271).

Studi clinici

Dal 1966 al 1984 sono stati condotti quattro studi prospettici randomizzati con controllo clinico dei risultati. Questi studi hanno dimostrato che all’inizio i risultati della scleroterapia sono paragonabili a quelli dell’asportazione chirurgica, ma con il tempo le recidive della scleroterapia sono nettamente superiori.

Nello studio di Doran (128), dopo 2 anni i risultati della scleroterapia e la chirurgia si equivalevano.

Nello studio di Chant e Beresford (92, 51), dopo 3 e 5 anni le recidive della scleroterapia erano rispettivamente 22% e 40% (rispetto a 14% e 24% della chirurgia).

Nello studio di Hobbs (193), dopo 1, 5 e 10 anni le recidive della scleroterapia erano rispettivamente 8%, 57% e 90% (rispetto a 6%, 25% e 34% della chirurgia).

Nello studio di Jacobsen (205), dopo 3 anni le recidive erano 63% (rispetto al 10% della chirurgia).

Studi con controllo clinico e strumentale

Nello studio di Einarsson (139), dopo 5 anni le recidive erano 74% (rispetto a 10% della chirurgia). In questo studio i risultati sono stati controllati anche con misurazione strumentale di parametri emodinamici (volumetria del piede), ed anche con questo criterio i risultati della chirurgia sono stati migliori.

Terapia combinata

Nel 1973-1975 tre editoriali non firmati, su British Medical Journal e Lancet (135, 136, 137), proponevano come ottimale, sia dal punto di vista dei risultati che da quello del rapporto costo/efficacia, la terapia combinata, che prevede l’interruzione chirurgica per la giunzione safenofemorale, e la scleroterapia per le rimanenti varici. Messa alla prova però, la terapia combinata è risultata più efficace della sola scleroterapia, ma pur sempre meno efficace rispetto alla rimozione chirurgica delle varici.

Questo era già stato dimostrato da Lofgren (246) negli anni ‘50 (però con studio retrospettivo): a 5 anni, 70% di recidive con la terapia combinata rispetto a 30% con quella chirurgica.

Nello studio prospettico di Jacobsen (205) le recidive a 3 anni sono state del 35% con la terapia combinata, 63% con la sola scleroterapia e 10% con la sola chirurgia.

Nello studio di Neglén (290), con la terapia combinata, alla fine del trattamento 21% dei pazienti avevano varici residue, mentre dopo 5 anni le recidive erano 84%. La volumetria del piede, normalizzata subito dopo il trattamento, deteriorava già dopo 1 anno e dopo 5 anni tornava ai valori pre-trattamento.

Nello studio di Rutgers (354) dopo tre anni le recidive erano 61% con la legatura e scleroterapia e 39% con lo stripping e flebectomia, mentre al Doppler vi era reflusso safenico in 46% dei pazienti del primo gruppo e 15% del secondo. Questo è l’unico studio nel quale gli insuccessi clinici della scleroterapia (61%) erano più numerosi del numero di safene ricanalizzate al Doppler (46%).

Occorre tenere presente infatti che in tutti gli altri studi, la metà circa dei casi con ricanalizzazione accertata strumentalmente risultavano comunque migliorati sul piano clinico. Inoltre, gli insuccessi obiettivi della scleroterapia sono mitigati parzialmente dal fatto che la valutazione soggettiva (dei pazienti) è stata invariabilmente migliore di quella oggettiva del chirurgo.

Valutazione dell’evidenza

Nonostante si prestino ad alcune critiche, gli studi finora pubblicati, di cui 6 prospettici e randomizzati (128, 92, 51, 193, 205, 139, 354), uno retrospettivo (246) ed uno prospettico controllato (290), hanno dato risultati univoci senza eccezione e dimostrano perciò in modo definitivo la superiorità della asportazione chirurgica rispetto alla scleroterapia e la terapia combinata, quanto meno per le varici accompagnate da incontinenza del tronco della grande safena.

Raccomandazioni:

l’asportazione chirurgica è superiore alla scleroterapia per quanto attiene alle varici che originano da incontinenza della grande safena. Grado A.

Indicazioni

La elevata percentuale di ricanalizzazioni e recidive pongono la scleroterapia in posizione subalterna e non alternativa alla chirurgia. Questo significa che la scleroterapia diventa la terapia di scelta sostanzialmente nei casi dove la chirurgia è improponibile (perché difficile, con risultati incerti o ad elevato rischio), oppure su richiesta specifica del paziente (che deve essere informato sui risultati, complicanze, vantaggi e svantaggi della scleroterapia rispetto alla chirurgia).

La scleroterapia è stata introdotta in Francia nel 1853, eppure i primi tentativi di elaborare “linee-guida” sono del 1996, a cura della Consensus Conference Internazionale (1996), della American Academy of Dermatology (182) e dell’American Venous Forum (30). Solo quest’ultimo però ha formulato in modo specifico le indicazioni alla scleroterapia, e sono le stesse proposte qui dal Collegio Italiano di Flebologia. Tali indicazioni comprendono:

1) teleangiectasie

2) varici di piccolo diametro (1-3mm)

3) vene residue dopo l’intervento chirurgico (quelle che il chirurgo ha deciso di non operare)

4) varici recidivanti dopo intervento chirurgico (se originano da una perforante di diametro <4mm)

5) varici nelle malformazioni venose (tipo Klippel-Trenaunay) per le quali non è proponibile intervento chirurgico

6) terapia d’urgenza dell’emorragia da rottura di varice

7) perforanti di diametro <4mm

8) varici attorno all’ulcera.

Come si vede da questo elenco, la scleroterapia è un metodo importante ed indispensabile per il trattamento ottimale di un ampio spettro di varici, dalle teleangiectasie (che non sono un problema solo estetico ma possono causare patologia cutanea ed emorragia anche grave) a quelle nelle forme gravi ed invalidanti di insufficienza venosa cronica, come la lipodermatosclerosi, l’ulcera da stasi e le malformazioni venose congenite.

Raccomandazioni:

Vengono condivise in linea generale le indicazioni dell’AVF, rimanendo aperte le indicazioni alla scleroterapia delle perforanti indipendentemente dal loro diametro, e della piccola safena. Grado B

Controindicazioni

Le controindicazioni alla scleroterapia comprendono l’allergia al mezzo sclerosante, malattie sistemiche gravi scompensate, trombosi venosa profonda recente, infezione locale o sistemica, edema non riducibile dell’arto inferiore, paziente immobilizzato, ischemia critica dell’arto inferiore. E’ consigliata cautela nei pazienti con anamnesi di TVP recidivante, stato accertato di trombofilia oppure in terapia estropgogestinica e durante la gravidanza.

Tecnica

Come ogni lavoro manuale la scleroterapia richiede apprendistato. Le diverse tecniche attualmente in uso derivano dalle tre scuole classiche europee di Tournay (404), Sigg (379) e Fegan (151), descritte in due testi disponibili in lingua italiana (261, 174).

Il tipo e concentrazione del liquido sclerosante variano a seconda del tipo di varice e sono riportate nella tabella 1.

Le iniezioni vengono praticate in più sedute, distanziate da pochi giorni a poche settimane una dall’altra, a seconda della tecnica personale.

Gli scopi della terapia si ottengono meglio, e con meno effetti indesiderati, se immediatamente dopo le iniezioni sulle vene iniettate e sulla gamba vengono applicate delle compressioni mediante spessori, bendaggi adesivi o mobili, o con tutori elasto-compressivi (calze) (427). Tali compressioni sono tanto più importanti e prolungate (da 3 a 6 settimane o più), quanto più grandi e diffuse sono le varici da trattare. In alcuni casi – per esempio varici grandi, gambe con tendenza all’edema – la compressione è indispensabile.

La maggiore efficacia dell’iniezione sclerosante sotto guida ecografica (ecoscleroterapia) non è stata ancora confermata. Altrettanto dicasi della recente proposta di iniettare i mezzi sclerosanti di tipo detergente (polidocanolo o tetradecil solfato di sodio) in forma di microschiuma e non liquido (282, 76, 152).

Il confronto tra diverse tecniche è stato oggetto di una revisione sistematica da parte della Cochrane collaboration (402), dalla quale però non emergono dati tali da modificare le raccomandazioni formulate nelle presenti linee-guida. In particolare risulta che il tipo di sclerosante non influisce significativamente sui risultati della scleroterapia, e questo conferma i dati istologici e della microscopia elettronica che hanno dimostrano che diversi sclerosanti producono lo stesso tipo di lesione parietale (256).

Raccomandazioni:

Non esiste standardizzazione della tecnica, delle concentrazioni e quantità degli agenti sclerosanti.

La compressione migliora il risultato della terapia sclerosante – Grado B

Tabella 5: I più comuni farmaci sclerosanti. Indicazioni e concentrazioni

Farmaco Tipo di varice e concentrazione raccomandata

TeleangiectasieVarici reticolariPiccole-medie variciGrosse variciTronchi safenici
Glicerina cromata72%
Salicilato di sodio8%12%20%
Polidocanolo0,25-0,5%1%1-2%3-4%3-4%
Tetradecilsolfato di sodio0,1-0,2%0,2-0,3%1-2%3%3%
Iodio/ioduro di sodio2%2-4%4-8-12%

COMPRESSIONE

Definizione

Per compressione si intende la pressione esercitata su di un arto da materiali di varia estensibilità al fine di prevenire e curare la malattia del sistema venolinfatico.

Cenni Storici

Il trattamento elastocompressivo è noto fin dai primordi della medicina. Troviamo delle tracce sull’uso dei bendaggi presso gli antichi egiziani e le popolazioni del Tigri. Il profeta Isaia nel VIII secolo a.C. citava l’uso e la funzione dei bendaggi agli arti inferiori, come del resto Ippocrate e la sua Scuola. Già i legionari romani nel 20 a.C. bendavano strettamente le gambe durante le lunghe marce per prevenirne il rigonfiamento. Celso raccomandò il bendaggio occlusivo e compressivo in lino per la cura dell’ulcus cruris. E in tutto il Medioevo per influsso della medicina araba invalse l’uso delle fasciature compressive.

Fisiopatologia

Il sistema venoso, coadiuvato dai vasi linfatici, si occupa di ricondurre verso il cuore il sangue refluo dai tessuti. Ogni qualvolta il deflusso venoso sia rallentato od ostacolato si realizza un fenomeno molto simile a quello di un ingorgo di traffico: di fatto si realizza una sorta di ischemia delle cellule, la stasi infatti impedisce che l’ossigeno e le sostanze nutritive possano lasciare il versante arterioso del capillare per entrare negli spazi interstiziali e quindi giungere alle pareti cellulari per essere assorbite. Tutto ciò è determinato dal sovvertimento dei rapporti pressori locali: il rallentamento del deflusso ematico comporta l’aumento della pressione interstiziale che può arrivare a controbilanciare la residua pressione idrostatica arteriosa, mentre il mancato deflusso determina l’incremento delle oncotica ed osmotica perivascolare con conseguente ritenzione idrica ed edema, realizzandosi così un circolo vizioso che tende ad automantenersi (276).

Razionale, Fisico e Tecnologico

I materiali, utilizzati per la compressione in flebolinfologia, sono distinti in bende, tutori elastici e non elastici (40, 111)

LE BENDE

Le bende sono generalmente utilizzate per la confezione di gambaletti.

La più importante proprietà delle bende è rappresentata dalla loro estensibilità o allungamento (40; 309).

Sulla base del loro allungamento rispetto alle dimensioni iniziali si distinguono(40; 111)

  • bende ad estensibilità corta (<70%)
  • bende ad estensibilità media (tra il 70 e il 140%)
  • bende ad estensibilità lunga (>140%).

Le bende inestensibili o poco estensibili determinano durante la deambulazione notevoli pressioni di “lavoro”, perché contrastano l’aumento della circonferenza della gamba dovuto alla contrazione dei muscoli del polpaccio (309), mentre la pressione di “riposo” è minima. Al contrario le bende elastiche esercitano moderate pressioni di “lavoro” ed alte pressioni di “riposo”, con uno scarto tra queste e le pressioni di “lavoro”, che è inversamente proporzionale alla loro elasticità (309). Esse mantengono così sul sistema venoso superficiale una pressione continua, relativamente indipendente dall’attività muscolare (418; 143), allo stesso modo dei tutori elastici che sono costruiti con fibre ad estensibilità lunga. Ne consegue che i bendaggi rigidi o poco estensibili, possono essere applicati e mantenuti in sede costantemente durante le 24 ore, al contrario i bendaggi estensibili oltre il 70% e le calze elastiche devono essere di solito rimossi di notte, perché non tollerati a letto (160, 298).

Tenuto conto di queste diverse caratteristiche delle bende, l’entità della pressione esercitata dipende in ogni caso dalla legge di Laplace (40; 309)

P = t / r

così modificata nel caso delle bende:

P = tn / ra

dove t è la tensione, n il numero di spire della benda, r è il raggio della circonferenza da comprimere, a è la larghezza della benda. (111; 309)

Ciò rende possibile “dosare” la compressione secondo le necessità terapeutiche (309).

La durata del mantenimento in sede di un bendaggio non è standardizzata. Alcuni studi evidenziano la pari efficacia nel risultato terapeutico di bendaggi mantenuti da poche ore fino a sei settimane, così come è dimostrata una caduta significativa della compressione esercitata dalle bende dopo 6-8 ore dalla loro applicazione (333, 334).

I TUTORI ELASTICI

I tutori elastici, di tipo preventivo o terapeutico (74; 309, 410, 418), fabbricati in diverse taglie con procedure standard o su misura, sono distinti a seconda della loro lunghezza in:

  • gambaletto
  • calza a mezza coscia
  • calza
  • monocollant
  • collant

cui vanno aggiunti i bracciali per l’arto superiore.

Quando la compressione esercitata alla caviglia è al di sotto dei 18 mm di Hg., il tutore è detto “preventivo o riposante”. La sua efficacia è controversa, così come quella dei tutori elastici che dichiarano la pressione esercitata in “deniers” (den). (40; 309; 418)

Quando la compressione esercitata alla caviglia supera i 18 mm di Hg., il tutore è detto “terapeutico”. Esso esercita sull’arto inferiore una compressione definita e graduata, che è decrescente dal basso verso l’alto, essendo il 100% alla caviglia, il 70% al polpaccio e il 40% alla coscia. (410; 418) Sulla base della compressione esercitata alla caviglia ed espressa in mm di Hg i tutori terapeutici vengono raggruppati in 4 classi. L’appartenenza di un tutore all’una o all’altra classe varia a seconda che si consideri la normativa tedesca oppure la normativa francese.

Le ditte fabbricanti calze elastiche terapeutiche sulla base della normativa tedesca RAL GZ 387 propongono quattro classi di compressione:

Classe Compressione in mm di Hg

1a 18,7 – 21,7

2a 25,5 – 32,5

3a 36,7 – 46,5

4a >58,5

Sulla base della normativa francese NFG 30-102 B i tutori elastici terapeutici vengono ancora raggruppati in quattro classi di compressione, ma con valori inferiori:

Classe Compressione in mm di Hg

1a 10 – 15

2a 16 – 20

3a 21 – 36

4a >36

Accanto alle calze preventive e a quelle terapeutiche vanno prese in considerazione le calze cosiddette “antiembolia” (40; 111; 418) per la profilassi degli episodi tromboembolici. Queste si differenziano dagli altri modelli, perché danno una compressione standard di 18 mm di Hg alla caviglia e di 8 mm di Hg alla coscia e quindi possono essere indossate e tollerate anche a riposo.

Norme di costruzione

Le norme di costruzione di un tutore elastico sono state emanate, su richiesta delle Autorità della Germania, per la necessità di ammettere i tutori al rimborso monetario, secondo il prontuario terapeutico tedesco dei farmaci e dei presidi (125).

Essa contiene:

  • una tabella che stabilisce le quattro classi di compressione in cui rientrano tutti i tutori per la terapia elastocompressiva;
  • una tabella in cui viene messo in evidenza la corretta distribuzione della compressione, affinché il tutore elastico garantisca il giusto gradiente lungo l’arto inferiore nelle varie classi;
  • un capitolato che specifica come deve essere costruito il tutore elastico con particolare attenzione alle caratteristiche della doppia estensibilità, sia in senso longitudinale, che circonferenziale;
  • sono dettate specifiche modalità di esecuzione per quanto riguarda le cuciture, i bordi, il tallone, ecc.;
  • sono riportati i materiali utilizzabili con precisi limiti alla sottigliezza del filo, in maniera da ottenere un prodotto dalla necessaria robustezza con proprietà costanti nel tempo;
  • una apposita sezione riguarda infine le modalità dell’esame ispettivo di idoneità della calza.

La normativa RAL-GZ 387, La cui ultima revisione risale al Settembre 2002 (337), affida a due Istituti autorizzati, l’uno in Germania e l’altro in Svizzera, il test preliminare -sistema HOSY- che certifica la corrispondenza del tutore alle specifiche tecniche, con particolare riguardo al controllo visivo, alle prove di elasticità trasversale e longitudinale, all’analisi dei materiali utilizzati. Nello stesso tempo impone un sofisticato test di rilevamento delle compressioni e del loro andamento decrescente dal basso verso l’alto, attuato mediante una particolare apparecchiatura in grado di misurare qualsiasi tipo di calza elastica e di registrare le loro prestazioni sia in statica che in dinamica. Questa normativa, molto severa e restrittiva, che da oltre trenta anni controlla la produzione e la circolazione dei tutori elastici in Germania, è stata proposta come modello per l’elaborazione di una regolamentazione a livello di Unione Europea.

LE COMPRESSIONI NON ELASTICHE

Possono essere riferite essenzialmente alla Compressione Pneumatica Intermittente (CPI) ed alla Compressione Elevata Intermittente non Pneumatica. La compressione trasmessa dal rigonfiamento mediante aria o mercurio di appositi gambali e bracciali, disponibili in varie forme per essere selettivamente applicati al piede od alla gamba od ancora all’intero arto superiore od inferiore, agisce sia sulla velocità di flusso ematico che sui meccanismi fibrinolitici locali. Sono disponibili in commercio apparecchi monocamera –il rigonfiamento avviene in contemporanea in tutta la camera- e sequenziali, nei quali il rigonfiamento della camera avviene in fasi successive e centripete.

APPLICAZIONI CLINICHE

Generalità

Ogni quadro di insufficienza venosa cronica o acuta ha indicazione alla compressione, in associazione o no ad altri trattamenti. L’efficacia della elastocompressione per il trattamento sintomatico e la prevenzione delle complicanze della insufficienza venosa cronica (IVC) è supportata dalla esperienza clinica e da copiosa letteratura scientifica soprattutto per i gradi più avanzati di espressione della malattia venosa. Solo le pubblicazioni più recenti peraltro soddisfano i più rigorosi criteri di confronto caso/controllo e di numerosità del campione.

Il tipo di compressione, la modalità di applicazione, la durata dell’uso, variano per ciascun quadro clinico e per ciascun paziente stesso all’interno di gruppi di patologie equivalenti: pertanto la scelta del tutore compressivo richiede di essere modellata alle necessità del singolo paziente ed alla entità della malattia. Per rendere omogenei i criterî di valutazione dell’IVC e Acuta, nella profilassi e nella terapia, devono essere usati standards classificativi comuni quali la classificazione internazionale CEAP per l’IVC e la categorizzazione di rischio Alto/Moderato/Basso del Consensus statement on Prevention of Venous Thromboembolism

FORME ACUTE

Tromboflebiti Superficiali

La tromboflebite superficiale è considerata una malattia benigna in assenza di fattori di rischio trombofilici, generalmente quale comune complicanza delle vene varicose. Tuttavia può evolvere in embolia polmonare ed esser fatale. La compressione elastica, sempre unita alla deambulazione ed a fianco della terapia farmacologica (antiinfiammatoria/eparinica), trova la prima indicazione al trattamento ed alla prevenzione dell’estensione (180; 45).

Raccomandazioni:

i pazienti con tromboflebiti superficiali hanno sempre indicazione alla compressione e deambulazione – Grado B

Trombosi Venose Profonde

Prevenzione Della TVP

Le calze a compressione elastica graduata riducono l’incidenza di TVP dopo chirurgia con compressione ottimale da 18-20 mmHg alla caviglia a 8 mmHg alla coscia (207, 432). In Chirurgia generale ed ortopedica, in neurochirurgia la compressione elastica ha dimostrato efficacia nel ridurre la incidenza di TVP sia da sola che in associazione ad eparine (191, 4; 105 162). In ambienti riabilitativi è stata testata l’efficacia della compressione elastica sia sola che associata a basse dosi di EBPM nella profilassi prolungata della TVP in pazienti a rischio emorragico o con recenti emorragie acute (28).

L’utilizzo di gambaletti “antitroboembolici” è stato inoltre proposto per la prevenzione della TVP del viaggiatore, o “da classe economica”; rara, e controversa (220, 376), sindrome caratterizzata da TVP asintomatiche ed episodi di “morte iimprovvisa” da embolia polmonare massiva, causate dalla prolungata immobilità in corso di viaggi aerei intercontinentali ma anche da viaggi in treno od autobus della durata di molte ore (27, 43)

Raccomandazioni:

Basso rischio:

Grande accordo alla compressione graduata pur in assenza di dati sufficienti. Grado C

Moderato rischio:

Calze elastiche in associazione o in alternativa alla profilassi eparinica. Grado B

Alto rischio:

come per Moderato Rischio o combinazione di piu’ metodi di profilassi. Grado B

Terapia della TVP

Pur senza evidenze da studi controllati, il corrente trattamento delle TVP rimane basato sull’uso dell’eparina con un ruolo emergente per le Eparine a basso Peso Molecolare.

È conosciuta da tempo peraltro l’indicazione di alcuni flebologi alla compressione con mobilizzazione, anche in fase acuta delle TVP (61, 308). La mobilizzazione precoce con compressione di II classe ha recentemente dimostrato efficacia sia nei confronti della riduzione dell’edema che sulla ricanalizzazione in assenza di complicanze tromboemboliche rispetto ad una popolazione di controllo (311). Vi sono scarse evidenze circa il “timing” per l’inizio della terapia compressiva, la sua durata, ed il livello di compressione più adatto (212).

Raccomandazioni:

la mobilizzazione precoce con compressione elastica sembra efficace nella riduzione dell’edema nella fase acuta della TVP senza di aumento di complicanze tromboemboliche. Grado B

Prevenzione Della Sindrome Post-Trombotica

La Sindrome Post-Trombotica (SPT) consegue ad una TVP con percentuali tra il 10% ed il 100% e con sequele manifestantesi tra l’edema di media entità e l’edema invalidante con dolore, alterazioni trofiche cutanee fino all’ulcerazione (9); l’indicazione all’impiego di gambaletti elastici a compressione 40 mmHg alla caviglia per almeno 2 anni ha ricevuto l’avallo di uno studio randomizzato controllato con dimezzamento dell’incidenza di SPT quando la calza era regolarmente usata (72).

Raccomandazioni:

dopo una TVP deve essere consigliato l’uso di calza elastica almeno per 2 anni ed almeno di 20mmHg. Grado A

COMPRESSIONE POST-CHIRURGIA E POST-SCLEROTERAPIA DELLE VARICI

La compressione dopo chirurgia ha indicazione per la prevenzione del tromboembolismo venoso e, dopo chirurgia venosa, per lo più per le vene varicose per la prevenzione degli ematomi ( 2-3 giorni) per ridurre l’edema ed il dolore (2-4 settimane); ma anche prevenzione delle recidive varicose (297, 318, 345, 405, 427)

Ciascun chirurgo utilizza modalità di compressione basate sulla propria esperienza: bendaggi elastici a compressione concentrica omogenea, bendaggi fissi adesivi o coesivi ( totali o parziali ), con vari metodi di compressione localizzata con o senza materiali protettivi della pelle; calze elastiche utilizzate singolarmente o successivamente a precedenti tipi di compressione.

La compressione ottenuta mediante bende è in genere di 20-25mmHg o superiore a 30 mmHg; mediante calze si ritiene sufficiente la classe di 15-20 mmHg usata dal X-XV giorno post -operatorio.

La compressione dopo scleroterapia risente, nella scelta del tipo, ancor maggiormente delle differenti tecniche, ma vi è consenso nel considerarla parte stessa importante della terapia (174, 261, 404).

Raccomandazioni:

i pazienti sottoposti a terapie flebologiche attive (chirurgia e scleroterapia) necessitano di tutori di compressione pur non potendosi codificare una scelta del tipo. Grado B.

TERAPIA COMPRESSIVA IN GRAVIDANZA

La gravidanza è associata a numerosi cambiamenti della fisiologia del ritorno venoso, tra i quali la dilatazione dei vasi causata dell’ipertensione venosa da compressione delle vene addomino-pelviche. La comparsa od il peggioramento di teleangiectasie e varici sono frequenti ma tendono a regredire pressoché completamente nelle settimane successive al parto. Il trattamento è conservativo e si basa essenzialmente sulla compressione elastica (381, 442). La Compressione Pneumatica Intermittente sembra giocare un ruolo limitato nelle riduzione dell’edema perimalleolare (439). La compressione con calze di I o II classe non ridurrebbe la comparsa di teleangiectasie e piccole varici ma sarebbe efficace nella prevenzione della comparsa di reflussi safenici (399).

FORME CRONICHE

Sintomi di lieve Insufficienza Venosa Di Tipo Funzionale (CEAP “0” = Non Segni Visibili Di Malattia Venosa)

Non sono disponibili sicuri dati circa l’efficacia delle calze “riposanti” o “preventive” del commercio (172) sulla progressione della malattia verso un quadro di insufficienza venosa conclamata. Vi sarebbe però una discreta efficacia sulla sintomatologia soggettiva (75). Calze con pressioni alla caviglia di 8 e 12 mm Hg ma non con compressione decrescente verso la coscia, hanno dimostrato riduzione dell’edema perimalleolare e dei sintomi di pesantezza e gonfiore dopo prolungata stazione eretta sul lavoro in donne sane. Non vi era evidenza di differente comportamento tra i due livelli di compressione. Le calze di pressione maggiore hanno dimostrato limiti di compliance dovuti a difficile adattamento anatomico (117).

Raccomandazioni

non è possibile allo stato delle conoscenze dare indicazione sull’uso di tutori elastici riposanti e/o preventivi in pazienti con evidenza clinica di flebopatie, pur essendovi evidenza di miglioramento della sintomatologia soggettiva. Grado B

Teleangiectasie e Varici Reticolari (CEAP “1”)

La presenza di ectasie venose accompagnanti sintomi clinici di IVC da indicazione ad un incremento dei livelli di compressione da esercitare alla caviglia e conseguentemente a polpaccio e coscia (96).

Raccomandazioni:

i dati fisiopatologici non concordano con le indicazioni descritte, non è possibile pertanto raccomandare l’uso cronico di tutori compressivi in queste manifestazioni. Grado C

Vene Varicose (CEAP “2”)

La compressione è da considerarsi fondamentale per la gestione clinica del paziente con vene varicose per gli effetti di riduzione di pesantezza e dolore ed emodinamici e sul trofismo tessutale sia sola (93, 194, 224) che in associazione a terapia farmacologica (121) In un piccolo gruppo di 31 pazienti, peraltro affetti da varici non complicate, calze con compressioni minori, 20 mm Hg alla caviglia, sono risultate altrettanto efficaci sia dal punto di vista clinico che emodinamico di calze con pressione di 30 mm Hg, con una migliore compliance (209).

Raccomandazioni:

l’uso di un trattamento compressivo è raccomandato. L’esiguità di letteratura adeguata per numerosità di campioni non consente di dare indicazione certa per i livelli di compressione alla caviglia che dovrebbero comunque essere superiori a 18 mm di Hg. Grado B

Edema (CEAP “3”)

L’edema è una complicanza comune dell’insufficienza venosa sin dagli stadi di minor rilevanza clinica. E’ presente come succulenza perimalleolare serotina nell’IVC e compare progressivamente più evidente nella malattia varicosa complicata da compromissione cutanea e nell’ulcera da stasi. L’eziopatogenesi è rappresentata dallo stravolgimento dei rapporti pressori interstiziali causato dall’ipertensione venosa (309). In lavoratori affetti da IVC costretti alla prolungata stazione eretta calze elastiche di II classe di compressione hanno dimostrato efficacia nel contrastare la formazione dell’edema e nel ridurre la sensazione di dolore e tensione agli arti inferiori (221; 417). Calze con valori di “slope” più elevati (aumento della compressione trasmessa dalla calza conseguente all’aumento della sua circonferenza di un cm) sembrano maggiormente efficaci nella prevenzione della formazione dell’edema (412).

Raccomandazioni:

la letteratura disponibile e del tutto esigua, in mancanza di trials clinici ed in considerazione del possibile peggioramento della qualità della vita determinato da un uso di compressione indiscriminato, non consentono di porre indicazione generalizzata alla terapia compressiva. Grado C

Turbe Trofiche di Origine Venosa: Pigmentazione, Eczema Venoso, Ipodermite, Ulcera Cicatrizzata (CEAP “4” e CEAP “5”)

La presenza di alterazioni cutanee nella malattia venosa cronica è indice di grave sofferenza tessutale sostenuta da ipossia da stasi cronica. Da una revisione della letteratura operata da Moffatt (280) risulta una incidenza di recidiva di ulcera senza compressione nei 2/3 dei pazienti.

Raccomandazioni:

la compressione è raccomandata nella prevenzione della recidiva di ulcera (30 – 40 mm Hg alla caviglia). Grado B

Ulcera Venosa (CEAP “6”)

Il trattamento dell’ulcera venosa risente efficacemente della terapia compressiva successiva a detersione chirurgica e/o farmacologica locale, mediante calze compressive elastiche, bendaggio di Unna, bendaggio multistrato, compressione pneumatica intermittente. Una revisione della letteratura pubblicata nel 1997 sul BMJ (153) che ha preso in considerazione tutti i trials disponibili sul trattamento dell’ulcera venosa ha consentito di concludere che la compressione migliora la prognosi di questa affezione, privilegiando l’uso di alti livelli pressori. Non vi sarebbe chiara superiorità di un sistema di fasciatura rispetto ad altri: multistrato, benda a corto allungamento, bendaggio di Unna, calza elastica (277; 387, 114)

Raccomandazioni:

raccomandato l’uso della terapia compressiva nel trattamento dell’ulcera venosa da stasi (bendaggio anelastico; gambaletto con compressione > 40 mm Hg). Grado A

COMPRESSIONI NON ELASTICHE

Profilassi del tromboembolismo venoso

La compressione pneumatica intermittente (CPI) si è dimostrata in grado di prevenire lo svilupparsi di trombosi venosa profonda ed agisce su due dei tre fattori della triade di Virchow. Il meccanismo è riassunto in due punti chiave: aumenta il flusso ematico venoso durante i periodi di immobilità e riduce lo stato di ipercoagulabilità con l’attivazione dell’attività fibrinolitica (344). I dispositivi di compressione pneumatica intermittente fungono da misure aggiuntive nel trattamento dell’edema dell’arto inferiore, dell’ulcera venosa o di entrambi e per la profilassi del tromboembolismo polmonare (355). Una meta-analisi di 70 trials sulla profilassi del tromboembolismo venoso in pazienti sottoposti a chirurgia ha dimostrato che l’uso di una profilassi meccanica con CPI riduce la percentuale di trombosi venose profonde e embolie polmonari nel post-operatorio (265). La CPI è indicata nei pazienti sottoposti ad interventi neurochirurgici, interventi urologici maggiori, di chirurgia ginecologica oncologica (269) chirurgia oculare, chirurgia spinale, chirurgia del ginocchio (162). Essa è anche indicata nei pazienti con sospetta o documentata emorragia endocranica o in quelli che hanno subito un recente trauma cerebrale o spinale (141) anche in associazione alla profilassi farmacologica con EBPM (12) e nello Stroke (214). La presso terapia sequenziale sembrerebbe dimostrare maggiore efficacia clinica ed emodinamica associata a buona compliance da parte di Pazienti e Personale (330; 213).

Raccomandazioni:

Si raccomanda l’uso routinario peri-operatorio della CPI in pazienti a rischio trombotico che presentino controindicazioni alla profilassi eparinica. Grado B

CPI come coadiuvante nel trattamento dell’ulcera venosa

La CPI trova indicazione nel trattamento dell’ulcera venosa con un aumento della percentuale di guarigione che viene raggiunta in tempi più brevi (313).

La CPI associata alla compressione con calze elastiche ne potenzierebbe l’effetto nel trattamento dell’ulcera venosa riducendo i tempi di guarigione se paragonati al solo trattamento con calze elastiche (100). Una recente review tratta dal Cochrane Database (259) lamentando l’esiguità dei dati disponibili in letteratura, raccomanda l’avvio di trias randomizzati per avvalorare queste ipotesi.

Raccomandazioni:

Non è possibile esprimere al momento raccomandazioni per l’uso della CPI nel trattamento dell’ulcera venosa in attesa di risultati di trias randomizzati. Grado C

Controindicazioni

Non sono molte le controindicazioni alla terapia compressiva e gli effetti avversi sono estremamente rari. In genere la maggiore limitazione alla prescrizione ed all’uso di calze elastiche è rappresentata dalla difficoltà ad indossarle in presenza di patologie concomitanti e nell’anziano (339). In generale le controindicazioni possono essere classificate come assolute o relative (444).

Particolare attenzione deve essere posta nei confronti della concomitante presenza di arteriopatie, non infrequente soprattutto nei pazienti di età maggiormente avanzata (37, 142).

Assolute:

  • assenza di indicazione specifica (patologie non venose)
  • immobilità (tranne che per calze antitrombo)
  • affezioni dermatologiche gravi
  • arteriopatie concomitanti (soglia di attenzione: PA alla caviglia < a 80 mmHg; indice caviglia/braccio < a 0.50)

Relative:

Bende: ulcere con secrezione abbondante

Calze: allergia; ipodermite acuta; conformazione anatomica al di fuori degli standard; difficoltà ad indossarle

Raccomandazioni:

è fondamentale escludere una concomitante arteriopatia avanzata prima di intraprendere una terapia compressiva. Grado A

FARMACOTERAPIA

La farmacoterapia dell’IVC si è sviluppata negli ultimi 50 anni. Sino ad allora poteva apparire sorprendente che non esistessero apporti clinici o sperimentali che perseguissero l’intento di studiare i problemi del tono e della contrattilità delle vene nonché della pressione venosa in rapporto coi problemi terapeutici.

I farmaci del sistema venoso furono dapprima chiamati flebotonici in relazione al più ipotizzato meccanismo d’azione sul tono venoso e fondamentalmente impiegati finora per il trattamento sintomatico e di conforto al paziente con IVC (3).

I farmaci flebotropi, nella più moderna accezione comprendente molteplici potenziali targets d’azione (Tab 6), sono prodotti d’origine naturale, seminaturale e prodotti sintetici, taluni con più principi attivi associati per migliorarne l’efficacia. La maggiore parte di questi prodotti appartiene alla famiglia dei flavonoidi che è ricca di 600-800 sostanze ben identificate e che sono raggruppate da Geissman e Hinreiner sotto il nome di flavonoidi, polifenoli vegetali con una struttura chimica del flavone cui nel 1955, per decisione della Accademia delle Scienze di New York, venne dato il nome “ Bioflavonoidi “ (18)

Tabella 6. Processi fisiopatologici venosi influenzati dalla farmacoterapia. – Ridotto tono venoso – Emoconcentrazione – Depressione del reflusso venoarteriolare – Disturbo della vasomozione – Aumento della permeabilità capillare – Edema – Cuffia di fibrina pericapillare – Ridotta fibrinolisi – Aumento del plasminogeno plasmatico – Alterazioni della reologia leucocitaria ed eritrocitaria – Attivazione leucocitaria – Microtrombosi capillare – Stasi del microcircolo – Ridotto drenaggio linfatico

Indipendentemente dal meccanismo d’azione di diversa natura ma caratterizzato dalla proprietà di attivare il ritorno venoso e linfatico, numerose sono le evidenze per una strategia terapeutica di scelta con farmaci flebotropi nell’IVC in cui la chirurgia non sia indicata, non sia possibile o possa essere coadiuvata dalla farmacoterapia (17, 99, 250, 275, 301, 338, 441).

I farmaci flebotropi largamente commercializzati e prescritti in Italia, Francia, Germania ed in generale in Europa, risultano meno utilizzati nell’area anglosassone e scandinava in base ad una presunta scarsezza di dati pubblicati in passato. Tale limite è oggi in corso di superamento grazie alle nuove metodologie di studio.

Gli effetti dei farmaci flebotropi sui parametri fisiologici quali tono venoso, emodinamica venosa, permeabilità capillare e drenaggio linfatico, possono essere valutati con vari metodi della diagnostica flebologica preferibilmente non inasiva (106), tuttavia il principale strumento per la valutazione degli effetti clinici di un farmaco flebotropo è dato dal trial clinico ben condotto con soddisfacenti requisiti su base clinica, scientifica ed etica (176). Il trial deve essere randomizzato, possibilmente doppio- cieco, con adeguata forza per provare a rispondere a domande ben definite che corrispondano allo stato di malattia: la recente classificazione CEAP permette l’uso del medesimo sistema a score dei quadri clinici prima e dopo trattamento. Devono essere considerati i sintomi, i segni e la qualità della vita.

L’efficacia su tali differenti outcomes può essere ottenuta da farmaci che pur a diversa struttura chimica hanno la stessa indicazione clinica. La classificazione ATC definisce i farmaci flebotropi come “vasoprotettori”, distinguendo una terapia antivaricosa topica dall’uso di “sostanze capillaroprotettrici” prevalentemente a base di bioflavonoidi (Tab. VII).

Tabella VII

CO5 VASOPROTETTORI

CO5 B Terapia Antivaricosa

CO5BA Eparine o eparinoidi per uso topico

Aremin (Bioethical)

Angiorex (Lampugnani)

Dermoangiopan (Abiogen Pharma)

Erevan (Fourmier Pharma

Essaven Gel (Aventis Pharma)

Fibrase (Teofarma)

Flebs (Pierre Fabre Pharm.)

Hemovasal (Manetti Roberts)

Hirudex (New Farma)

Hirudoid 25000 (Sankyo Pharma)

Hirudoid 40000 (Sankyo Pharma)

Lasonil (Bayer)

Lasoven Gel (Bayer)

Lioton 1000 (Sanofi-Syntelabo)

Stranoval (Teofarma)

Traumal (Novartis Con.He.VA)

Venotrauma (Also)

CO5 C Sostanze Capillaroprotettrici

CO5CA Bioflavonoidi

Alven (Alfa Wassermann)

Clarisco (Schwarz)

Arvenum 500 (Stroder)

Daflon 500 (Servier)

Diosven (CT)

Doven (Eurofarmaco)

Doven Forte (Eurofarmaco)

Flebil (Merck Pharma)

Fleboside (Mastelli)

Fleboside 300 (Mastelli)

Pericel (New Farma)

Rutisan Ce (Carlo Erba OTC)

Tegens (Sanofi-Synthelabo OTC)

Venolen (Pharma Line-MN)

Venoruton (Novartis Con.He.VA)

Venoruton Intens (Novartis Con.He VA.)

Venoruton 1000 (Novartis Con.He VA)

Venosmine (Geymonat)

Venosmine Forte (Geymonat)

Venosmine 300 (Geymonat

CO5CX Altre Sostanze Capillaroprotettrici

Bres (Farmacologico Mil.)

Capillarema (Baldacci)

Centellase (Hoechst Pharma)

Curaven (Fher)

Doxium (Abiogen Pharma)

Edeven (IBI)

Essaven (Aventis Pharma)

Flebostasin R (Sankyo Pharma)

Fludarene (Farmila Farm. MI)

Idro P2 Ascorbico (Sanofi-Syntelabo)

Idro P2 Ascorbico Forte (Sanofi- Syntelabo)

Reparil (Madaus)

Varicogel (Alfa Wassermann)

Venoplus (Also)

L’efficacia clinica sui sintomi (senso di peso, dolore, parestesie, sensazione di caldo e bruciore, crampi notturni, ecc) è da sempre comprovata da livelli di evidenza III, IV, V, ma sono oggi disponibili studi di livello I-II su specifici farmaci .

Tra i bioflavonoidi, studi randomizzati e in doppio cieco sono riferibili alla diosmina (126, 169, 340); alla troxerutina (320, 420); alla rutosidea (46, 329); all’escina (445); agli antocianosidi del mirtillo (18); tra le molecole di sintesi al calcio dobesilato (435). Un’azione flebotropa ben dimostrata in classe di farmaci differenti dai flavonoidi risulta per il ruscus aculeatus (414, 415), per la centella asiatica (15, 87) ed il mesoglicano (26).

L’efficacia clinica sul principale segno, l’edema, è mostrata da diversi agenti protettivi con effetti sulla microcircolazione attraverso l’abbassamento della permeabilità endoteliale; un ridotto rilasciamento di enzimi lisosomiali e sostanze infiammatorie; l’inibizione di radicali liberi e la ridotta adesione di globuli bianchi (104; 121, 262).

Il miglioramento sorprendente della qualità della vita dopo somministrazione di 1 gr di Diosmina micronizzata, studio condotto su 934 pazienti portatori di IVC, è stato evidenziato per tutte le dimensioni della vita: fisica, psicologica, relazionale (235). Nell’ultimo decennio si è meglio evidenziato il rapporto tra macro- e microcircolazione specie nei quadri più severi di IVC: era già noto il rapporto tra reflussi e ipertensione venosa quale causa di un danno a livello capillare (433; 148, 398). Molteplici studi di base e sull’uomo hanno confermato l’effetto microcircolatorio di alcuni farmaci flebotropi e particolarmente della associazione Diosmina-Esperidina micronizzata sui parametri microcircolatori compromessi nella IVC (16, 17, 63, 170, 183, 184, 185, 235).

Sulle suddette premesse sono stati introdotti in clinica una serie di farmaci la cui utilità clinica non sempre e non del tutto è stata evidenziata da sufficienti studi clinici di adeguata forza. Essi vengono usati come coadiuvanti il trattamento dell’ IVC severa (stadi 4/5/6 CEAP) e compresi nella classificazione ATC nel raggruppamento BO1, Antitrombotici, ed in alcuni casi nel CO4/CO1E, Vasodilatatori , per la loro azione sulle alterazioni endoteliali ed emoreologiche, sulla presenza di micro trombi e sull’effetto barriera all’ossigeno.

Tra i fibrinolitici sono documentati gli effetti dell’urokinasi (138; 310); azione profibrinolitica hanno i glicosaminoglicani quali il sulodexide (189, 371) e l’ eparansolfato (20); il defibrotide (89).

Tra i vasodilatatori sono ben documentati gli effetti della pentossifillina (103, 149, 430,) e della prostaglandina E1 (353), entrambi nel trattamento delle ulcere.

Per il solo trattamento coadiuvante la guarigione delle ulcere è stata posta l’unica indicazione all’antiaggregazione piastrinica nell’IVC con l’aspirina (238).

Raccomandazioni:

Sono numerose le evidenze per una strategia terapeutica di scelta con farmaci flebotropi nell’IVC quando la chirurgia non sia indicata, non sia possibile o possa essere coadiuvata dalla farmacoterapia.

L’uso dei farmaci flebotropi trova la sua indicazione clinica sui sintomi soggettivi e funzionali dell’IVC (stancabilità, crampi notturni, gambe irrequiete, pesantezza, tensione) e sull’edema – Grado A

Integratori Alimentari: precisazioni

Da qualche anno in Italia sono state introdotte “sostanze” cui viene attribuita nella etichettatura una non specifica azione capillarotropa e/o venotropa. Essendo la più parte di questi prodotti composti da flavonoidi estrattivi, si è creata una confusione nella classe medica e nella clientela acquirente tra farmaci estrattivi a base di flavonoidi, fitoterapici, prodotti di erboristeria e alimenti o integratori alimentari. A meglio chiarire le differenze connesse alla diversa nomenclatura, porteremo qui appresso le definizioni secondo il Ministero della Salute Italiano e le diverse situazioni di commercializzazione nell’ambito della EC (165).

FARMACO: ogni sostanza o composizione presentata come aventi proprietà curative o profilattiche delle malattie umane o animali, nonché ogni sostanza o composizione da somministrare all’uomo o all’animale allo scopo di stabilire una diagnosi medica o di ripristinare, correggere o modificare funzioni organiche dell’uomo o dell’animale.

Per sostanza si intende qualsiasi materia di origine umana o animale o vegetale di origine chimica, sia naturale che di trasformazione o di sintesi.

I prodotti fitoterapici e di erboristeria qualora obbediscano alle normative di registrazione con autorizzazione alla commercializzazione in vigore per i Farmaci, possono rientrare di diritto nella classe dei “ Farmaci “(Dgls n. 178 29-05-1991 con successive variazioni e integrazioni della EC Council Regulation, EC, n° 2309/93 22 Luglio 1993, Council regulation, EC, n° 297/95 del 10 Febraio 1995, Commission regulation, EC, n° 541-542-1662/95 del 10 Marzo e del 7 Luglio 1995, Commission regulation, EC, n° 2141/96 del 7 Novembre 1996, Regulation n° 141/2000 del Parlamento Europeo del 16 Dicembre 2000, Commission regulation, EC, n° 847/2000 del 27 Aprile 2000 ).

PRODOTTO ERBORISTICO: non esiste legislativamente in Italia nessuna definizione del prodotto erboristico che può essere quindi commercializzato come : alimento, integratore alimentare, farmaco, cosmetico. Ognuna di queste definizioni possiede modalità proprie di produzione, di autorizzazione alla commercializzazione, di confezionamento. C’è attualmente in esame una proposta di Legge n° 4380 sull’erboristeria che all’articolo 2 comma 1 ne stabilisce il confezionamento, la nomenclatura, i principi attivi e l’utilizzo, in linea con la definizione EU di prodotti di erboristeria e fitofarmaci. (CPMP/QWP/2819/00 : “Note for guidance on quality of herbal medicinal products CPMP/CVMP Luglio 2000).

ALIMENTO E INTEGRATORI ALIMENTARI: non esiste un articolo di Legge che definisca l’alimento. Una definizione di ciò che non può essere è desunta dall’articolo 2 del Decreto Legislativo n° 109 del 27-01-1992 in materia di pubblicità : “ l’etichettatura, la presentazione e la pubblicità dei prodotti alimentari non devono essere tali da indurre ad attribuire al prodotto proprietà atte a prevenire, curare o guarire malattie umane ne accennare a tali proprietà che non possiede “

Gli integratori alimentari sono assoggettati al decreto legislativo del 27-01-1992 n° 111, attuazione della direttiva EC 89/398/EC e alla Direttiva 2002/46/EC del Parlamento Europeo del 10 giugno 2002. Per tale motivo il Ministero della Salute italiano sottopone dal 2002 ad una azione di controllo la produzione e l’indicazione d’uso “salutistico” priva di finalità proprie del medicinale quale quella terapeutica (Ministero della Salute G.U., circolare 18 Luglio 2002 n°3).

Da questa breve disamina si deduce chiaramente che sia i prodotti di erboristeria che i fitofarmaci qualora obbediscano alle normative di registrazione in vigore per i farmaci, possono essere considerati tali.

Vengono da questo chiaramente esclusi gli integratori alimentari.

Ad eccezione delle sostanze citate nella tabella 3, non esistono al momento attuale evidenze cliniche di efficacia farmacologica nella IVC per altri prodotti fitoterapici e di erboristeria in commercio

FISIOTERAPIA

Norme generali di comportamento per l’insufficienza venosa e linfatica cronica sono sempre da consigliare (8).

Le regole igienico-dietetiche sono oggi abbastanza note al pubblico stesso attraverso i media sulla salute, dirette in particolare alla prevenzione. Il medico generale e lo specialista dovranno dedicare una parte dell’impostazione terapeutica ad esse, trovando il tempo per convincere i pazienti a seguirle, in questo facilitati dalla disponibilità di schede e schemi prestampati e ben accetti dal paziente, specie se personalizzati da un segno, una annotazione.

Soprattutto l’esercizio fisico attivo e le norme posturali dovranno essere prescritte con corretta “posologia” e controindicazioni(2, 307). Valutazioni cliniche e strumentali con flebodinamometria, pletismografia e tensione transcutanea di ossigeno, dimostrano i vantaggi sulla macro- e micro-circolazione di programmi di training di esercizio fisico (19, 64, 210, 242).

Anche rinforzare la pompa venosa del piede può rappresentare una nuova risorsa in termini di prevenzione e riabilitazione dell’ IVC. Pur non avendo dati sufficientemente validati come per la valutazione della fisiologia muscolo-osteoarticolare del piede (248) , sollecitare le reti venose della pianta del piede sulla base delle conoscenze classiche (168) e di più recenti dati fisici e fisiologici (147), appare un obiettivo interessante in flebologia. Diversi studi hanno individuato l’influenza della malfunzione posturale sull’ IVC con possibile correzione mediante plantare flebologico (73, 255, 314, 360, 375).

Drenaggio veno-linfatico manuale (linfodrenaggio)

Sicuramente una delle metodiche massoterapiche piú diffuse e collaudate per tutte le forme di flebo-linfostasi, il drenaggio linfatico manuale fu introdotto da E. Vodder nel 1936 (423), piú recentemente ripreso con codificazione dell’uso attuale da Leduc (239) e dalla stessa scuola di Vodder (422). Indicato anche per l’IVC (159, 401).

Sul piano tecnico il concetto dell’azione “meccanica” del sistema Vodder si basa sull’armonico spostamento di liquidi e soluti interstiziali attraverso i capillari linfatici verso i gangli o pozzi di drenaggio principali.

La ritmicità e la fluidità dei movimenti dell’esecutore sono fondamentali e devono rispettare e potenziare le capacità fisiologiche di smaltimento idrico dei tessuti trattati; è quindi importante valutare ogni distretto anatomico nella sua “globalità” imprimendo forza e coordinazione al gesto manuale compressivo.

Le sensazioni di benessere immediato indicano una buona esecuzione tecnica del massaggio la cui efficacia è certo dipendente dall’esperienza e dalla capacità manuale dell’esecutore. I risultati sono attestati dall’immediata diminuzione della circonferenza dell’arto e da studi mediante linfoscintigrafia indiretta.

In Germania, il trattamento fisioterapico dei linfedemi basato sul linfodrenaggio, viene definito come KPE (Komplexe Physikalische Entstauungstherapie), che si potrebbe tradurre come “Trattamento Fisioterapico Multifattoriale di Decongestionamento” (154).

Raccomandazioni:

l’esperienza e i più recenti studi clinici e strumentali confermano l’efficacia di norme generali di comportamento, della fisioterapia e del venolinfodrenaggio manuale. Grado C

TERMALISMO

L’azione benefica dell’acqua sulla stasi venosa e linfatica degli arti è ben nota ed empiricamente usata da sempre dagli stessi pazienti (227, 116).

Essa però, nelle sue varie forme necessita di precise indicazioni e posologie terapeutiche (onde evitare controindicazioni e complicanze). In generale, i trattamenti a casa, in località di mare o termali, si basano sugli effetti della pressione idrostatica, sulla temperatura del bagno e sulla costituzione chimica dell’acqua per l’effetto medicamentoso dei sali (179).

L’azione terapeutica si svolge attraverso due meccanismi di azione:

  1. Aspecifico

O idroterapico in senso lato, consistente nella utilizzazione delle proprietà fisiche che le acque possono offrire:

  • Temperatura
  • Pressione idrostatica
  • Movimento attivo e/o passivo
  1. Specifico

O crenoterapico propriamente detto, legato alle caratteristiche chimico-fisiche dell’acqua utilizzata:

  • Sali minerali
  • Oligoelementi
  • Termalità
  • Concentrazione

Se da un punto di vista fisico l’impiego di qualsiasi acqua minerale può essere di giovamento, dal punto di vista chimico solo alcuni tipi di acque presentano precise indicazioni nel trattamento e riabilitazione dell’insufficienza venosa e linfatica cronica (Tabella 8).

Tabella 8

Acque termali indicate in angiologia. Vengono evidenziate quelle utilizzate per scopi preventivo-terapeutico-riabilitativi dell’insufficienza venosa e linfatica.

Salsobromoiodiche Azione disimbibente sui tessuti edematosi

Sulfuree Azione antiinfiammatoria

Arsenicali ferruginose Azione tonica, stimolante ed antistress

Solfato calciche Stimolano la contrattilità venosa

Radioattive Azione sedativa, analgesica e antispastica

Carboniche Azione tonificante

La terapia termale può essere effettuata in qualsiasi momento dell’anno. Se possibile, sarebbe indicato compiere due cicli all’anno di crenoterapia, preferibilmente in autunno e primavera, comunque con un intervallo tra di essi di almeno tre mesi.

Perché il trattamento esplichi le sue potenzialità terapeutiche, ogni ciclo di terapia dovrebbe durare almeno tre settimane, non è consigliabile un periodo inferiore alle due settimane (145, 232).

Raccomandazioni:

la terapia termale dell’IVC, espletata in località e con modalità idonee ha mostrato la sua efficacia anche in studi controllati. Grado B.

TERAPIA DELLE ULCERE VENOSE

Introduzione

L’ulcera da stasi venosa è una lesione cutanea cronica che non tende alla guarigione spontanea, che non riepitelizza prima di 6 settimane e che recidiva con elevata frequenza. Alcune definizioni escludono le ulcere del piede, altre comprendono tutte quelle a carico dell’arto inferiore.

Le ulcere venose dell’arto inferiore rappresentano il 75% di tutte le lesioni trofiche a carico di questo distretto (156).

Si ritiene che l’insufficienza venosa cronica, benché sia stata meno studiata ed abbia ricevuto meno attenzione dell’insufficienza arteriosa cronica, colpisca la popolazione adulta in misura 10 volte superiore (304).

Nonostante ciò la cura dell’ulcera venosa è spesso trascurata o è del tutto inadeguata. Molti pazienti vanno avanti e camminano per mesi o addirittura per anni con l’ulcera ricoperta da medicazioni locali, senza che venga minimamente corretta l’insufficienza venosa che ne sta alla base (400).

Clinica

L’ulcera venosa della gamba si presenta di solito come una perdita di sostanza cutanea di forma irregolare, con il fondo ricoperto da un essudato giallastro, con margini ben definiti, circondata da cute eritematosa o iperpigmentata e liposclerotica.

Le ulcere variano in dimensione e sede, ma nei pazienti portatori di varici si osservano abitualmente nella regione mediale del terzo inferiore di gamba.

Un’ulcera venosa nella parte laterale di gamba è spesso associata ad insufficienza della piccola safena. (39). I pazienti con ulcera venosa possono lamentare intenso dolore, anche in assenza di infezione. Il dolore è aggravato dalla stazione eretta e diminuisce fino a scomparire con l’elevazione dell’arto inferiore.

Trattamento

La terapia delle ulcere venose si fonda sulla conoscenza dei meccanismi fisiopatologici che entrano in gioco nel determinismo dell’ulcera. Tali meccanismi non sono più basati esclusivamente sulle nozioni di emodinamica macrovascolare, ma coinvolgono l’unità microcircolatoria ed il laboratorio endoteliale (102).

Poiché l’ulcera venosa rappresenta una condizione cronica caratterizzata dalla lenta riparazione e dalla tendenza a recidivare, obiettivo della terapia è non soltanto la guarigione, ma anche e soprattutto la prevenzione della recidiva (167). Allo stesso tempo è di fondamentale importanza migliorare lo stato psicologico del paziente, sia per l’accettazione e la collaborazione nel programma terapeutico, sia per la stessa qualità di vita (158).

La terapia di un’ulcera venosa può coinvolgere uno o più dei seguenti trattamenti

  1. trattamento di base
  2. terapia farmacologica
  3. compressione
  4. medicazione topica
  5. chirurgia
  6. scleroterapia
  7. altre terapie
  8. misure generali
  9. Trattamento di base

Il trattamento di base dovrebbe conformarsi alla regola generale di considerare il paziente nella sua interezza e non focalizzarsi esclusivamente sulla cura dell’ulcera (350). In questo contesto di grande importanza sono il modus vivendi del paziente, la sua capacità deambulatoria, il suo lavoro, l’eventualità presenza di obesità, diabete o altre malattie concomitanti (400).

  1. Terapia farmacologica

Riconosce come principali bersagli il tono venoso, l’emoconcentrazione, l’aumentata permeabilità capillare, l’edema, la ridotta attività fibrinolitica, l’incremento del fibrinogeno plasmatico, le anomalie della funzione leucocitaria, il controllo del dolore e delle sovrainfezioni, le malattie concomitanti.

Vengono comunemente impiegati agenti fibrinolitici o favorenti la fibrinolisi, idrossirutosidi (260, 388) diosmina esperidina micronizzata, prostaglandina E1 (353), pentossifillina (129).

Una revisione sistematica della letteratura riporta prove di efficacia per la pentossifillina non esente da eventi avversi (129), per il sulodexide ed il mesoglicano (371, 26) mentre non vi sono prove di efficacia per l’acetilsalicilato e per il supplemento orale di zinco (293).

Più recenti trials hanno dimostrato l’efficacia farmacologica dei bioflavonoidi in associazione all’elastocompressione (170, 185).

  1. Compressione

Tutti i pazienti portatori di un’ulcera venosa richiedono un trattamento compressivo.

Una revisione sistematica di studi controllati e randomizzati ha documentato che la compressione facilita la guarigione delle ulcere venose e può prevenire le recidive.

Qualsiasi altra cura dell’ulcera venosa dovrebbe essere sempre associata alla compressione. E’ però necessario che il paziente sia in grado di deambulare, al fine di ottenere il massimo beneficio dalla compressione (41).

La compressione serve ad aumentare il flusso venoso, a diminuire il reflusso patologico durante il cammino (400), a migliorare la microcircolazione ed il drenaggio linfatico (153). In tal modo si riduce l’edema cronico, si riduce l’essudato dell’ulcera e la lesione regredisce più rapidamente, mentre la recidiva dopo guarigione è meno probabile.

Attualmente non si reperiscono in letteratura studi sufficienti per il confronto fra le varie tecniche di compressione (293).

La terapia compressiva può essere attuata utilizzando bendaggi o calze elastiche. (443).

Nella fase acuta dell’ulcera è preferibile una compressione fatta con bende anelastiche, con bende all’ossido di zinco o con un bendaggio multistrato. Quest’ultimo può essere lasciato in sede anche per una settimana, ma all’inizio del trattamento, finchè l’essudato e l’edema non diminuiscono, è preferibile rimuovere ed applicare il bendaggio più spesso. Buoni risultati in termini di guarigione delle ulcere venose sono stati riferiti con l’utilizzo di dispositivi compressivi a quattro strati (279; 380), che sembrano efficaci come adeguatezza di compressione, anche se confezionati da personale poco esperto (393). I bendaggi multistrato sono risultati più efficaci rispetto ai mono – e bistrato (114). Sebbene non vi siano allo stato attuale studi di confronto, in termini di tasso e di numero di guarigione, tra bendaggio compressivo eseguito da uno specialista vs non specialista la letteratura sottolinea l’importanza della formazione professionale nel migliorare le capacità tecniche nel confezionare un bendaggio con speciale attenzione al raggiungimento di pressioni adeguate al di sotto del dispositivo (349).

Il bendaggio dovrebbe essere in grado di esercitare una pressione di riposo di almeno 20-30 mmHg a livello della caviglia e del terzo inferiore di gamba, più bassa a livello del terzo superiore di gamba e del ginocchio, in maniera da dare una compressione graduata. (389; 400)

Nei pazienti in cui sia presente un’arteriopatia obliterante di modesta entità con un indice ABI compreso tra 0,6 e 0,8, il bendaggio va praticato con molta attenzione. E’ imperativo in questi casi che esso venga fatto con materiale anelastico, in maniera da esercitare una bassa pressione di riposo. Se l’insufficienza arteriosa è severa con un indice ABI al di sotto di 0,6, qualsiasi tipo di compressione è controindicata. (400).

La compressione mediante calze elastiche è utilizzata per mantenere il risultato raggiunto nella cura dell’ulcera venosa e prevenire le recidive. Generalmente sono utilizzate calze della II classe di compressione (30-40 mmHg di pressione alla caviglia) o della III classe (40-50 mmHg). Nei pazienti anziani o quando coesistono problemi di mobilità articolare può essere più facile far indossare due calze sovrapposte l’una sull’altra della I classe di compressione (20-30 mmHg alla caviglia). (443). Nei pazienti allettati o che comunque camminano poco può essere presa in considerazione l’opportunità di utilizzare la calza antitrombo. In pazienti selezionati può essere utile ricorrere alla compressione pneumatica intermittente. (100)

Le recidive sono tuttora frequenti sia a breve termine che a distanza dalla guarigione, variando dal 20 al 75% (77; 294). Le recidive sono legate a vari fattori di rischio, ma soprattutto alla persistenza dell’alterazione emodinamica ed alla inadeguatezza o non accettabilità del tutore compressivo. (279, 405, 325, 270).

Il successo della compressione dipende anche dalla mobilità del paziente, il quale deve essere perciò incoraggiato a muoversi e a compiere regolari esercizi fisici e riabilitativi. (41; 112).

Si deve infine notare come tutti gli studi sull’elasto-compressione nelle ulcere venose riportino raramente il tasso di complicanze e i motivi di sospensione.

Compressione pneumatica intermittente

Pochi gli studi controllati e randomizzati (54). Essi non hanno riportato alcun effetto significativo sulla guarigione con la compressione pneumatica intermittente in associazione al bendaggio compressivo tuttavia non è stato riferito alcun effetto negativo.

Si tratta di un mezzo non sempre disponibile e può, dati i tempi e le modalità di applicazione, influenzare negativamente la qualità della vita del paziente.

In alternativa il problema può essere meglio risolto dal drenaggio linfatico manuale benché attualmente manchino evidenze e studi a riguardo.

Recentemente l’International Leg Ulcer Advisory Board ha proposto un algoritmo per la terapia compressiva nel trattamento dell’ulcera venosa (387).

  1. Medicazione topica

Nel programmare la cura locale di un paziente con un’ulcera venosa è importante l’osservazione clinica, perché si deve tener conto della presenza di tessuto non vitale, dell’entità dell’essudato, di una eventuale infezione, dello stato della cute che circonda l’ulcera. (443)

Il trattamento topico dell’ulcera venosa deve assicurare la detersione della lesione, la conservazione del microambiente, la protezione dagli agenti infettanti e la stimolazione dei meccanismi riparativi cellulari.

E’ stato recentemente introdotto il concetto di “preparazione del letto” di una lesione o Wound Bed Preparation (150) ovvero la “gestione globale e coordinata della lesione, volta ad accelerare i processi endogeni di guarigione ma anche a promuovere l’efficacia di altre misure terapeutiche”. Esso comprende lo “sbrigliamento” o “debridement”(autolitico, enzimatico, meccanico) atto a rimuovere il tessuto necrotico (“carica necrotica”) con le componenti essudative e la correzione delle alterazioni del microambiente.

La medicazione ideale dovrebbe possedere le seguenti caratteristiche:

– non aderire, né lasciare residui sul fondo dell’ulcera

– mantenere la superficie dell’ulcera umida

– essere impermeabile ai liquidi, ma permettere gli scambi gassosi

– creare una barriera contro i batteri e i miceti

– stimolare la crescita del tessuto di granulazione

– alleviare il dolore

– avere un costo ragionevole.

Attualmente, nonostante la grande varietà di medicazioni proposte, non ne esiste ancora una ideale, né è possibile stilare dei protocolli rigorosi che siano validi per la cura di tutte le ulcere venose (350).

L’esperienza dimostra che ogni prodotto si rivela inizialmente efficace, ma tale beneficio può decrescere nel tempo, mentre un altro prodotto può poi portare a guarigione l’ulcera.

Per questo motivo si dovrebbe enfatizzare nel loro trattamento un atteggiamento dinamico, tenuto conto di varie fasi evolutive nella storia naturale dell’ulcera, che variamente può presentarsi necrotica, fibrinosa, essudante, infetta, detersa, ganuleggiante, in fase di riepitelizzazione.

Se un tempo l’unica terapia era il bendaggio compressivo rigido e la medicazione locale con pochi prodotti detergenti e/o disinfettanti, attualmente si hanno a disposizione con indicazioni diverse a seconda delle fasi suddette, medicazioni occlusive, semiocclusive, assorbenti, medicazioni a base di carbossimetilcellulosa, alginati, poliuretano, collagene, colla di fibrina, chitosano, in forma di paste, di granuli, di schiume, di gel.

Recentemente è stata proposta l’applicazione locale di fattori di crescita (347), somministrati anche per infiltrazione (263).

Qualora sia presente un’infezione, devono essere allestite colture dell’essudato ed il trattamento iniziare con antibiotici sistemici. Gli antibiotici per uso topico non sono generalmente utilizzati, perché favoriscono l’insorgenza di dermatiti da contatto (188; 130).

E’ stato dimostrato in un trial prospettico che i pazienti con ulcera venosa, trattati con l’emulsione argento-sulfadiazina associata ad elastocompressione, sono guariti più velocemente rispetto al gruppo trattato con la sola compressione (59).

Nelle fasi più avanzate del processo di guarigione, quando la secrezione è scarsa e l’ulcera si superficializza, si può ricorrere alle medicazioni cosiddette biologiche, utilizzando delle sottili pellicole a base di cellulosa o di acido jaluronico, che da una parte esercitano una funzione protettiva, impedendo l’infezione dell’ulcera, dall’altra forniscono un buon supporto per la migrazione e la proliferazione delle cellule basali dell’epidermide, mantenendo un adeguato livello di umidità che evita l’essicamento della lesione.

Sibbald et al. (378) ha proposto uno schema di scelta di medicazioni appropriate a seconda della fase in cui il fondo delle ulcere venose si presenta (tabella n. X).

Tabella X

Tipo di medicazioneAspetto del fondo della lesioneAspetto del tessuto di granulazione
Nero (necrotico)Giallo (secco fibrinoso)Essudante (umido)Rosso (infetto)Rosso (umido)Rosso (sanguinante)Rosso porpora (granuleggiante in riepitelizzazione)
1. Schiume++++++
2. Idrofibre+++++++++
3. Garze NaCl++++++++
4. Alginati++++++++++
5. Idrocolloidi+++++++++
6. Idrogel++++++++++
7. Pellicole adesive+++
8. Pellicole non adesive++
9. Enzimi+++++++
+comunemente appropriato
++appropriato
+++altamente appropriato
  1. Chirurgia

La chirurgia dell’ulcera venosa non è da considerarsi né in esclusiva né in alternativa, ma complementare al trattamento conservativo.

La terapia chirurgica dell’ulcera persegue due obiettivi fondamentali:

  1. la correzione dell’alterazione emodinamica di base
  2. la copertura dell’ulcera mediante innesti cutanei allo scopo di ridurre i tempi di guarigione (255).

La scelta della procedura più idonea deve sempre essere preceduta da un accurato studio morfologico ed emodinamico del sistema venoso sia superficiale che profondo con le abituali metodiche diagnostiche (101, 102).

Si ritiene comunemente che in pazienti con ulcera varicosa la chirurgia del sistema venoso superficiale offra ottimi risultati, riducendo i tempi di guarigione e le recidive a distanza, specialmente in assenza di alterazioni del sistema venoso profondo (350).

Più deludenti sono i risultati della chirurgia in caso di ulcere post-trombotiche (216).

Circa il ruolo delle vene perforanti nell’insufficienza venosa cronica, è certo che il loro trattamento è stato di recente migliorato dallo sviluppo della tecnica di legatura sottofasciale per via endoscopica. (52). Benchè i risultati precoci siano ottimi, il fallimento della guarigione dell’ulcera o la recidiva è compresa in un range percentuale che va dal 2,5 al 22%. (171, 303, 323) Un limite della tecnica è la difficoltà di accedere alle perforanti perimalleolari. In uno studio recente è stato osservato che il 50% delle perforanti incontinenti entro i 10 cm dal suolo, identificate preoperatoriamente con il duplex, non vengono trattate dalla tecnica endoscopica. (323).

Inoltre la tecnica endoscopica confrontata con quella aperta per un follow-up di circa quattro anni, pur dimostrando nettamente una ridotta morbilità, non ha fatto rilevare differenze statisticamente significative in termini di guarigione delle ulcere (397).

La correzione totale dell’insufficienza delle vene superficiali e delle vene perforanti dovrebbe essere sempre effettuata, prima di considerare interventi sul circolo venoso profondo (198).

Le valvuloplastiche, i trapianti di valvola venosa e gli interventi di trasposizione venosa dovrebbero essere lasciati come ultima risorsa. Si tratta di procedure in fase di sviluppo, le quali vanno prese in considerazione esclusivamente in centri specializzati e nell’ambito di studi clinici controllati. (400).

Per quanto riguarda gli innesti cutanei, in letteratura non si ritrovano ancora prove sufficienti dei loro effetti sulla guarigione stabile delle ulcere venose. Essi possono essere attuati con varie metodiche:

-“meshed split skin grafting” (245)

– “pinch grafting” (327)

– omotrapianto di cheratinociti umani coltivati in vitro (118);

– trapianto di lembi liberi con segmenti venosi valvolati, previa ulcerectomia e legature delle
perforanti insufficienti (131);

– “shave therapy” , cioè ulcerectomia, rimozione del tessuto lipodermatosclerotico ed innesto
in “meshed” (366);

I risultati migliori si ottengono con la tecnica del meshed grafting, mentre sono in fase di revisione critica gli innesti di cheratinociti umani e dei sostituti della cute umana, non essendovi attualmente dei lavori che ne dimostrino l’efficacia nelle recidive a distanza (281).

Il recente impiego della cute artificiale e/o di equivalenti cutanei sembra promettente nel favorire una rigenerazione tessutale (331; 48).

  1. Scleroterapia

Nei pazienti con insufficienza del sistema venoso superficiale ed in particolare in presenza di reflussi brevi da vene perforanti insufficienti può essere indicata in casi selezionati la scleroterapia associata a compressione (123), anche se è presente un’ulcera aperta (25).

In un recente studio è stata riproposta la scleroterapia sotto guida ecografica (178).

  1. Altre terapie

– ossigenoterapia iperbarica

– vacuum terapia

– luce polarizzata

– laserterapia

Si tratta di esperienze condotte su casistiche limitate, né vi sono al momento documentazioni esaurienti per i risultati ottenuti ed il follow-up.

  1. Misure generali

I pazienti con un ulcera venosa dovrebbero essere istruiti a mantenere un peso corporeo il più possibile vicino a quello ideale.

Una passeggiata regolare in pianura, 2-3 volte al giorno, per almeno 30 minuti, dovrebbe essere largamente incoraggiata.

I lunghi periodi di stazione eretta devono essere evitati.

E’ utile che i pazienti periodicamente sopraelevino la gamba al di sopra del piano del cuore e dormano con i piedi del letto sollevati.

Nei pazienti con edema da insufficienza venosa cronica può essere preso in considerazione il drenaggio linfatico manuale.

La terapia fisica può migliorare la mobilità articolare della caviglia.

Raccomandazioni:

La terapia delle ulcere venose è un problema antico, dibattuto, ma non risolto, essendo queste lesioni lente nella riparazione e facilmente recidivanti.

La terapia conservativa ha un ruolo importante in prima istanza, ma si è rivelata inefficace nella prevenzione delle recidive a distanza, se non supportata in molti casi dalla correzione chirurgica della turba emodinamica, la quale dà buoni risultati solo in caso di insufficienza isolata del sistema venoso superficiale. Grado B.

La terapia compressiva, se correttamente condotta, è in grado di curare e prevenire la recidiva di ulcera. Grado A.

In letteratura sono presenti molti studi clinici, i quali però non sono rappresentativi della popolazione in generale, perché troppo selettivi. Vengono di solito forniti i risultati in termini di guarigione a breve termine, senza dare dati sulle recidive a distanza. E’ necessario pertanto un maggior rigore della metodologia e degli standards di indagine, perché possa sussistere una evidenza clinica e quindi una validazione.

E’ riportata nella letteratura internazionale la necessità di istituire unità operative specificatamente dedicate allo studio ed alla cura delle ulcere degli arti inferiori, da cui possono dipendere sia attività di assistenza a domicilio sia attività di riabilitazione, nell’ottica di un miglioramento della qualità delle prestazioni erogate, di un contenimento dei costi e, non ultimo, di una più accettabile qualità di vita del paziente.

Infine, anche per quanto riguarda il capitolo relativo delle ulcere venose vale un principio generale che assume notevole forza: le linee guida pur non essendo assolutamente indiscutibili e vincolanti, costituiscono un importante indirizzo che, se seguito in modo appropriato e critico, influenzano positavemente i risultati (272).

VARICOCELE PELVICO O SINDROME DA CONGESTIONE PELVICA

Il varicocele è riscontrabile in circa il 20% degli uomini : la forma femminile definita in varie maniere – varicocele pelvico od ovarico; sindrome da congestione pelvica – nonostante sia stata trovata nel 15% di donne tra i 18 e 50 anni (267) è spesso trascurata nella diagnosi differenziale dei dolori addominali delle donne.

Espressione invece di insufficienza e stasi venosa del tutto peculiare per emodinamica, patogenesi e clinica, deve oggi essere considerata in ambito specialistico flebologico sia per le possibilità diagnostiche non invasive, sia per nuove possibilità terapeutiche (231, 312).

Il varicocele ovarico era già stato descritto da RICHET nel 1857; Taylor nel 1949 aveva evocato una sindrome da congestione pelvica; Chidekel nel 1968 mostrò il quadro in flebografia selettiva renale (in circa il 60% delle pazienti il sistema ovarico sinistro ed alcune o tutte le vene della pelvi si evidenziavano chiaramente per via retrograda con analogie al varicocele nell’uomo); ma la definizione di sindrome da congestione pelvica (SCP) e l’attenzione a questo quadro di IVC è da attribuire ad Hobbs (192).

La comparsa di varici nel territorio del plesso utero-vaginale e del legamento largo dell’utero deve essere anche considerata in relazione a considerazioni anatomico-funzionali e di patologie venose concomitanti.

Nel primo caso, l’importanza dell’anatomia del ritorno venoso è data dal trattarsi di vene avalvolate (a destra verso la vena cava, a sinistra verso la vena renale); dal tono vasocostrittore e delle pressioni intraaddominali e intratoraciche (manca la pompa muscolare come nelle gambe) .

Nel secondo caso, va ricordato come un circolo pelvico dilatato può esser legato a supplenza del ritorno venoso profondo nella più frequente evenienza di sindrome post-trombotica periferica, e dunque non aver significato clinico; oppure, può avere significato clinico essenzialmente sugli arti inferiori quale causa di varici recidive a terapia (166).

Molte donne con SCP riferiscono dolore pelvico in varie circostanze (ad esempio durante l’ovulazione, mestruazioni e durante la gravidanza). La sindrome da congestione pelvica può essere misconosciuta per lungo tempo e presentarsi con dolore di varia intensità che peggiora prima delle mestruazione ed aumenta durante gli sforzi, l’esercizio fisico e la prolungata permanenza in piedi.

Possono riscontrarsi anche varici del pavimento pelvico, vulvari e perianali, e varici atipiche alla parte posteriore della coscia che motivano l’irradiazione dei disturbi dalla pelvi verso la schiena e le gambe.

Pertanto, è necessario escludere altre cause come problemi infiammatori pelvici, infezioni urinarie, malattie infiammatorie intestinali (morbo di Crohn, diverticoliti, neoplasie e sindromi da colon irritabile), cause ortopediche (stenosi del canale sacrale, spondilolistesi, lesioni dei dischi intervertebrali) e malattie genitali (cisti ovariche, endometriosi, fibromi, polipi).

Deve essere lamentato, purtroppo, l’atteggiamento di alcuni ginecologi che si limitano alla prescrizione di analgesici o, peggio, alla visita neurologica o psichiatrica per sospetta malattia psicosomatica.

Lo studio diagnostico più corretto, a fronte dell’ipotesi clinica, viene fornito in maniera non invasiva dalla valutazione ultrasonografica o dalla flebografia (164). L’ecocolordoppler transvaginale, in particolare, può evidenziare sia le vene ovariche dilatate sia il reflusso, espressione dell’incontinenza venosa. Anche l’ angio-RM e TC devono essere prese in considerazione (98).

La flebografia non è più, oggi, solo diagnostica ma mezzo per una soluzione terapeutica: la sclero-embolizzazione endovasale per cutanea (253).

In ambito di trattamento, deve esser considerata la chirurgia. La legatura retroperitoneale della vena ovarica sinistra (lato di maggior frequenza), a circa 10-15 cm al di sotto del suo sbocco, può ora esser sostituita dal gesto chirurgico o scleroterapico in videolaparascopia. Si tratta però di casi selezionati.

Una review recente considera sufficiente in casi moderati l’ escissione delle varici vulvari e la scleroterapia; l’ escissione delle varici ovariche migliore dell’ embolizzazione; l’ embolizzazione miglior opzione per i reflussi alti (374).

In tutti i casi deve essere considerata la terapia farmacologica, oltre che ormonale, con farmaci

flebotropi, trattamento di prima scelta (60).

Una più rara sindrome di congestione pelvica con frequente osservazione di concomitanti varici

agli arti inferiori è rappresentata dalla compressione della vena renale sinistra e nota come

“sindrome da schiaccianoci”. Deve essere presa in considerazione nelle donne con sintomi da congestione pelvica ed ematuria e confermata mediante angio-RM o TC e determinazione del gradiente reno-cavale.

Come terapia è stata proposta una soluzione endovascolare con uso di stent (373).

Raccomandazioni:

La revisione della letteratura rivela che non può oggi essere presa in considerazione una terapia standard per la sindrome da congestione pelvica, ma ogni forma di trattamento deve essere individualizzata, non esistendo studi randomizzati.

Deve essere raccomandata maggior considerazione per questo tipo di disturbi sintomatologicamente

importanti : l’ esame clinico-anamnestico deve comprendere la visita ginecologica di specialista

attento al problema; l’ esame ultrasonografico è test di I livello,ma l’ angio-RM e TC risultano

indispensabili per lo studio dei reflussi alti. Grado C

MALFORMAZIONI VENOSE

Le malformazioni venose (MV) costituiscono l’anomalia vascolare più diffusa nella popolazione (49, 247, 252, 419).

Si tratta di malformazioni congenite caratterizzate dalla presenza di varie alterazioni morfo-strutturali e funzionali del sistema venoso centrale o periferico (144, 284, 426).

Recenti studi hanno consolidato l’ipotesi che la patogenesi delle MV sia collegata ad anomalie su base genetica di vari mediatori biochimici (tra cui l’angiopoietina) e dei rispettivi recettori di membrana che regolano l’interazione tra cellule endoteliali e muscolari lisce nelle fasi terminali dell’angiogenesi: ne consegue un difetto di maturazione con formazione di vene anomale la cui parete è costituita da un monostrato di cellule endoteliali piatte in assenza di una vera tunica muscolare liscia (65).

Le MV si presentano prevalentemente in forma sporadica in soggetti con anamnesi parentale negativa, ma sono descritte anche forme ereditarie a carattere familiare.

Si tratta nella maggioranza dei casi di malformazioni isolate, ma si osservano talora forme multifocali o addirittura disseminate a carattere sistemico.

Le localizzazioni superficiali cutanee e mucose sono prevalenti, ma si osservano frequentemente forme a sede intramuscolare o intraossea e qualsiasi organo può essere interessato (328, 358, 416).

La distribuzione per sede mostra una netta prevalenza delle MV periferiche (soprattutto a carico degli arti inferiori) e delle MV cranio-facciali (in particolare in regione temporo-masseterina, fronto-palpebrale, labiale e linguale). Altre localizzazioni di riscontro meno frequente sono quelle toraciche, addominali e genitali.

Le MV producono molteplici effetti secondari e/o complicazioni. Le ripercussioni estetiche e psicologiche costituiscono senz’altro l’effetto di più immediato riscontro, ma non sono le sole né tantomeno le più importanti.

Le MV possono infatti produrre gravi disordini funzionali sia nelle localizzazioni cranio-facciali (compromissione della deglutizione, della fonazione, della respirazione, della vista o dell’udito) che nelle localizzazioni periferiche (disturbi della funzione prensile, della postura e della deambulazione) con sequele invalidanti (49, 358, 391, 419).

Le complicazioni circolatorie sono rappresentate dalla stasi venosa, che conduce nelle forme periferiche a quadri di insufficienza venosa cronica, e dall’ipercoagulabilità loco-regionale con trombosi localizzate e possibile deplezione di fattori coagulativi. (tabella XI)

Tabella XI: Effetti fisiopatologici delle malformazioni venose (MV)

EsteticiInestetismi superficiali Deformazioni scheletriche
PsicologiciPaziente Familiari
FunzionaliDeficit motori: deglutizione fonazione respirazione prensione deambulazione
Deficit sensoriali: vista udito
EmodinamiciStasi venosa cronica  
CoagulativiTrombosi localizzate Coagulopatia da consumo

La storia naturale delle malformazioni venose è molto variabile. Generalmente sono evidenti fin dalla nascita ma a volte si manifestano tardivamente nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza. Nella maggior parte dei casi la massima potenzialità evolutiva si estrinseca all’epoca della pubertà con un notevole aumento di dimensioni, mentre in seguito la malformazione mostra un’espansione molto lenta che è legata soprattutto al progressivo rilasciamento dei tessuti circostanti.

Non bisogna però dimenticare che le ripercussioni emodinamiche delle anomalie venose possono rendersi clinicamente evidenti e subire un progressivo aggravamento nel corso degli anni, anche in assenza di un effettivo accrescimento della malformazione.

E’ utile classificare schematicamente le malformazioni venose in forme semplici e complesse (203, 391, 426), basandosi su criteri anatomo-patologici (tabella XII).

Tabella XII: Classificazione anatomo-clinica delle malformazioni venose (MV)

MV sempliciForme sottocutanee
Forme intramuscolari
Forme intraarticolari
MV complesseIpo-aplasie venose
Incontinenza valvolare congenita
Persistenza di vene embrionarie

Nelle MV semplici si riscontrano vene anomale abnormemente ectasiche con una parete estremamente sottile costituita da un monostrato di cellule endoteliali e da una tunica muscolare liscia marcatamente ipoplasica (vene lacunari).

Le forme sottocutanee sono le più frequenti e si caratterizzano per la presenza di vene malformate di tipo lacunare o reticolare nello spessore del tessuto adiposo ipodermico, a profondità variabile ma comunque al di sopra del piano fasciale.

Le forme intramuscolari sono più rare ma si riscontrano con sempre maggiore frequenza e si presentano generalmente come vene malformate di tipo lacunare, di notevole ampiezza ed estensione, situate in profondità tra i fasci di grossi ventri muscolari come ad esempio il quadricipite femorale o il bicipite brachiale.

Le forme intraarticolari sono le meno frequenti ma anche le più difficili da diagnosticare clinicamente: sono costituite da ampie lacune venose localizzate all’interno di un’articolazione, che producono una progressiva erosione della sinovia con lesioni degenerative dei capi articolari come tipicamente si osserva nell’articolazione femoro-tibiale.

Nelle MV complesse si associano varie anomalie venose congenite quali ipoplasia o agenesia del sistema venoso superficiale e/o profondo, incontinenza valvolare primaria, persistenza di vene embrionarie di tipo tronculare come la vena marginale.

Nelle forme con ipo-aplasia si osserva l’agenesia completa o un’ipoplasia con variabile estensione e riduzione di calibro a carico di uno o più segmenti del sistema venoso superficiale e/o profondo di un arto. Una delle anomalie che si osservano più frequentemente è rappresentata dall’agenesia dal tratto popliteo-femorale e/o femoro-iliaco con ipertrofia compensatoria della grande safena che in alcuni casi si continua tipicamente in una grossa vena sovrapubica cross-over confluente nell’asse iliaco controlaterale.

Nelle forme con incontinenza valvolare congenita si osserva una condizione di insufficienza venosa profonda primaria causata da un’atresia completa delle cuspidi di una valvola venosa oppure da un’alterazione displasica producente un difetto meccanico di chiusura dei lembi valvolari. Tali anomalie si riscontrano più spesso nella vena femorale superficiale, ma possono interessare anche la vena femorale profonda, la vena femorale comune e la vena ipogastrica.

Le forme con vene embrionarie sono caratterizzate dall’anomala presenza di tronchi venosi di grosso calibro che si sviluppano nei primi stadi della vasculogenesi e che normalmente regrediscono durante le ultime fasi di modellamento dell’albero vascolare.

Le vene embrionarie di più frequente osservazione sono rappresentate dalla vena ischiatica e dalla vena marginale.

La vena ischiatica si presenta come un grosso tronco venoso in continuità con la vena poplitea che decorre nella regione posteriore di coscia e termina nel bacino confluendo nell’asse iliaco omolaterale.

La vena marginale è costituita da un collettore venoso di grosso calibro che origina in regione malleolare esterna e decorre lungo la superficie laterale dell’arto inferiore per una distanza variabile sboccando in diversi tratti del circolo venoso profondo, come illustrato in una recente classificazione (Tabella XIII) delle molteplici varianti di confluenza della suddetta vena (392).

Tabella XIII: Classificazione delle varianti di sbocco della vena marginale

Sbocco in vena femorale superficiale
Sbocco in vena femorale profonda
Sbocco in vena femorale comune
Sbocco in vena iliaca esterna
Sbocco in vena glutea inferiore
Sbocco in vena ipogastrica
Sbocco in vena iliaca comune
Confluenze multiple

QUADRO CLINICO

Il quadro semeiologico e sintomatologico delle malformazioni venose è estremamente variabile in relazione alla sede, alla profondità, all’estensione ed alle alterazioni anatomo-emodinamiche presenti.

Le vene malformate si evidenziano nelle localizzazioni superficiali come tumefazioni sottocutanee di dimensioni e forma variabili, di consistenza molle-elastica, facilmente collassabili alla compressione, ricoperte da cute di colorito bluastro o violaceo, normotermica. Non possiedono una pulsatilità intrinseca ma presentano una caratteristica espansibilità in posizione antigravitaria, che dev’essere attentamente ricercata con opportune manovre semeiologiche. Alla palpazione è possibile apprezzare piccoli noduli di consistenza dura, che corrispondono a fleboliti derivanti da fenomeni di trombosi locale.

Le malformazioni venose intramuscolari o intraarticolari sono meno evidenti all’esame obiettivo, soprattutto se di piccole dimensioni, in quanto sono localizzate in profondità e sono spesso ricoperte da cute sana. Tuttavia un’attenta osservazione clinica rileva generalmente una tipica asimmetria rispetto alla regione anatomica corrispondente dell’emisoma controlaterale, che si accentua in posizione declive.

Le vene embrionarie si presentano come tronchi venosi ectasici a decorso tortuoso e irregolare, che si estendono dalle regioni acrali per una lunghezza variabile verso la radice dell’arto.

Nelle forme con ipo-aplasia del circolo venoso profondo o con incontinenza valvolare congenita si evidenziano i segni clinici dell’ipertensione venosa cronica: edema, varici secondarie, dermoipodermite ed ulcere da stasi.

Alterazioni dello scheletro e dei tessuti molli con ipertrofia o ipotrofia sono meno frequenti rispetto alla malformazioni artero-venose, ma possono essere presenti soprattutto nelle localizzazioni periferiche (247, 268, 358).

Le malformazioni venose si associano frequentemente ad anomalie del sistema linfatico, per cui si osservano spesso segni di linfostasi.

Nelle forme miste capillaro-venose si riscontra tipicamente l’associazione di vene malformate sottocutanee con un angioma piano superficiale.

La triade costituita da una malformazione venosa periferica complessa, da una malformazione capillare cutanea e dall’ipertrofia dello scheletro e dei tessuti molli di un arto definisce la cosiddetta sindrome di Klippel-Trenaunay (29, 56, 190).

La coesistenza in un arto di malformazioni capillaro-venose e linfatiche multifocali con anomalie dell’apparato muscolo-scheletrico e dei nervi periferici configura la sindrome di Proteo, caratterizzata da notevole ipertrofia e deformazione dell’arto colpito.

L’associazione di una malformazione venosa superficiale e di encondromi multipli delle estremità superiori o inferiori, che inducono marcate deformazioni scheletriche con accorciamento dell’arto e possono talora degenerare in condrosarcomi, costituisce la cosiddetta sindrome di Maffucci (57).

La presenza di malformazioni venose sottocutanee multiple può costituire in casi rari un elemento della cosiddetta sindrome di Bean, caratterizzata dalla simultanea presenza di malformazioni venose disseminate del tubo gastro-enterico.

DIAGNOSI

La diagnosi di malformazione venosa è generalmente posta all’atto dell’esame clinico.

Tuttavia ciascun paziente dev’essere sottoposto ad un’accurata valutazione diagnostica clinico-strumentale preoperatoria, in quanto l’indicazione al tipo di trattamento è strettamente correlata ad alcune caratteristiche morfologiche e funzionali della MV che devono essere adeguatamente studiate: sede e rapporti anatomici, estensione e dimensioni, effetti emodinamici, pervietà e continenza del circolo venoso superficiale e profondo (215, 127).

E’ necessario pertanto applicare un protocollo diagnostico rigorosamente standardizzato che si fonda sulle seguenti indagini strumentali: rx standard, ecocolordoppler, tomografia computerizzata (TC), risonanza magnetica (RM), flebografia (Tabella XIV).

Tabella XIV: Approccio diagnostico al paziente con malformazione venosa

Malformazione venosa cranio-faccialeRx cranio Ecocolordoppler Flebografia diretta RM cranio-facciale
Malformazione venosa perifericaRx comparativa arti Ecocolordoppler Flebografia ascendente Flebografia discendente Flebografia diretta RM o TC arto interessato

L’rx standard consente di evidenziare segni indiretti delle malformazioni venose quali i fleboliti o eventuali displasie e dismetrie scheletriche associate.

L’ecocolordoppler rappresenta l’esame preliminare, utile per studiare l’estensione della malformazione venosa, la pervietà e la continenza dei sistemi venosi superficiale e profondo, la morfologia e la funzionalità delle valvole venose, e per escludere la presenza di fistole artero-venose (197, 406).

La TC e la RM consentono di definire in maniera più accurata l’estensione della malformazione e i suoi rapporti anatomici con organi interni e strutture muscolo-scheletriche, soprattutto nelle localizzazioni profonde (124).

L’iter diagnostico viene completato dalla flebografia, che è indispensabile al fine di ottenere un quadro morfologico ed emodinamico completo della malformazione e dell’intero sistema venoso superficiale e profondo. E’ necessario eseguire l’indagine sia in fase ascendente che in fase discendente e per puntura diretta della malformazione, in quanto complementari per le informazioni che sono in grado di fornire (215, 392, 127).

La fase ascendente esplora la pervietà e la conformazione dei principali assi venosi, evidenziando con grande accuratezza diagnostica la presenza di eventuali ipo-aplasie.

La fase discendente indaga la continenza valvolare dimostrando un’eventuale insufficienza venosa primaria e stabilendone il grado in base all’opacizzazione in via retrograda dell’asse venoso profondo.

L’indagine viene completata da uno studio emodinamico selettivo mediante puntura diretta, che è imprescindibile nell’esame di vene malformate di tipo lacunare con flusso a bassa velocità o di vene embrionarie che possono in tal modo essere visualizzate in tutto il loro decorso fino alla confluenza.

L’uso di lacci e bracciali emostatici o altri sistemi di compressione selettiva possono essere di grande utilità per studi selettivi del circolo venoso in tutte le fasi della flebografia.

Tale procedura può essere eseguita anche intraoperatoriamente in quanto consente un monitoraggio in tempo reale della malformazione venosa nel corso del trattamento scleroembolizzante e permette un controllo post-operatorio immediato dei risultati ottenuti.

TERAPIA

Il trattamento delle MV pone notevoli problematiche al chirurgo vascolare, trattandosi di malformazioni estremamente complesse che si manifestano in età pediatrica o giovanile e sono gravate da severe implicazioni emodinamiche, funzionali ed estetiche.

Obiettivi del trattamento sono la regressione parziale o completa della malformazione, la riduzione o scomparsa dei segni di insufficienza venosa, la riabilitazione funzionale dell’arto interessato, l’eliminazione o il ridimensionamento di vari inestetismi.

La terapia è subordinata in maniera imprescindibile ad una adeguata e completa valutazione diagnostica preoperatoria: i risultati degli esami strumentali devono guidare nel singolo caso la programmazione della strategia terapeutica, scegliendo e combinando opportunamente tra loro le procedure chirurgiche e/o percutanee più idonee.

Le indicazioni e la forza delle raccomandazioni per le varie opzioni terapeutiche nelle diverse forme di malformazioni venose possono essere schematizzate in una tabella riassuntiva (Tabella XV).

Tabella XV: Condotta terapeutica nel paziente con malformazione venosa

Malformazione venosa cranio-faccialeScleroterapia percutanea (++) Scleroterapia flebo-guidata (++++) Chirurgia (+)
Malformazione venosa periferica semplice sottocutaneaScleroterapia percutanea (+++) Scleroterapia flebo-guidata (+++) Chirurgia (++)
Malformazione venosa periferica semplice intramuscolareScleroterapia percutanea (+) Scleroterapia flebo-guidata (++++)
Malformazione venosa periferica semplice intraosseaScleroterapia flebo-guidata (++++)
Malformazione venosa periferica complessa con ipo-aplasiaAstensione (+++) Chirurgia (+)
Malformazione venosa periferica complessa con incontinenza valvolareChirurgia (++)
Malformazione venosa periferica complessa con vena embrionariaChirurgia (+++) Scleroterapia flebo-guidata (++) Scleroterapia percutanea (+)

La scleroterapia può essere effettuata per via percutanea diretta nelle MV superficiali, isolate e di modeste dimensioni. Nelle forme più estese e a localizzazione profonda è preferibile eseguire la scleroterapia sotto controllo radioscopico, utilizzando la tecnica della flebografia per puntura diretta: in tal modo è possibile avere un rigoroso controllo della sede di iniezione e della diffusione del mezzo sclerosante e si può inoltre ottenere una verifica immediata dei risultati della sclerosi.

Si utilizzano vari mezzi sclerosanti in rapporto alle caratteristiche morfologiche, alla sede anatomica e all’estensione della malformazione (50, 177, 306).

In presenza di vene malformate reticolari e/o di piccolo calibro, soprattutto nelle localizzazioni al labbro e alla lingua, si preferisce l’uso del polidocanolo in soluzione al 2-3%.

Nei casi di vene malformate di grosso calibro ed ampia estensione (vene lacunari), di frequente riscontro nelle localizzazioni temporo-mandibolari, conviene optare per l’utilizzo di agenti sclerosanti più potenti come l’etanolo al 95% e l’Ethiblocâ (377, 395, 240, 241).

Il dosaggio dell’agente sclerosante viene stabilito in proporzione alle dimensioni delle vene malformate, considerando come massimale la dose di 2 ml / Kg di peso corporeo.

La tecnica della scleroterapia dev’essere estremamente rigorosa, in quanto l’iniezione accidentale del mezzo sclerosante in sede extravasale può provocare molteplici e gravi complicazioni: tromboflebiti, necrosi cutanea, granulomi, deficit neurologici.

E’ da ritenersi un normale e reversibile effetto secondario la comparsa di una reazione flogistico-edematosa loco-regionale di variabile entità ed estensione, che generalmente regredisce nel volgere di alcune settimane con l’ausilio di una opportuna terapia antiinfiammatoria corticosteroidea.

La chirurgia riveste comunque un ruolo fondamentale nella complessa strategia di trattamento delle malformazioni venose (203, 358, 419, 122).

La procedura chirurgica più frequente consiste nella asportazione di vene malformate di tipo lacunare o reticolare degli arti inferiori, che deve essere preferibilmente eseguita con tecnica mini-invasiva praticando micro-incisioni cutanee e utilizzando speciali uncini da flebectomia.

In caso di persistenza di una vena embrionaria a morfologia tronculare l’unica possibilità terapeutica consiste nella rimozione chirurgica (, 36, 302, 392), che dev’essere eseguita anche in questi casi con la minore invasività: laddove in passato si praticavano ampie incisioni lungo la superficie esterna dell’arto, attualmente si eseguono interventi esteticamente più accettabili con incisioni cutanee di minima. A tal fine è indispensabile un accurato mappaggio preoperatorio della vena embrionaria e può essere utile, se possibile, il ricorso ad appositi mini-stripper.

Nelle forme con incontinenza valvolare congenita, qualora lo studio ecografico preoperatorio dimostri la presenza di lembi valvolari displasici, è possibile effettuare la ricostruzione chirurgica dell’apparato valvolare venoso (315) mediante venoplastica esterna con protesi in dacron o in PTFE armato: il corretto posizionamento della fascia protesica e la scelta della calibrazione più idonea consentono di ripristinare la continenza valvolare mediante l’accostamento dei lembi displasici, preservando al tempo stesso la pervietà dell’asse venoso.

Nelle forme con ipoplasia segmentaria del circolo venoso profondo secondaria a compressione estrinseca da parte di bande fibro-muscolari anomale, come spesso si osserva nel cavo popliteo, si può eseguire un intervento di decompressione allo scopo di favorire lo sviluppo dell’asse venoso ipoplasico (391).

In presenza di un’agenesia venosa profonda con ipertrofia compensatoria di vene superficiali come la grande safena e le sue collaterali, sussiste per ovvie ragioni una controindicazione assoluta all’asportazione chirurgica di vene malformate che svolgono una funzione vicariante sul piano emodinamico.

In definitiva, la strategia terapeutica dev’essere opportunamente ragionata e programmata nel singolo paziente sulla base dei reperti clinico-strumentali (204) con particolare riferimento alla sede anatomica, alla morfologia e all’estensione della malformazione venosa, nonchè all’architettura e all’emodinamica dell’intero circolo venoso loco-regionale.

La sede della malformazione può essere determinante per la scelta del trattamento: nelle localizzazioni facciali e genitali si preferisce la scleroterapia per le minori implicazioni estetiche e funzionali, laddove nelle forme periferiche prevale la chirurgia per la maggiore radicalità.

Il grado di complessità e le dimensioni delle malformazioni venose devono orientare in maniera direttamente proporzionale verso un approccio chirurgico: nelle MV semplici o isolate si pratica quale trattamento elettivo la scleroterapia percutanea endovascolare su guida flebografica, nelle MV complesse è necessario eseguire interventi chirurgici correttivi e/o ricostruttivi a seconda delle alterazioni anatomo-emodinamiche presenti.

Occorre infine sottolineare che nella maggioranza dei casi di malformazioni venose è preferibile attuare una terapia combinata, in quanto l’associazione di trattamenti chirurgici e percutanei consente di ottenere migliori risultati clinici sia morfologici che funzionali.

Gli interventi di legatura e asportazione di vene malformate possono essere vantaggiosamente combinati ad un trattamento sclerosante preliminare o intraoperatorio per ottenere con tecnica mini-invasiva l’obliterazione di vene displasiche di tipo lacunare o reticolare di modeste dimensioni.

Analogamente l’asportazione del tronco principale di una vena embrionaria può essere perfezionata mediante la sclerosi percutanea delle numerose collaterali e soprattutto del suo tratto terminale in prossimità della confluenza nel sistema venoso profondo.

In conclusione la chirurgia e la scleroterapia percutanea non sono da considerarsi alternative, ma possono utilmente combinarsi nella complessa e delicata strategia di trattamento delle malformazioni vascolari di tipo venoso.

E’ importante sottolineare infine come, soprattutto nei casi di MV molto estese, siano spesso necessari numerosi trattamenti chirurgici e/o scleroterapici sequenziali per ottenere la completa regressione della malformazione.

Raccomandazioni:

E’ necessario eseguire un’accurata valutazione diagnostica pre-operatoria che includa le seguenti indagini strumentali: rx diretta, ecocolordoppler, tomografia computerizzata (TC) o risonanza magnetica (RM), flebografia – Grado C

E’ consigliabile eseguire la flebografia sia in fase ascendente che in fase discendente e per puntura diretta della malformazione venosa, al fine di ottenere una valutazione morfologica ed emodinamica completa – Grado C

L’arteriogarfia non è di alcuna utilità nelle malformazioni vascolari di tipo venoso e dovrebbe pertanto essere evitata – Grado C

La scleroterapia consente un trattamento efficace, a ridotta invasività e a basso rischio delle MV, per cui dev’essere considerata una valida alternativa o un utile complemento della chirurgia, soprattutto nelle localizzazioni cranio-facciali, genitali e periferiche – Grado C

Nelle MV estese o a localizzazione profonda è preferibile eseguire la scleroterapia sotto controllo radioscopico, mediante una flebografia intra-operatoria per puntura diretta – Grado C

Il ricorso alla chirurgia è utile soprattutto nelle forme tronculari con persistenza di vene embrionarie, la cui asportazione dovrebbe essere eseguita con tecnica mini-invasiva dopo un accurato mappaggio ecografico pre-operatorio – Grado C

Nelle forme con insufficienza venosa profonda congenita da displasia valvolare può essere vantaggioso eseguire un intervento di valvuloplastica – Grado C

In presenza di una MV la strategia terapeutica dovrebbe essere opportunamente ragionata e programmata nel singolo paziente sulla base dei reperti clinico-strumentali, con particolare riferimento alla localizzazione, alla morfologia e all’estensione della malformazione, nonché al quadro emodinamico distrettuale. Grado C

Nella maggioranza dei casi è preferibile attuare una terapia combinata, in quanto l’associazione di trattamenti chirurgici e percutanei può migliorare i risultati clinici – Grado C

Nelle MV molto estese è utile eseguire trattamenti chirurgici e/o scleroterapici sequenziali, per ottenere risultati soddisfacenti con una riduzione dei rischi – Grado C

E’ fondamentale la scelta del momento più idoneo per l’intervento, in funzione dello sviluppo somatico del paziente, dell’evoluzione della malformazione e delle sue ripercussioni emodinamiche – Grado C

QUALITA’ DELLA VITA (QL)

Sono ormai acquisite le basi per considerare la QL (Quality of Life) tra gli outcomes terapeutici nell’IVC (161; 228; 106). L’attuale metodo di misurazione generica, considerato gold standard negli USA ed in Europa, è il MOS (Medical Outcomes Study) SF36 (Short Form Health Survey- 36) o il Nottingham Health Profile (NHP) (390, 425).

Specifici questionari (Q.) per l’IVC ( Aberdeen Q.; CVIQ1 e CVIQ2 ; Tubingen Q.) sono stati sviluppati a partire dal 1992 con risultati sotto questo aspetto sorprendenti per una malattia spesso sottostimata dalla categoria medica. L’IVC interferisce profondamente con la vita di ogni giorno del paziente e risulta enfatizzato l’impatto dell’IVC sulle capacità locomotorie quanto l’efficacia della farmacoterapia (218, 234). Tuttavia Q. specifici sono disponibili, al momento, solo dietro autorizzazione e pagamento.

Anche i pazienti con ulcere venose possono essere valutati con appositi questionari (196).

Più complessa risulta la valutazione di trial randomizzati controllati e dalla QL sugli esiti della chirurgia (384). Attualmente peraltro sono in corso esperienze in tale campo specie per la valutazione di nuove tecniche chirurgiche sull’IVC come la legatura endoscopica delle perforanti (SEPS) e la valvuloplastica.

E’ auspicabile l’ uso clinico nei follow- up di Q. per la QL (21, 222, 251, 382)

L’utilizzo della terapia compressiva nella prevenzione, cura e profilassi della recidiva dell’Ulcera venosa ha dimostrato chiara efficacia clinica ed economica rispetto alla riduzione dei costi per la cura della fase acuta della malattia e delle sue frequenti recidive. Inoltre, recenti indagini rivolte ad indagare le conseguenze sulla QL nei portatori di IVC grave (CEAP 3-4-5) hanno dimostrato risultati significativamente alterati nelle scale relative alla salute fisica ed emotiva con importante impatto socio-economico. Per tali ragioni è auspicabile che il Servizio Sanitario si faccia carico dei costi della terapia compressiva e che questa venga riconosciuta in regime di rimborsabilità almeno per le classi CEAP più avanzate (21, 219)

Raccomandazioni:

L’analisi dei parametri clinici di valutazione della qualità di vita deve utilizzare criteri psicometrici standard per riproducibilità, validità e accettabilità. L’SF-36 e l’NPH si sono dimostrati di rilevo scientifico anche per l’IVC – Grado B

E’ auspicabile che anche per i Q. specifici , disponibili in un’ampia varietà di lingue per essere usati nel corso di studi internazionali e la normale attività clinica, sia liberalizzato l’ uso.

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  • Zimmet SE: Leg ulcers. J Am Acad Derm 1992;27:487-8.
  • Zini F: Quando non bendare. Flebologia 1997; VIII: 125-126
  • Zuccarelli F., Ducros JJ., Egal G., et Al : Efficacité clinique du Veinotonyl 75 dans l’insuffisance veineuse des membres inférieurs. Arteres Veines 1993; 12: 375-9

LINEE GUIDA SULLA DIAGNOSI, PREVENZIONE E TERAPIA DELLA MALATTIA TROMBOEMBOLICA

Task Force:

G.B. Agus, C. Allegra, G. Arpaia, G. Botta, V. Gasbarro, S. Mancini

con la collaborazione di M. Bonifacio e C. Cimminiello

LEGENDA

ACO: Anticoagulanti Orali

APA: Anticorpi Antifosfolipidi

APCR: Resistenza alla Proteina C Attivata

APSAC: Complesso Attivatore Acilato Plasminogeno-Streptokinasi

CBS: Cistionina Beta-Sintetasi

CPI: Compressione Pneumatica Intermittente

EBPM: Eparina a Basso Peso Molecolare

ENF: Eparina non Frazionata

GAG: Glucosaminoglicani

GEC: Compressione Elastica Graduata

HRT: Terapia Ormonale Sostitutiva

IMA: Infarto Miocardio Acuto

INR: International Normalised Ratio

IRC: Insufficienza Renale Cronica

IUA: Unione Internazionale di Flebologia

IVC: Insufficienza Venosa Cronica

MTHFR: Metilene Tetra-Idro-Folato-Reduttasi

Rt-PA: Attivatore Tissutale del Plasminogeno Ricombinante

SK: Steptokinasi

TEV: Tromboembolismo Venoso

TVP: Trombosi Venosa Profondaù

TVPDI: Trombosi Venosa Profonda Distale Isolata

TVS: Trombosi Venosa Superficiale

UK: Urokinasi

  1. PROFILASSI DEL TROMBOEMBOLISMO VENOSO

Le Linee Guida elaborate dalla Unione Internazionale di Angiologia (IUA) e pubblicate nel marzo ’97 su International Angiology, costituiscono il riferimento obbligato per Linee Guida nazionali, necessariamente integrate da quanto emerso dalle acquisizioni successive. (83; 59; 38).

Sono state considerate le seguenti popolazioni a rischio:

  1. pazienti di chirurgia: generale, vascolare, urologica, ginecologica, neurochirurgica, ortopedica, traumatologica e laparoscopica.
  2. pazienti con affezioni mediche: IMA, ictus ischemico ed emorragico e pazienti di medicina generale.

Le categorie di rischio di Tromboembolismo Venoso (TEV)

La conoscenza dei fattori di rischio consente di classificare i pazienti in base alla probabilità di sviluppare un evento tromboembolico venoso. Il criterio principale sul quale basare la scelta tra i diversi mezzi di profilassi farmacologici e/o meccanici è il grado di rischio complessivo del singolo paziente. Tale grado è dato dall’interazione tra livello di rischio oggettivo legato alla specifica condizione clinica chirurgica e medica, e condizioni individuali che incrementano il rischio (età, obesità, neoplasie, pregresso tromboembolismo venoso, varici e condizioni trombofiliche congenite o acquisite). Nel caso della chirurgia, il rischio è inoltre influenzato dalla durata dell’intervento, dal tipo di anestesia, dalla immobilità pre e postoperatoria, dal grado di idratazione e da eventuali sepsi.

In base a tali criteri è possibile suddividere i pazienti in classi di rischio basso, moderato, alto e molto alto (tab. I).

Tabella 1. — Classificazione del livello di rischio (38).

Livello di rischio Evento tromboembolico, %

Trombosi Trombosi

di una vena di una vena EP fatale EP clinica

del polpaccio prossimale

Basso 2 0,4 0,2 0,002

(chirurgia minore* non complicata in pazienti <40 anni senza fattori di rischio aggiuntivi**)

Moderato 10-20 2-4 1-2 0,1-0,4

(qualsiasi intervento chirurgico in pazienti di 40-60 anni senza fattori di rischio aggiuntivi; chirurgia maggiore*** in pazienti <40 anni senza fattori di rischio aggiuntivi; chirurgia minore in

pazienti con fattori di rischio)

Alto 20-40 4-8 2-4 0,4-1,0

(chirurgia maggiore in pazienti >60 anni senza fattori di rischio aggiuntivi oppure di 40-60 anni con fattori di rischio aggiuntivi; pazienti con IM; pazienti medici con fattori di rischio)

Molto alto 40-80 10-20 4-10 0,2 – 5

(chirurgia maggiore in pazienti >40 anni con pregressa trombo-embolia venosa, neoplasia o stato ipercoagulativo; pazienti sottoposti a interventi di chirurgia ortopedica maggiore d’elezione agli arti inferiori, frattura dell’anca, ictus, trauma multiplo o lesione al midollo spinale)

* Chirurgia minore: tutti gli interventi di durata minore di 45 minuti, ad eccezione della chirurgia addominale

** Fattori di rischio tromboembolico individuali e aggiuntivi, età, peso, varici, pregressa TVP, neoplasie, condizioni trobofiliche congenite o acquisite, malattie infettive, immobilità

* ** Chirurgia maggiore: tutti gli interventi di durata superiore ai 45 minuti o di chirurgia addominale

Pazienti di chirurgia generale, urologica, ginecologica e vascolare

Eparina non frazionata (ENF) a basse dosi

L’eparina non frazionata a basse dosi (5000 UI ogni 8 o 12 ore sottocutanea), riduce sia la TVP (livello di evidenza di Grado A) che le EP fatali (livello di evidenza di Grado 1A).

Eparine a basso peso molecolare (EBPM)

Riducono non solo l’incidenza di EP fatali, ma anche la mortalità complessiva in pazienti chirurgici, rispetto ai controlli senza profilassi e mostrano pari efficacia rispetto alla ENF nella profilassi delle trombosi venosa profonda post chirurgica, offrendo un miglior profilo di sicurezza rispetto alle complicanze emorragiche, a patto di impiegare le EBPM a dosaggi inferiori a 4000 U anti Xa. Per questo motivo e per la loro maneggevolezza e semplicità d’impiego, le EBPM hanno assunto il ruolo di anticoagulanti di scelta nella prevenzione in chirurgia (73)

Altri metodi di profilassi farmacologica

Destrano: seppure vari studi ne abbiamo dimostrato una certa efficacia rispetto alla non profilassi, non è utilizzabile come mezzo di profilassi per il rischio di sovraccarico cardiaco e di reazione anafilattica.

ASA: La metanalisi dell’AntiPlatelet Trialists’ Collaboration (17) prima e poi il Pulmonary Embolism Prevention Trial (PEP) (82), che impiegava l’ASA alla dose di 160 mg die, condotto in chirurgia ortopedica maggiore, hanno riportato una certa efficacia dell’aspirina, nella profilassi del TEV. Tale efficacia è comunque minore rispetto a quella dei farmaci anticoagulanti, per cui l’aspirina, nonostante il minor costo, non può essere raccomandata per la profilassi del TEV. (96)

Gli eparinoidi sono miscele di glucosaminoglicani (GAG), distinti dalle eparina per composizione diversa e poco definita, ottenuti in genere come sottoprodotto nella preparazione su scala industriale dell’eparina. L’eparina e l’eparansolfato sono i due unici GAG dei tessuti umani che contengono la particolare sequenza specifica pentasaccaridica in grado di interagire con l’antitrombina III. Le differenze tra eparina ed eparansolfato sono espresse dalla diversa composizione chimica che si riflette sulle corrispettive attività biologiche, prima fra tutte la densità delle catene pentasaccaridiche specifiche per la ATIII, di cui l’eparina è nettamente più ricca.

Questa categoria di farmaci non è supportata da evidenze scientifiche che ne giustifichino l’uso in corso di TVP.

Nuovi farmaci antitrombotici: Sono stati riportati dati sull’efficacia di inibitori diretti della trombina (in quanto agiscono senza necessità di legame con l’antitrombina) sia estrattivi (Irudina) che sintetici (Argobatran) .

Tra gli inibitori diretti della trombina , l’irudina pur avendo dimostrato una maggiore efficacia delle EBPM e della ENF nella profilassi del TEV nei pazienti sottoposti a chirurgia ad alto rischio (35) è limitata nella diffusione dal suo costo elevato, molto superiore al costo delle EBPM e dal timore di complicanze emorragiche potenzialmente più frequenti (rilevate in campo cardiologico) (26). Un altro inibitore diretto della trombina dal meccanismo d’azione differente rispetto all’irudina è in avanzata fase di sviluppo: si tratta del melagatran,, una piccola molecola che blocca il sito attivo della trombina mediante un legame di tipo non covalente. Melagatran è somministrabile per via parenterale ma il suo profarmaco – ximelagatran – è somministrabile per os. L’effetto anticoagulante di ximelagatran è altamente riproducibile e rende superfluo il monitoraggio di laboratorio. Sono stati effettuati studi nella profilassi della TVP nella chirurgia ad elevato rischio in confronto ad EBPM ed a warfarin e studi nel trattamento della TVP in fase acuta e nella profilassi dopo la fase acuta: da queste sperimentazioni si ricava una efficacia di melagatran/ximelagatran almeno comparabile con quella dei trattamenti finora disponibili ed una soddisfacente sicurezza sul versante emorragico. (34)

Il pentasaccaride sintetico Fondaparinux è un inibitore puro del fattore Xa senza effetto sulla trombina (93). Fondaparinux, somministrato 6 -8 ore dopo interventi di chirurgia ortopedica maggiore (protesi d’anca, di ginocchio, frattura d’anca), ha dimostrato di possedere una maggiore efficacia nella riduzione del rischio tromboembolico rispetto ad enoxaparina somministrata 12 ore prima o 12-24 ore dopo l’intervento (36). Restano da chiarire in modo definitivo gli aspetti di sicurezza sul versante delle emorragie legati all’impiego proposto (6 ore dopo l’intervento) di fondaparinux. (102)

Compressione pneumatica intermittente (CPI) e compressione elastica graduata (GEC)

Vedi capitolo “Compressione” Linee-Guida I.V.C.

Pazienti di neurochirurgia

I pazienti neurochirurgici dovrebbero essere considerati eleggibili alla profilassi con metodi meccanici.

In pazienti sottoposti a neurochirurgia elettiva intracranica sono stati condotti studi di profilassi prevalentemente con mezzi fisici (Compressione Pneumatica Intermittente, calze a compressione graduata) per l’elevato rischio di emorragie intracraniche. Tutti riportano risultati favorevoli rispetto ai controlli. Tuttavia, al contrario della Compressione Pneumatica Intermittente, non esistono dati certi che le calze elastiche da sole possano rappresentare un valido mezzo di profilassi.

L’efficacia e sicurezza dell’eparina a basso peso molecolare è stata valutata in due studi recenti che impiegavano rispettivamente nadroparina (71) ed enoxaparina (2). Ambedue gli studi hanno confrontato EBPM alla dose impiegata in chirurgia generale ma associata a calze elastiche graduate (GEC) versus calze elastiche da sole, mostrando una riduzione significativa di TVP nel regime con EBPM più GEC rispetto alla sola GEC, senza significativo aumento del sanguinamento maggiore (2).

Pazienti di chirurgia ortopedica e traumatologica

I pazienti sottoposti a chirurgia ortopedica maggiore (protesica d’anca o di ginocchio, frattura d’anca) sono da considerare a rischio tromboembolico elevato o molto elevato. Meno è noto circa il rischio di TEV in caso di traumatologia minore o per le procedure artroscopiche

In assenza di profilassi, la chirurgia elettiva o traumatica d’anca si associa a TVP in circa il 50% dei casi, di cui circa la metà con coinvolgimento degli assi venosi prossimali.

La profilassi con mini dosi di anticoagulanti orali non è risultata efficace, mentre l’anticoagulazione orale a dosi aggiustate a mantenere INR tra 2-3 aumenta l’efficacia, ma comporta notevoli difficoltà di gestione (evidenza di Grado A). Nonostante alcune recenti evidenze di segno contrario, la sola profilassi non farmacologica con CPI o con calze elastiche a compressione graduata non sembra possedere adeguata efficacia. La CPI è di limitata efficacia nel prevenire le TVP prossimali e pone problemi di compliance. (38)

Nei pazienti ortopedici sottoposti ad artroprotesi elettiva d’anca l’eparina non frazionata a dosi fisse (5000 UI /8 o /12 ore) è risultata efficace nel ridurre sia l’incidenza di TVP che di EP (evidenze di Grado A). L’incremento delle dosi favorisce l’incremento del rischio emorragico. Aggiustare la dose in base ai test coagulativi, può migliorare l’efficacia, ma comporta una maggiore difficoltà di gestione e un maggiore rischio emorragico.

Nella profilassi in artroprotesi d’anca, le EBPM appaiono più efficaci degli anticoagulanti orali anche se il rischio emorragico legato al loro impiego può essere più elevato.

Le metanalisi degli studi di confronto condotti con EBPM vs ENF in chirurgia ortopedica maggiore hanno dimostrato la superiore efficacia delle EBPM nella prevenzione della TVP e dell’EP. Secondo la maggior parte dei trials controllati, il rischio assoluto di TVP nell’artroprotesi d’anca e di ginocchio rimane alta nonostante la profilassi. (70)

Uno studio (52) ha dimostrato l’efficacia di una bassa dose di EBPM nella prevenzione della TVP in pazienti cui veniva applicato un apparecchio gessato per fratture di ossa lunghe o lesioni di parti molli. Il trattamento era protratto per tutto il periodo di applicazione del gesso. Non si verificavano complicanze emorragiche in eccesso nei trattati anche se la riduzione più considerevole delle TVP era relativa a quelle distali.

Non esistono studi conclusivi circa l’efficacia della profilassi del TEV in artroscopia. Appare probabile che la proocedura artroscopica comporti un rischio non trascurabile di TVP (fino al 18%) ( 10; 23) e che le procedure in cui l’applicazione del laccio sia prolungata sono a maggior rischio. Le evidenze a favore dell’impiego di EBPM in questi pazienti sono basate su studi che rilevavano l’end-point tromboembolico ricorrendo a metodiche poco sensibili (ecodoppler e non flebografia) (10)

Pazienti politraumatizzati

I pazienti politraumatizzati sono una categoria di soggetti ad elevato rischio di TEV con frequenze di TVP che superano il 50% e con le TVP prossimali di poco inferiori al 20% Tale elevato rischio di TEV in questi pazienti, che non di rado sono anche ad alto rischio emorragico, pone il problema tutt’ora irrisolto dello screening non invasivo per trombosi venosa profonda (97). Esso consentirebbe infatti di assegnare il trattamento antitrombotico farmacologico solo ai soggetti affetti da TEV. Tuttavia, la non elevata sensibilità dei test non invasivi per le trombosi venose profonde asintomatiche e la frequente impossibilità di esplorazione completa con metodica ecodoppler dei pazienti con politrauma sono argomenti a favore della non proponibilità dello screening indiscriminato a tutti i pazienti politraumatizzati, tale screening potrebbe tuttavia essere riservato a soggetti selezionati (es. che non abbiano ricevuto una profilassi, che ne abbiano ricevuta una non ottimale o che debbano essere sottoposti a procedure che aumentano ulteriormente il rischio tromboembolico). Negli studi condotti l’eparina a basso peso molecolare si è rivelata più efficace dell’ eparina non frazionata e di mezzi meccanici (compressione pneumatica intermittente IPC e calze a compressione graduata ES): l’avvio di tale trattamento dovrebbe avvenire entro le 36 ore dal trauma o prima se le condizioni di rischio emorragico lo consentano (37, 39).

In pazienti sottoposti a neurochirurgia elettiva intracranica sono stati condotti studi di profilassi prevalentemente con mezzi fisici (Compressione Pneumatica Intermittente, calze a compressione graduata) per l’elevato rischio di emorragie intracraniche. Tutti riportano risultati favorevoli rispetto ai controlli. (103)

Le controindicazioni assolute a iniziare profilassi con EBPM sono rappresentate da: 1) emorragia intracranica, 2) trauma spinale incompleto associato a ematoma perispinale, 3) emorragia incontrollabile in atto, 4) deficit coagulativo. La presenza di trauma cranico senza emorragia evidente, lacerazioni o contusioni di vari organi interni quali polmoni, fegato, milza, reni o la presenza di ematoma retroperitonele non controindicano di per se la profilassi con EBPM.

L’impiego profilattico dei filtri cavali rimane controverso anche se l’introduzione di filtri permanenti forniti di dispositivo che ne consente la rimozione sembra allargare le indicazioni a tale tipo di profilassi su cui non sono ancora disponibili studi adeguati. (89; 22)

Pazienti di chirurgia laparoscopica

La chirurgia laparoscopica dovrebbe essere considerata a basso rischio, salvo che il paziente presenti fattori individuali di rischio trombotico.

Una recente rassegna della letteratura (10) sulla frequenza di TVP postoperatoria dopo interventi di colecistectomia laparoscopica evidenzia una assoluta disparità di risultati che tuttavia sono spesso inficiati dalle casistiche poco numerose e da metodi di rilevazione della TVP di scarsa affidabilità. La conclusione degli autori circa il rischio di TVP in chirurgia laparoscopica è che esso può essere considerato basso e che l’impiego della profilassi non è probabilmente giustificato.

La limitatezza numerica degli studi non consente però di trarre conclusioni definitive. L’attivazione di fattori procoagulanti documentata anche in corso di procedure laparosopiche (58), la durata dell’intervento in posizione anti Trendelemburg e la pressione del pneumoperitoneo sembrano fattori favorenti le complicanze tromboemboliche che, anche se non se ne conosce a tutt’oggi la reale incidenza, debbono indurre a considerare con prudenza l’asserzione secondo cui non sono necessarie particolari precauzioni per i pazienti sottoposti a laparoscopia (14).

Anestesia Regionale

L’anestesia regionale (spinale o epidurale) non giustifica l’omissione di misure di profilassi specifica del TEV. Sebbene non esistano evidenze inconfutabili che la somministrazione preoperatoria di basse dosi di eparina non frazionata o di eparina a basso peso molecolare incrementi il rischio di ematoma spinale, negli Stati Uniti, dal 1995, la profilassi preoperatoria (2 ore prima dell’intervento) per gli interventi di Chirurgia Ortopedica maggiore è stata spostata ad un tempo postoperatorio (12-24 ore dopo l’intervento) proprio per il timore di ematomi spinali. La rarità delle segnalazioni di ematoma peridurale in Europa, diversamente dal numero più rilevante delle segnalazioni USA, potrebbe far pensare che lo schema di profilassi più praticato in Europa, che prevede dosaggi inferiori di eparina a basso peso molecolare con l’avvio del trattamento la sera prima dell’intervento e poi una volta al dì, induca una attività antitrombotica modesta al momento dell’introduzione e della rimozione del catetere. Sulla base di quanto emerso già dalla Consensus Conference ACCP del ’98 (15; 19) le seguenti raccomandazioni dovrebbero rendere più sicura tale tecnica anestesiologica in rapporto alla profilassi farmacologia con anticoagulanti: l’anestesia regionale dovrebbe essere evitata in pazienti con disordini coagulativi che predispongono ad emorragie o in trattamento con farmaci che interferiscono potenzialmente con l’emostasi. L’impiego di ASA o FANS ad effetto antiaggregante piastrinico deve essere rimandato ad un’epoca in cui l’effetto della profilassi antitrombotica è minimo (8-12 ore dopo l’ultima somministrazione). *L’inserimento dell’ago per anestesia spinale dovrebbe essere effettuata dopo 10 – 12 ore dopo la somministrazione iniziale dell’eparina frazionata. (45)

*In caso di aspirato emorragico (blody tap) è raccomandabile di non procedere ad anestesia regionale.

*Nell’analgesia continua praticata mediante catetere epidurale lasciato in sede, al paziente cui sia stata somministrata l’eparina frazionata a dosi di profilassi, lo stesso catetere dovrebbe essere lasciato in sede solo per una notte e rimosso il mattino seguente.

*La prima somministrazione di EBPM o quella successiva all’inserimento del catetere dovrebbero avvenire almeno due ore dopo lo stesso inserimento dell’ago o la rimozione del catetere.

*L’anestesia spinale in dose singola dovrebbe essere preferita all’epidurale continua.

*Tutti i pazienti dovrebbero essere attentamente e frequentemente monitorizzati in ordine a segni clinici precoci di compressione spinale, per la quale solo procedure di decompressione rapida possono evitare danni permanenti.

Raccomandazioni:

Piani di profilassi dovrebbero essere preordinati da ogni reparto di chirurgia. Tali piani dovrebbero prevedere, con le irrinunciabili misure generali di profilassi (idratazione adeguata, mobilizzazione precoce, limitazione temporale per quanto possibile di posizioni o dispositivi che facilitano la stasi), mezzi di profilassi meccanica (calze, bendaggi, compressione pneumatica intermittente) e la ricerca ragionata di fattori ematologici di trombofilia quando i dati clinici e anamnestici lo suggeriscano.

Pazienti chirurgici a basso rischio

I dati disponibili sono insufficienti per dare precise raccomandazioni; sulla base del rapporto rischio/beneficio ed estrapolando da studi su pazienti a rischio moderato, sembra di pratica comune la mobilizzazione precoce e il mantenimento di idratazione adeguata, oltre ad eventuale utilizzo di calze a compressione graduata. Grado C.

Pazienti chirurgici a rischio moderato

Sono raccomandati mezzi farmacologici quali eparina non frazionata o eparina a basso peso molecolare per tutti i pazienti a rischio moderato.

Pazienti chirurgici a rischio elevato e molto elevato

La profilassi utilizzata per i pazienti a rischio moderato, deve essere applicata a tutti i pazienti ad alto rischio.Grado A.

Potrebbe essere ritenuta potenzialmente più efficace la combinazione dei singoli mezzi farmacologici, quali l’eparina non frazionata a basso dosaggio o l’eparina a basso peso molecolare, con metodi meccanici di profilassi quali la compressione pneumatica intermittente o le calze a compressione graduata. Grado B.

La profilassi dovrebbe essere praticata nelle donne in terapia estroprogestinica contraccettiva, se l’assunzione non è stata interrotta da almeno 4-6 settimane prima dell’intervento. Il vantaggio dell’interruzione della contraccezione va soppesato con il rischio di una nuova gravidanza. Grado C.

Le misure di profilassi di tipo meccanico, in alternativa ai mezzi farmacologici, devono essere prese in considerazione nei pazienti ad alto rischio emorragico, sia da disordini coagulativi sia per motivi inerenti alle procedure chirurgiche. Grado C.

Nei Pazienti sottoposti ad interventi di neurochirurgia intracranica, sono raccomandati sia i mezzi meccanici come la CPI (Grado A) sia le eparine, ENF a bassa dose o EBPM, a partire dal giorno dopo l’intervento – Grado B

La combinazione di EBPM e GEC è risultata più efficace della sola GEC – Grado B

Inizio, durata e dosi della profilassi

Poiché il rischio di TEV è connesso fortemente con fattori legati all’intervento chirurgico, appare sensato che la profilassi inizi prima dell’intervento stesso. Sulla base dei primi studi condotti in chirurgia ortopedica in cui la TVP veniva diagnosticata mediante flebografia alla dimissione, non emergevano differenze significative tra un regime che prevedeva la somministrazione preoperatoria di EBPM, a distanza di 12 ore dall’intervento, rispetto a quella postoperatoria, 12-24 ore dopo l’intervento. In chirurgia ortopedica, peraltro, si impiegano dosi di EBPM superiori a quelle impiegate in chirurgia generale dove la prima somministrazione avviene a distanza di due ore dall’intervento. Studi più recenti hanno valutato l’impiego perioperatorio, a dosi ridotte, di EBPM anche in chirurgia ortopedica. Una metanalisi dei vari studi disponibili (99) riporta una possibile differenza a favore del regime perioperatorio (rispetto a quelli pre e postoperatorio): a fronte di essa sta, tuttavia, un sicuro incremento delle complicanze emorragiche.

Nella maggior parte degli studi sono stati presi in esame i risultati della profilassi condotta per 7-10 giorni successivi all’intervento o fino alla mobilizzazione dei pazienti. Almeno sette recenti studi randomizzati hanno peraltro documentato che la profilassi prolungata – fino a 5 settimane dopo l’intervento (32) – con eparina a basso peso molecolare possa ridurre ulteriormente la frequenza delle TVP flebograficamente dimostrate nella chirurgia elettiva d’anca. Lo stesso non è altrettanto evidente e documentato per gli interventi di protesica di ginocchio. L’ulteriore prolungamento della profilassi post-dimissione ha dimostrato una significativa riduzione anche del TEV sintomatici (non solo delle TVP flebografiche) in pazienti sottoposti a chirurgia protesica d’anca senza concomitanti aumenti di complicanze emorragiche maggiori.

Nella chirurgia ortopedica d’urgenza, la profilassi dovrebbe essere iniziata non appena possibile.

Raccomandazioni:

Nella chirurgia a rischio non elevato sembra ragionevole utilizzare dosi relativamente basse di eparine a basso peso molecolare, iniziando la somministrazione da 1 a 3 ore prima dell’intervento, secondo i risultati soddisfacenti riportati con dalteparina 2500/die, enoxaparina 2000/die, reviparina 1750/die, nadroparina 2850 U/die – Grado A

Dosaggi più elevati, iniziati 10-12 ore prima dell’intervento o 12-24 ore dopo l’intervento, andrebbero utilizzati in pazienti a rischio più elevato come nella chirurgia ortopedica maggiore. Dopo artroprotesi d’anca la profilassi dovrebbe essere protratta per 5 settimane dopo l’intervento – Grado A

Non esistono elementi per consigliare la stessa strategia di prolungamento dopo intervento di artroprotesi di ginocchio – Grado B

Nella anestesia locoregionale si raccomanda cautela nella somministrazione di farmaci antitrombotici – Grado A

Contraccettivi Orali e rischio tromboembolico in chirurgia

Nelle pazienti di chirurgia la contraccezione con estroprogestinici si associa ad incremento del rischio di TVP. (105; 43)

Raccomandazioni:

La profilassi con eparina è consigliabile in caso di non interruzione degli estroprogestinici e in presenza di altri fattori di rischio. Per l’alto rischio di TVP, la tromboprofilassi dovrebbe essere attuata nella chirurgia d’urgenza delle donne che assumono anticoncezionali estroprogestinici – Grado C

Terapia Ormonale Sostitutiva (HRT) e rischio tromboembolico in chirurgia

In assenza di altri fattori di rischio, non vi sono dati sufficienti a supportare la correttezza della sospensione indiscriminata della HRT prima di interventi chirurgici. Nonostante la mancanza di dati, è consigliabile la tromboprofilassi in caso di non sospensione della HRT prima di interventi chirurgici. (28)

Raccomandazioni:

La maggior parte delle pazienti in terapia sostitutiva presentano fattori aggiuntivi di rischio quali principalmente l’età, che di per sé costituisce un’indicazione alla tromboprofilassi. Grado C.

Gravidanza

Le difficoltà ad esprimere raccomandazioni sulla profilassi e trattamento del TEV in gravidanza nascono dalla scarsità di trias ampi e ben controllati e spesso i dati sono estrapolati da studi condotti in donne non in gravidanza (33).

Il TEV rimane la causa principale di mortalità materna nei paesi occidentali con una prevalenza di 1 decesso su 100.000 maternità (42). Il rischio è maggiore nelle donne in età più avanzata, distribuito equamente nell’arco dei tre trimestri e, nonostante i 2 terzi degli eventi si presentino in corso di gravidanza, il rischio aumenta nella prima settimana pos partum. Le condizioni che aumentano il rischio sono rappresentate dal parto cesareo specie se eseguito d’urgenza, l’obesità, il prolungato allettamento, la preeclampsia, la sindrome nefrosica, condizioni infettive, procedure chirurgiche recenti, pregressa trombosi venosa profonda e le condizioni trombofiliche.

Mezzi di profilassi

L’eparina non frazionata è stata il farmaco più utilizzato nella prevenzione e nel trattamento del TEV in corso di gravidanza. Gli anticoagulanti orali (ACO) sono impiegati limitatamente ai casi di portatrici di valvole cardiache artificiali, per le importanti controindicazioni ed effetti collaterali sulla madre e sul feto. Attualmente le EBPM rappresentano i farmaci più utilizzati e utilizzabili per gli inconfutabili vantaggi sulla ENF: maggiore biodisponibilità, emivita più lunga, facilità di somministrazione in unica dose/die per la profilassi e per i minori effetti collaterali quali osteoporosi anche nella somministrazione prolungata. Le EBPM così come la ENF non attraversano la placenta non sono teratogeniche e fetotossiche. Sia le EBPM, la ENF e gli Anticoagulanti Orali non sono secreti nel latte materno, possono quindi essere somministrati in sicurezza nelle donne che allattano. Non vi sono dati a sostegno della profilassi nel parto cesareo in assenza di fattori di rischio aggiuntivi (101; 40; 69; 53).

Raccomandazioni:

Gravidanza con pregresso TEV

In caso di singolo episodio di TEV da condizione favorente identificata (immobilità, obesità, TEV post chirurgico) è indicata la sorveglianza, la contenzione elastica e la profilassi farmacologica post partum per quattro-sei settimane mantenedo un INR tra 2 e 3.

In caso di TEV idiopatico o con trombofilia documentata è indicata la sorveglianza, la contenzione elastica e la profilassi o con eparina non frazionata a basso dosaggio o con EBPM a dosi di profilassi e gli anticoagulanti da proseguire nel post partum Grado C. Resta da definire se la profilassi prepartum deve essere condotta per tutta la gravidanza o per un periodo più limitato. L’indicazione alla profilassi farmacologica durante l’intera gravidanza o comunque non appena diagnosticata la condizione, è raccomandata in caso di condizione trombofilica “forte” quale deficit di ATIII, di omozigosi per FV Leiden, , positività per anticorpi antifosfolipidi /Lupus anticoagulante o per 2 o più condizioni trombofiliche associate.

Gravidanza con trombofilia accertata asintomatica
E’ indicata la sorveglianza, la contenzione elastica e la profilassi o con eparina non frazionata a basso dosaggio o con EBPM a dosi di profilassi e gli anticoagulanti da proseguire nel post partum Grado C

. Se la condizione trombofilica accertata e asintomatica è “forte” o in caso di anamnesi familiare fortemente positiva , la profilassi farmacologia è raccomandata durante l’intero corso di gravidanza

Nelle donne in terapia anticoagulante prolungata per recidività multipla (> di 2 episodi) è consigliato o la ENF o una EBPM a dose aggiustate seguito dal ripristino della anticoagulazione nel post partum.

Non è indicato uno screning indiscriminato per condizione trombofilica. Uno screenig è indicato solo in caso di donne con storia familiare di TEV nei parenti di 1° grado, o pregressa TVP nelle quali la probabilità di confermare una condizione trombofilica è elevata.

La profilassi della trombembolia venosa con anticoagulanti orali è controindicata nel primo trimestre di gravidanza per il rischio di embriopatia e, come emerge da dati disponibili, nel secondo e terzo trimestre per il rischio di emorragie materne o fetali.

In caso di controindicazioni all’eparina, così come nei soggetti portatori di protesi valvolari cardiache, la profilassi con anticoagulanti orali può essere presa in considerazione, con adeguata informazione della paziente, solo dal secondo trimestre in poi, per il rischio relativamente minore di complicanze in tale trimestre. Grado C.

Le donne che in gravidanza o nel puerperio presentino un evento tromboembolico dovrebbero essere sottoposte ad indagini ematologiche per condizioni trombofiliche. Grado C.

Gravidanza e Anticorpi Antifosfolipidi

La gravidanza in donne con positività per gli anticorpi anti fosfolipidi (APA) devono essere considerate a rischio elevato per trombosi (61; 60), così come donne con poliabortività devono essere sottoposte a screening per APA prima o all’inizio di gravidanza. La gestione della gravidanza in donne con positività APLAs resta tutt’ora problematica in ordine ai regimi terapeutici proposti (100, 40).

Raccomandazioni:

Donne con anticorpi antifosfolipidi e positività anamnestica per pregresso evento trombotico, sono suscettibili a profilassi con dosi terapeutiche aggiustate nel corso della gravidanza e a anticoagulanti orali nel post partum.

Donne con anticorpi antifosfolipidi e anamnesi negativa possono essere trattate con aspirina a basse dosi o, in alternativa, alla sola sorveglianza clinica e strumentale non invasiva.

L’associazione aspirina con eparina non frazionata a basso dosaggio si è rivelata più efficace della aspirina sola, in termine di numero di nascite.

Pazienti medici

I pazienti “non chirurgici” rappresentano una eterogenea ed ampia categoria di soggetti che comprende i pazienti con infarto miocardico acuto, con ictus cerebrale (ischemico o emorragico), con neoplasie e con una serie di malattie internistiche che vanno dallo scompenso cardiaco fino alle mallattie respiratorie croniche ed alle malattie infettive, che possono essere a rischio di TEV. Sfortunatamente non si dispone di dati altrettanto accurati come in chirurgia, circa la reale frequenza di tromboembolismo in ciascuna delle elencate categorie di rischio. Analogamente, sono piuttosto carenti i dati sull’efficacia dei presidi antitrombotici che sono stati considerati per la chirurgia generale ed ortopedica. Nonostante ciò i dati disponibili sembrano suggerire che la profilassi con anticoagulanti (generalmente eparina non frazionata a basse dosi (18) e eparina a basso peso molecolare) e persino con antiaggreganti piastrinici (generalmente aspirina), possa determinare una riduzione del rischio relativo di incidenza delle TVP anche nei pazienti medici. Diversamente che in Chirurgia, nel paziente medico mancano studi sull’efficacia della profilassi meccanica con calze elastiche a compressione graduata o compressione pneumatica intermittente.

Tutti i pazienti medici dovrebbero essere classificati in base al rischio tromboembolico ed una profilassi dovrebbe essere attuata nei pazienti a rischio moderato e alto.

Infarto miocardico acuto (IMA)

L’attuale terapia dell’IMA è basata sulla combinazione di trombolitici, eparina non frazionata endovena o EBPM, antiaggreganti in monoterapia od in associazione. Questo e la mobilizzazione precoce cui vanno incontro, rispetto agli anni scorsi, i pazienti affetti da IMA, ha indotto a considerare la prevenzione della TVP come un obiettivo ancillare rispetto a quello che una simile ”pesante” terapia antitrombotica persegue a livello coronarico. Tuttavia dati recenti del registro GRACE (98) sembrerebbero indicare che la prevenzione TVP non è un problema risolto da tanta terapia antitrombotica nel paziente infartuato..

Il regime combinato (anticoagulanti orali o eparine + aspirina) è associato ad un numero maggiore di eventi emorragici (3‰).

Raccomandazioni:

Nell’IMA è raccomandato l’uso di eparina non frazionata e. v a dosaggio terapeutico o di EBPM s.c. a dosi aggiustate secondo il peso corporeo . Grado A.

Resta da definire se le dosi e la durata di questo trattamento che è mirato alla cura dell’infarto e non, specificamente, alla prevenzione del TEV, siano realmente efficaci anche quest’ultimo scopo

Ictus ischemico

I pazienti con ictus ischemico acuto con paresi grave/plegia di un emisoma o di un arto inferiore presentano un alto rischio di sviluppare una TVP, frequentemente a carico dell’arto paretico/plegico, e una EP, così come sono ad alto rischio di mortalità causata non raramente proprio da EP.

Sono state valutate diverse modalità di profilassi: aspirina, eparina non frazionata, eparina a basso peso molecolare, eparinoidi, compressione pneumatica intermittente, calze elastiche a compressione graduata e stimolazione elettrica dell’arto plegico.

Sulla base della metanalisi dell’APT, anche nei pazienti con stroke, analogamente a quanto è emerso da studi sugli antipiastrinici in pazienti medici ad alto rischio, la terapia antiaggregante piastrinica appare efficace nella riduzione della TEV.

Il problema dell’impiego di ENF o EBPM nella profilassi del TEV in questo modello clinico merita qualche riflessione. Esistono dati che testimoniano dell’efficacia delle eparine impiegate a dosaggio profilattico nella prevenzione della TVP flebografica in pazienti con stroke. Tuttavia, quando – nel corso di studi più recenti – le dosi di eparina sono state aumentate nel tentativo di influenzare con una terapia antitrombotica anche l’outcome neurologico, si è assistito ad un eccesso di complicanze emorragiche intracraniche ed extracraniche pur in presenza di un valido risultato sulla riduzione del TEV. (6)

Le tematiche della profilassi farmacologica del TEV nel paziente con ictus ischemico pongono per ora più dubbi che soluzioni:

aspirina: alla dose di 300 mg die si è dimostrata inefficace nella riduzione delle EP fatali e non fatali (47)

eparina non frazionata e eparine a basso peso molecolare: i risultati degli studi più recenti depongono per un atteggiamento prudente per quanto riguarda la somministrazione di eparina ed in particolare circa la scelta delle dosi da impiegare nella fase acuta dell’ictus; soprattutto negli infarti cerebrali estesi (o di origine embolica) la profilassi eparinica si presenta a rischio di complicanze emorragiche.

  • danaparoid: un eparinoide, è stato utilizzato in un ampio studio (TOAST) (62) che ha riportato un aumento delle trasformazioni emorragiche degli infarti cerebrali nei pazienti trattati, contraddicendo in parte quanto emerso da studi precedenti, numericamente più limitati, che ne avevano documentato l’efficacia e sicurezza (104)
  • resta incerto il ruolo dell’associazione di aspirina ed eparina nella fase acuta dell’ictus.

Raccomandazioni:

La profilassi con eparina non frazionata o con eparina a basso peso molecolare o con danaparoid, non in commercio in Italia, è efficace nella riduzione dell’incidenza delle TVP in pazienti con stroke sospetto o dimostrato. Ciascuna di queste terapie è raccomandata nei pazienti con stroke e plegia di un arto inferiore – Grado A

È comunque indispensabile escludere emorragie intracraniche, usualmente con TAC precoce, e valutare il rischio di trasformazione emorragica in ogni singolo paziente prima di instaurare la profilassi con eparina – Grado A

Ictus emorragico

Ancora più problematica è la prevenzione del tromboembolismo venoso nell’ictus emorragico, in cui l’incidenza della trombosi venosa profonda è comparabile a quella dell’ictus ischemico, ma sul quale però non si hanno dati sulla base dei quali esprimere raccomandazioni.

Raccomandazioni:

Nei pazienti con stroke emorragico sospetto o dimostrato e nei pazienti in cui il rischio emorragico è rilevante rispetto al beneficio della profilassi con anticoagulanti, sono raccomandati metodi di profilassi meccanica come la compressione pneumatica intermittente o le calze elastiche a compressione graduata. Grado C

Neoplasie

Il tromboembolismo venoso può rappresentare sia la prima manifestazione di una neoplasia occulta, sia la complicanza di una neoplasia già diagnosticata.

Nelle trombosi venose in corso di neoplasia già diagnosticata devono essere incluse le trombosi venose post chirurgiche, le trombosi venosa indotte dalla chemioterapia, e le trombosi venose complicanti l’inserzione di un catetere venoso centrale a permanenza (3).

Bergqvist (9) ha riportato nello studio Enoxacan II che la profilassi protratta con enoxaparina alla dose di 4000 u/die per 4 settimane dopo un intervento di chirurgia oncologica è superiore rispetto al trattamento con la stessa EBPM limitato a soli 9-11-giorni.

Esistono due studi randomizzati, prospettici e controllati che hanno dimostrato l’efficacia di un trattamento antitrombotico nel ridurre la frequenza delle trombosi venose conseguenti all’inserzione di un catetere venoso centrale a permanenza. Il primo, uno studio di Bern e coll. del 1990 (11), era condotto confrontando la somministrazione di warfarin alla dose di 1mg/die vs placebo. La casistica era composta da 82 pazienti complessivi poiché lo studio veniva interrotto precocemente data l’elevata frequenza di trombosi nel gruppo di controllo (62% > 6%).

Il secondo, uno studio di Monreal del ’96 (68), era condotto con una eparina a basso peso molecolare (dalteparina) somministrata alla dose 2500 UI/24 h per 90 giorni. Dopo l’arruolamento di 29 pazienti anche questo studio veniva interrotto poiché l’esame flebografico evidenziava la significativa superiorità dell’EBPM nei confronti del placebo nelle ridurre le trombosi dell’arto superiore da accesso venoso.

Più complesso è il problema della profilassi a lungo termine nei pazienti neoplastici in chemioterapia. Esiste un unico studio randomizzato, controllato in questo modello clinico: si tratta del trial di Levine del 1994 (57) condotto in 311 donne con cancro della mammella metastatizzato che ricevevano chemioterapia. La somministrazione di 1mg/die di warfarin durante il primo mese per poi aggiustare i livelli di INR tra 1.3 ed 1.9 fino al termine del ciclo chemioterapico era in grado di ridurre del 85% il rischio di TEV sintomatico rispetto a quanto osservato nelle pazienti che ricevevano placebo, senza eccesso di emorragie nelle donne trattate.

Di recente sono stati riportati studi che hanno valutato l’efficacia delle EBPM enoxaparina (66) e dalteparina (Studio CLOT pubblicato in Abstract) impiegate non solo nella fase acuta ma anche nella profilassi secondaria della TVP, in sostituzione ed in confronto con il warfarin. Entrambi gli studi concludono a favore di una efficacia almeno pari delle EBPM e di una loro sicurezza circa le emorragie superiore a quella di warfarin.

Raccomandazioni:

Nei pazienti neoplastici sottoposti ad interventi chirurgici la profilassi antitrombotica con EBPM potrebbe essere prolungata fino a 4 settimane dopo l’intervento. Grado B

Non esistono dati sufficientemente solidi per consigliare un trattamento antitrombotico come quello impiegato da Levine (basse dose di warfarin) per il cancro della mammella metastatizzato in tutte le altre neoplasie solide durante un trattamento chemioterapico.

Le evidenze a favore di un trattamento antitrombotico con EBPM o warfarin a basse dosi in corso di permanenza di un catetere venoso centrale nei pazienti oncologici sono basate su studi con limiti metodologici

Altri pazienti di medicina generale

In tale gruppo vengono inclusi pazienti ospedalizzati allettati, con scompenso cardiaco, broncopneumopatie, infezioni broncopolmonari, condizioni critiche in pazienti di terapia intensiva, così come pazienti con plegia acuta degli arti (tipo sindrome di Guillan Barré), chetoacidosi o coma diabetico, neoplasie, sindrome nefrosica, osteomieliti, con pregressa TVP o EP, trombofilia primaria o acquisita (deficit ATIII, Prot. C. o Prot.S, APCR, Fattore II mutante, LAC), policitemia, malattie mieloproliferative, omocistinemia, connettiviti, m. di Behçet).

Una metanalisi di Mismetti (67) ha dimostrato che la frequenza di TVP in questi soggetti è considerevole, attestandosi attorno al 19% con il 1% di EP. Un recente studio multicentrico controllato che per la prima volta ha impiegato una valutazione flebografica della frequenza di TVP nei pazienti medici, ha confermato che il rischio di TEV è considerevole, attestandosi attorno al 15% ed ha dimostrato l’efficacia profilattica di una dose più elevata di EBPM (Enoxaparina 4000 U), ma non di quella più bassa (2000 U), nel ridurre la frequenza di TEV nei pazienti di medicina (94).

Mentre l’età aumenta il rischio di tromboembolismo venoso, l’età superiore ai 65 anni non costituisce di per sé un rischio sufficiente a giustificare una profilassi routinaria nei pazienti geriatrici o di medicina generale, in assenza di altri fattori di rischio (quali, per esempio, l’immobilizzazione o la ridotta mobilità).

Non vi sono segnalazioni su criteri di condotta su soggetti in condizioni a rischio generico ambientale, se non quanto riportato relativamente al rischio elevato di tromboembolismo venoso in corso di lunghi viaggi aerei o in posizione seduta prolungata (75). Tutti i soggetti esposti a rischio, come appunto un lungo viaggio aereo, dovrebbero essere informati del rischio potenziale e dovrebbero essere istruiti ad alzarsi frequentemente e bere liquidi durante il volo. Soggetti con storia positiva o con fattori di rischio per tromboembolismo dovrebbero consultare un medico prima del viaggio che valuti l’opportunità di attuare misure di profilassi fisica (calze elastiche a compressione graduata) e/o farmacologia (EBPM).

Raccomandazioni:

La profilassi del TEV è raccomandata in pazienti medici con scompenso cardiaco, processi broncopneumonici, neoplasie – Grado A

e nei pazienti di terapia intensiva – Grado B

La dose di EBPM impiegata in questo tipo di profilassi è più elevata di quella impiegata nel paziente chirurgico con livello di rischio comparabile (es. 15-20%)

Trombofilia e rischio tromboembolico

a) Condizioni trombofiliche ereditarie

  • Deficit degli inibitori della coagulazione: sono rappresentate da carenza di proteina (difetti di tipo I) o da alterata funzionalità (difetti di tipo II) di Antitrombina III, Proteina C o Proteina S.
  • Mutazione Fattore V Leiden (G1691A): la presenza di tale mutazione è responsabile, in circa il 90% dei casi, di una alterazione funzionale denominata «Resistenza alla proteina C attivata».
  • Mutazione G20210A del gene della Protrombina: questa mutazione è stata dimostrata essere associata ad elevati livelli plasmatici della Protrombina

b) Condizioni trombofiliche acquisite>

  • Sindrome da anticorpi antifosfolipidi
  • Malattie mieloproliferative.
  • APCR acquisite

c) Condizioni trombofiliche miste o non ben definite

  • Iperomocistinemia primitiva per mutazione genica del gene della Cistionina Beta Sintetasi (CBS) , della metilene tetra-idro-folato-reduttasi (MTHFR) o della sua variante termolabile MTHFR – T (molto frequente nella popolazione generale) o secondaria a IRC, farmaci, carenze dietetiche ecc. È stato recentemente documentato che livelli di omocisteina superiori alla norma sono associati a trombofilia. Studi caso controllo su associazione tra iperomocistinemia e TEV hanno fornito risultati discrepanti (24), per cui tale fattore potrebbe essere considerato un fattore di rischio debole se non associato ad altre condizioni. La discordanza di dati sul ruolo delle mutazioni MTHFR – T ne rende non raccomandabile la sua ricerca in caso di TEV.

Fattore VIII: elevati livelli di fatt. VIII, indipendentemente dal gruppo sanguigno e dal fattore von Willebrand, elementi dai quali dipende l’incremento di tale fattore, sono associati ad aumento di rischio di TEV.

Lo screening di primo livello per condizioni trombofiliche dovrebbe prevedere:

esami generali: esame emocromocitometrico completo, compreso la conta piastrinica, TP, aPTT; fibrinogeno.

esami per trombofilia: AT III, Prot. C, Prot. S (funzionali), Resistenza alla Prot. C attivata (APCR), mutazione fattore V di Leiden, mutazione G210210A del gene della protrombina, anticorpi anti fosfolipidi (APA), anticoagulante tipo Lupus (LAC), omocisteinemia a digiuno.

Uno screening indiscriminato pur essendo tecnicamente possibile, non è proponibile per gli oneri economici che comporterebbe e potendo disporre di una profilassi efficace non è da ritenere né necessario né conveniente. Tuttavia uno screening su gruppi selezionati di pazienti ad alto rischio ne può migliorare la storia clinica. Nei soggetti geneticamente predisposti le TVP non si verificano in genere senza l’azione scatenante di condizioni facilitanti quali interventi chirurgici, traumi, o fattori acquisiti addizionali.

La predisposizione congenita alla trombosi (trombofilia), dovrebbe essere presa in considerazione in pazienti con trombosi documentata insorta senza causa identificabile prima dei 40-45 anni o dopo stimoli di entità trascurabile, con trombosi venose profonde ricorrenti o con storia familiare positiva per trombosi, necrosi cutanea indotta da anticoagulanti orali, trombosi venosa in sede inusuale, TVP insorta in corso di gravidanza o terapia estroprogestinica.

In base alla considerazione che la gestione terapeutica di una TVP acuta non si differenzia a seconda della presenza o assenza di condizioni trombofiliche ematologiche, la ricerca di tali condizioni non è raccomandata in fase acuta, ad eccezione del sospetto di carenza di ATIII. Mentre i test genetici (Fatt V Leiden, mutazione G20210A della protrombina, MTHFR-T) non sono alterabili in qualsiasi circostanza, i test funzionali (APCR, PC, PS, ATIII, fatt. VIII) sono spesso alterati (fase acuta evento trombotico, terapia anticoagulante, malattie intercorrenti, gravidanza, estroprogestinici, epatopatie, ecc), per cui la ricerca di tali fattori nelle condizione suddette va valutata caso per caso.

Profilassi nei pazienti con condizione trombofilica

Pazienti asintomatici

Non vi sono ancora elementi di valutazione sulla profilassi primaria nei pazienti asintomatici con trombofilie congenite, ma tali soggetti dovrebbero essere cautelati in caso di interventi chirurgici o di altre condizioni associate ad incremento del rischio trombotico.

Pazienti sintomatici

In ordine alle condizioni trombofiliche congenite o acquisite, per i pazienti con trombofilia congenita e due o più episodi tromboembolici, vi è un generale accordo sulla profilassi a lungo termine, nonostante l’incremento del rischio emorragico. In relazione al minor rischio emorragico per un basso grado di ipocoagulazione, è stato suggerito (30) di mantenere il trattamento anticoagulante standard (INR 2-3), per almeno 6 mesi dopo il primo evento e proseguire a lungo termine con un trattamento a bassa intensità (INR 1,5-2) in pazienti con trombofilia congenita, con condizioni a rischio persistente o in pazienti al secondo evento. Il recente studio PREVENT (87) ha dimostrato che tale basso livello di ipocoagulazione con INR compreso tra 1.5 e 2 è efficace e sicuro in pazienti con tromboembolismo venoso idiopatico essendo in grado di ridurre il rischio di recidiva in questi pazienti del 64% nel corso di un follow-up di oltre 4 anni.

Sono generalmente ritenute valide le indicazioni secondo cui le varie condizioni trombofiliche congenite non sono ugualmente trombotiche. Il deficit di ATIII è a rischio maggiore rispetto al deficit di proteina C e S .

L’incidenza delle trombosi venose profonde in pazienti con APCR per mutazione eterozigote del Fattore V Leiden è più bassa rispetto ad altri stati trombofilici e non è definitivamente accertato se essa comporti un aumentato rischio di recidive di TEV (95, 31), mentre studi di ampiezza limitata riportano un maggior rischio tromboembolico in pazienti con mutazione V omozigote (110). Il rischio trombotico aumenta in soggetti con più condizioni trombofiliche associate (91; 109).

Livelli elevati di anticorpi antifosfolipidi costituiscono un importante fattore di rischio tromboembolico (55). Resta incerto il livello ottimale di ipocoagulazione da mantenere nei pazienti con anticorpi antifosfolipidi, se nel classico range tra 2 e 3 o al di sopra di 3. Analogamente è incerta la durata del trattamento che andrebbe consigliato tuttavia per periodo indefinito.

Anticoncezionali estroprogestinici

Gli anticoncezionali estroprogestinici, compresi quelli a basso dosaggio (max 30 µg) e quelli di terza generazione (108), sono controindicati in donne con trombofilia accertata, sulla base degli studi epidemiologici che hanno evidenziato la correlazione tra contraccettivi orali e tromboembolismo, almeno per quanto riguarda la carenza di ATIII, prot. C e S, la APCR, il fattore V Leiden e la mutazione G20210A e da recenti segnalazioni anche da alti livelli di fattore VIII che sembra indurre, in associazione ai CO, un aumento di rischio di 10 volte rispetto a donne con livelli di fatt. VIII < 150 IU/dl (90) .

Raccomandazioni:

Uno screening generalizzato per tutte le donne che intendono assumere contraccettivi orali non è praticabile sia in ordine a considerazioni epidemiologiche (rischio assoluto basso), sia in relazione a considerazioni economiche – Grado B

Uno screening per le condizioni trombofiliche congenite principali (antitrombina, proteina C, proteina S, e resistenza alla proteina C attivata – Fatt. V Leiden, Mutazione G20210A del gene della Protrombina, dosaggio dell’omocistinemia) è raccomandabile in donne con storia personale o familiare di tromboembolismo venoso – Grado C

Terapia ormonale sostitutiva

In ordine al rischio tromboembolico, la terapia ormonale sostitutiva postmenopausale si associa ad un modesto incremento di rischio tromboembolico venoso. Nella scelta a favore o contro della terapia ormonale sostitutiva è necessario considerare il bilancio tra gli effetti favorevoli sulla morbilità e mortalità coronarica e sull’incremento di massa ossea, e gli effetti sfavorevoli relativi nell’incremento di rischio di carcinoma mammario in caso di familiarità per tale neoplasia o in caso di mastopatia fibrocistica e l’incremento di rischio di trombosi venosa in caso di storia familiare o personale di tromboembolismo venoso.

Valutazione costo beneficio della profilassi

Sono stati condotti molti studi sulla valutazione costo/efficacia delle metodiche di profilassi comunemente in uso. Nei pazienti a rischio medio ed elevato, il costo della diagnosi e della terapia degli eventi tromboembolici nei pazienti senza profilassi, si è dimostrato più elevato del costo della profilassi correntemente praticabile.

L’approccio di analisi economica più condiviso consiste nel confronto fra i costi della profilassi e i costi degli eventi non evitati, senza o con profilassi. Secondo tali criteri a fronte di un maggior costo per la profilassi con eparine a basso peso molecolare (EBPM) il risparmio per gli eventi non evitati è più sensibile nella chirurgia ortopedica che nella chirurgia generale (54) Il problema della durata ottimale della profilassi farmacologia post chirurgica anche sul piano della convenienza economica, è reso sempre più attuale in relazione anche alla tendenza alle dimissioni sempre più precoci che riducono ulteriormente la profilassi intraospedaliera

Il confronto tra cicli di profilassi “breve” (dai 7 ai 15 giorni) e “prolungata” (dai 21 ai 35 giorni di somministrazione) dopo interventi di protesi d’anca sono indicativi per la maggiore efficacia di una somministrazione prolungata rispetto ad una somministrazione breve in termine di minori eventi tromboembolici (80). Valutazioni economiche in termini di costo incrementale (incremento del costo totale di un programma o progetto, quando la produzione aumenta di una unità) e costo/efficacia concordano con i dati clinici (25).

Non sono disponibili dati sul rapporto costo efficacia della profilassi nei pazienti a basso rischio.

  1. TERAPIA DELLA TVP

Considerazioni generali

L’ideale terapeutico del tromboembolismo venoso con il quale indurre la rapida ricanalizzazione del lume vasale trombizzato, impedire il distacco di frammenti e/o dell’intera massa trombotica e garantire l’integrità valvolare, non è attualmente disponibile. Con gli attuali mezzi terapeutici è possibile ostacolare l’estensione della trombosi, ridurre l’edema dell’arto cui consegue l’incremento della pressione compartimentale con conseguente probabile evoluzione in phlegmasia, gangrena venosa e perdita dell’arto, ridurre le recidive trombotiche e le EP, limitare la sindrome post trombotica preservando la funzionalità valvolare e il deflusso venoso.

In ordine alla gestione terapeutica delle TVP, la prassi più largamente sperimentata prevede l’ospedalizzazione del paziente e la somministrazione di eparina per via endovenosa con una prima dose in bolo, seguita dal proseguimento della terapia per infusione venosa continua. E’ necessario quindi il ricovero ed il monitoraggio frequente del livello di anticoagulazione anche quando, dopo il bolo ev., si utilizza la via sottocutanea. Per l’aggiustamento dei dosaggi dell’eparina non frazionata sia ev che sc sono stati proposti normogrammi, (20, 85)

All’utilizzo di Eparina non frazionata (ENF) ev e/o sotto cute, che può trovare indicazione d’uso quando è necessario il monitoraggio laboratoristico dell’effetto anticoagulante, come nei pazienti con peso corporeo molto basso o molto elevato o con insufficienza renale di grado medio-severo, oggi si pone come alternativa sempre più diffusa l’utilizzo di una delle Eparine a basso peso molecolare (EBPM) disponibili e somministrabili per via sottocutanea, a dosaggio aggiustato in base al peso corporeo. Al di là dei vantaggi pratici rispetto all’ENF somministrata e.v., le EBPM sembrano comportare una ridotta mortalità nel paziente con TVP (forse limitata ai pazienti neoplastici con TEV) e questo dato fa preferire le EBPM all’ENF. (27)

La terapia anticoagulante orale può essere iniziata il primo giorno di terapia eparinica o successivamente, a meno non sia prevista una procedura medica o chirurgica tipo trombolisi o inserimento di filtro cavale o in presenza di pazienti politraumatizzati o in situazioni potenzialmente emorragiche.

La durata della somministrazione eparinica , sia ENF o EBPM, non va prolungata oltre i cinque-sette giorni (in caso di massiva TVP femoro-iliaca o iliaco-cavale o di TVP alla quale coesista una Embolia Polmonare non massiva, qualcuno suggerisce di protrarre la terapia fino a 10 giorni). Ciò consente di ridurre il ricovero ospedaliero e conseguentemente comporta un significativo risparmio. E’ da sottolineare che l’embricatura della terapia anticoagulante orale con quella eparinica non deve essere inferiore a 4-5 giorni. La somministrazione di eparina potrà essere interrotta quando i valori di INR siano superiori a 2 per almeno due giorni consecutivi.(46)

La terapia iniziale con eparina si rende necessaria per l’inaccettabile probabilità di recidive correlata alla terapia iniziale con anticoagulanti orali (13).

La terapia con anticoagulante orale, o, in presenza di controindicazioni a tale terapia, con eparine a basso peso molecolare o con eparina non frazionata a dosaggio terapeutico, dovrebbe essere proseguita per 3 – 6 mesi nei pazienti al primo episodio con condizione a rischio transitorio e per almeno 6-12 mesi nei pazienti al primo episodio tromboembolico idiopatico. (29, 30).

Raccomandazioni:

L’anticoagulazione deve essere iniziata con eparine a basso peso molecolare sottocute, a dosaggio aggiustato sulla base del peso corporeo o con eparina non frazionata a dosaggio aggiustato endovena o sottocute – Grado A

Il potenziale vantaggio in termini di ridotta mortalità dei pazienti trattati con EBPM rispetto all’ENF e.v. e la superiore maneggevolezza delle EBPM fa preferire queste ultime – all’ENF – Grado B

Nel caso di impiego di ENF si raccomanda di raggiungere un aPTT compreso nell’intervallo terapeutico (1,5-2,5 volte il tempo di controllo, ovvero del tempo di aPTT del paziente prelevato prima dell’inizio della terapia, equivalente ad un livello di eparinemia di 0,2-0,4 U/ml.), utilizzando uno dei nomogrammi per l’aggiustamento della posologia della eparina sia somministrata endovena che sottocute – Grado A

Il trattamento eparinico iniziale dovrebbe essere proseguito per almeno cinque giorni e la terapia con anticoagulanti orali dovrebbe essere sovrapposta all’eparina fino a quando (in genere 4 – 6 giorni) l’INR del paziente si mantiene nell’intervallo terapeutico (2,0-3,0) per almeno due giorni – Grado A

La terapia con anticoagulante orale, o, in presenza di controindicazioni a tale terapia, con eparine a basso peso molecolare o con eparina non frazionata a dosaggio terapeutico, dovrebbe essere proseguita per 3 – 6 mesi nei pazienti al primo episodio con condizione a rischio transitorio e per almeno 6-12 mesi nei pazienti al primo episodio tromboembolico idiopatico – Grado A

In pazienti con recidive o con condizione trombofilica persistente quale neoplasia, deficit di ATIII e positività per anticorpi anti fosfolipidi (APA) o altra condizione trombofilica “forte” quale l’omozigosi per il fattore V Leiden peraltro molto rare o per l’associazione di più condizioni trombofiliche, la terapia dovrebbe essere proseguita per almeno 1 anno o oltre , ma non è stata definita la durata ottimale – Grado C

Trattamento del TEV in Gravidanza

Le pazienti che presentano un evento tromboembolico in gravidanza, devono essere trattate con eparine a dosi terapeutiche aggiustate per tutta la durata della gravidanza (86). In prossimità del parto le dosi dovrebbero essere ridotte per ridurre il rischio di emorragia. Anche se non è stata ancora stabilita la durata ottimale. (40).

Raccomandazioni:

La terapia anticoagulante orale andrebbe prolungata per almeno 6 settimane nel post partum.. Grado C.

Trattamento domiciliare della TVP

Secondo recenti trial clinici randomizzati, le EBPM possono essere considerate sostitutive dell’eparina non frazionata endovena nel trattamento domiciliare del tromboembolismo venoso, almeno limitatamente ai pazienti con trombosi venosa profonda prossimali non complicate ed a basso rischio emorragico (51, 56). Gli schemi terapeutici proposti prevedono la terapia iniziale con eparine a basso peso molecolare a dosi fisse pro peso e l’inizio rapido (anche contemporaneo in assenza di controindicazioni) della terapia con anticoagulanti orali. Uno degli argomenti a favore del trattamento domiciliare della trombosi venosa profonda con eparina a basso peso molecolare sottocute è la non necessità di monitoraggio di laboratorio ad accezione della conta piastrinica. Restano comunque discordi i pareri sul trattamento iniziale della TVP in regime extraospedaliero poichè, a fronte della riduzione dei costi legata alla non ospedalizzazione, si deve prevedere una gestione domiciliare di non facile realizzazione, sia in ordine al monitoraggio delle condizioni cliniche che alla corretta somministrazione ed alla continuità e facilità di connessione con strutture di riferimento. (76)

Per il trattamento extraospedaliero è raccomandabile l’adozione di condizioni minime per la dimissione precoce quali quelle suggerite dalla 6° ACCP Consensus Conference 2001 (96):

  • Paziente in condizioni stabili con indici vitali normali
  • Basso rischio emorragico
  • Assenza di insufficienza renale grave
  • Possibilità di somministrazione di EBPM o anticoagulanti orali con monitoraggio appropriato
  • Possibilità di sorveglianza clinica al fine di identificare tempestivamente recidive trombotiche o complicanze emorragiche

TVP distali isolate (TVPDI) e Trombosi Venose Superficiali (TVS)

Il trattamento di questo tipo di localizzazione del processo trombotico è tuttora controverso sia per quanto attiene il tipo di terapia che la sua durata (5). Per la TVPDI esistono dati recenti che dimostrano come la terapia anticoagulante praticata con le modalità indicate per le forme di TVP prossimale per una durata di almeno 6 settimane sia efficace quanto quella protratta per 12 (studio DOTAVK) (79).

Sulla base dei dati disponibili il trattamento ottimale delle TVPDI è tuttora non stabilito e sono necessari studi di ampiezza adeguata in base ai quali valutare efficacia e sicurezza di un regime terapeutico adatto a una tipologia di pazienti in maggioranza ambulatoriale (72). Alcuni autori non raccomandano alcun trattamento ma una stretta sorveglianza dell’evoluzione del quadro trombotico nei successivi 10-15 giorni, con metodiche non invasive seriate (46)

Per quanto riguarda le TVS i dati disponibili non forniscono indicazioni univoche e non consentono pertanto di esprimere raccomandazioni. E’ tuttora in corso uno studio multicentrico italiano sull’evoluzione e complicanze delle TVS della grande safena in rapporto a diversi tipi di regime terapeutico. Dai dati della letteraura (7, 4) e dalla pratica clinica consolidata si possono trarre le seguenti conclusioni.

  • Sono necessari ulteriori studi sulla reale incidenza delle TVS , sulle complicanze tromboemboliche ad esse correlate e sul confronto di efficacia tra trattamento medico e chirurgico (stripping, legatura)
  • Le varici sono la causa più frequente (70%) di TVS ed in caso di trombosi di vena non varicosa è raccomandabile ricercare cause di trombofilia acquisita (neoplasie, malattie autoimmuni) o primitiva.

Raccomandazioni

Per la TVPDI si raccomanda la terapia anticoagulante per una durata di 6 – 12 settimane (Grado A).

In caso di TVS eseguire sempre esame ultrasonografico duplex per escludere coinvolgimento del circolo venoso profondo Grado C

Il trattamento è condizionato dalla localizzazione e dall’eziologia. Grado C

Considerare le TVS della grande safena in prossimità della giunzione (1 – 3 cm) alla stessa stregua di una TVP e trattare con adeguati regimi di anticoagulazione o con eventuale deconnessione chirurgica (Grado B).

In caso di TVS distale (3° medio inferiore di gamba, senza coinvolgimento di vena profonda) non sono disponibili protocolli terapeutici concordi, essendo stati proposti vari dosaggi (dal terapeutico al dosaggio di profilassi) sia per l’eparina non frazionate calcica che frazionata. Anche la sola terapia antiflogistica non steroidea, in assenza di fattori di rischio aggiuntivi è considerata sufficiente, ma imprescindibile dalla mobilizzazione attiva, dalla terapia elastocompressiva e dalla sorveglianza clinica.

In caso di coinvogimento profondo distale considerare come TVPDI

Controindicazioni alla terapia anticoagulante

Assolute

— grave episodio emorragico in atto (sia esso postoperatorio, traumatico o spontaneo);

— recente intervento neurochirurgico o recente emorragia a carico del sistema nervoso centrale;

— gravi diatesi emorragiche congenite o acquisite.

Relative

— ipertensione arteriosa di grado elevato resistente alla terapia ipotensiva;

— trauma cranico recente;

— endocardite batterica;

— recenti episodi di sanguinamento gastro-intestinale;

— grave insufficienza epatica o renale;

— retinopatia proliferativa diabetica;

  • piastrinopenia (conta piastrinica <100.000/mm3).

Piastrinopenia da eparina (Heparin Induced Thrombocytopenia, HIT)

Non frequente (0,3-1%), ma caratterizzata, oltre che da forme gravi, anche da molto più frequenti situazioni a sfumata espressione clinica, la HIT non è dose dipendente. Essa non comporta un rischio emorragico ma è, al contrario, caratterizzata da una tendenza protrombotica sia a livello arterioso, sia venoso. Data la sua genesi immunologica (autoanticorpi contro il complesso eparina-piastrine) essa è da temere anche quando si impieghino le EBPM (84). In realtà la frequenza di HIT è maggiore quando si impieghi l’ENF ma la cross-reazione degli autoanticorpi della HIT con le EBPM è possibile per cui si raccomanda il NON utilizzo di alcun tipo di eparina in caso di piastrinopenia eparino-indotta. E’ scoraggiato anche l’impiego, in fase precoce di episodi trombotici correlati ad una HIT, del warfarin. L’irudina (disponibile in Italia per l’impiego compassionevole) e l’argatroban sono stati approvati dalla FDA per la terapia del TEV in caso di piastrinopenia eparino indotta. (107)

Terapia trombolitica

Il ruolo di questa categoria di farmaci è ristretto alle condizioni più gravi (TVP prossimale massiva con gangrena venosa incipiente).

Per il trattamento del tromboembolismo venoso sono utilizzabili trombolitici di vecchia generazione, streptochinasi (SK), e di nuova: l’urochinasi (UK), l’attivatore tessutale del plasminogeno ricombinante (rt-PA) e il complesso attivatore acilato plasminogeno-streptochinasi (APSAC).

Tabella II

Streptochinasi

Può causare reazioni allergiche immediate (per la pre-esistenza di anticorpi da precedenti infezioni streptococciche) o previa sensibilizzazione (non deve essere ripetuto entro 6 mesi da una prima somministrazione); per questo motivo alcuni prescrivono una premedicazione con metilprednisolone 40 mg e.v. È stata usata alla dose di 250.000 U in 20 minuti, seguita da 100.000 U/ora per 24-48 ore; una lunga durata (2-3 giorni) è in genere richiesta per il trattamento delle TVP massive, ciò che aumenta il rischio emorragico. Durante la prima mezz’ora di somministrazione il paziente deve essere sorvegliato per il rischio di reazioni anafilattiche.

Urochinasi

A differenza della SK, ha un elevato costo di produzione. È stata utilizzata alla dose di 4.400 U/kg in 20 minuti seguita da 4.400 U/kg/ora, o a dosi dimezzate in associazione con l’eparina, o a dosi ancora più basse nel trattamento loco-regionale.

rt-PA

È il principale attivatore della fibrinolisi nel sangue; ha una azione litica elettiva sul trombo formato, ma alle dosi terapeutiche comporta alterazioni dell’emostasi e complicanze emorragiche al pari degli altri trombolitici. In Italia l’impiego del rt-PA è autorizzato nel trattamento dell’infarto miocardico acuto e della TVP con sospetto clinico di embolia polmonare, non della TVP.

Un trattamento fibrinolitico prolungato richiede il monitoraggio dei fattori della coagulazione, a scopo cautelativo. Anche se l’allungamento di PTT e tempo di trombina (TT) possono venir utilizzati per valutare l’effetto biologico del trattamento trombolitico, non vi è un adeguato metodo di monitoraggio della terapia. Il parametro che meglio ne riflette l’efficacia è il TT, ma non esiste una chiara correlazione con la clinica. Alla sospensione, il trattamento va continuato con eparina e.v. a dosi terapeutiche, se il aPTT ratio non è già superiore a 2.

Tra i vari studi condotti molti hanno dimostrato una riduzione della massa trombotica, ma nessuno un chiaro beneficio clinico o una superiorità rispetto alla sola terapia eparinica in ordine alla complicanza tromboembolica e lo sviluppo della IVC, oltre al notevole incremento del rischio emorragico e dell’impegno economico ed assistenziale (41)

Una modalità possibile di terapia fibrinolitica è per via locoregionale con catetere.

Recenti avanzamenti tecnologici hanno permesso di mettere a punto dei trombolisatori meccanici, posizionabili con tecnica percutanea. Le prime esperienze sembrano interessanti, ma, attualmente non sono disponibili dati sufficienti per una valutazione della metodica.

Raccomandazioni:

Non è raccomandabile un uso estensivo del trattamento fibrinolitico della TVP.

Il trattamento fibrinolitico deve essere riservato in casi selezionati

— potenziale compromissione della vitalità dell’arto (gangrena venosa);

— interessamento massivo iliaco-femorale o cavale;

— TVP ad esordio clinico non superiore a 7 giorni;

— pazienti giovani in assenza di controindicazioni;

— assenza di fattori di rischio emorragico assoluti o relativi.

Elastocompressione

La terapia compressiva è da considerare indispensabile nel trattamento della TVP. Per le modalità si rimanda al relativo capitolo delle Linee-Guida per il trattamento dell’IVC

Trombectomia chirurgica

Numerose review e lavori anche recenti confermano l’indicazione alla trombectomia chirurgica in casi selezionati, ed in particolare nelle TVP ischemizzanti e nelle trombosi iliaco-cavali flottanti, in caso di insuccesso del trattamento farmacologico. I buoni risultati stanno favorendo numerose esperienze di trombolisi meccanica percutanea, per le quali mancano ancora dati sufficienti per poter esprimere raccomandazioni a riguardo (48)

Filtri cavali

Il posizionamento di un filtro cavale prevede una diagnosi accertata di TVP e l’esecuzione preventiva di una cavografia inferiore per valutare la sede dello sbocco delle vene renali, la pervietà della cava ed il suo calibro; quest’ultimo dato è indispensabile nella scelta del tipo di filtro per un corretto ancoraggio alle pareti cavali.

Sono attualmente disponibili filtri definitivi che non possono essere rimossi e temporanei, da rimuovere entro 7 giorni. Al momento sono disponibili oltre ai filtri definitivi, dispositivi temporanei che possono essere rimossi entro 2 – 3 settimane e filtri permanenti ma muniti di un dispositivo che ne consente ma non ne garantisce la rimozione entro un ampio spazio temporale (anche superiore ai 6 mesi). Tali dispositivi potrebbero ampliare le indicazioni a tale procedura, ma non sono ancora disponibili studi adeguati.

Indicazioni

Le indicazioni comunemente accettate al posizionamento di un filtro cavale sono le seguenti:

  • TVP prossimale recente, anche senza EP e controindicazione assoluta alla terapia anticoagulante;
  • complicanze da terapia anticoagulante ben condotta;
  • inefficacia (EP ricorrenti e/o progressione della TVP) di terapia anticoagulante ben condotta.

Per altre indicazioni, quali malattia tromboembolica con ridotta riserva cardiopolmonare, embolia polmonare cronica non trattata, trombo flottante in vena cava esistono pareri discordanti per mancanza di dati certi.

Pazienti con storia pregressa di malattia tromboembolica e programma di intervento chirurgico addomino-pelvico, donne gravide con TVP prossimale e rischio embolico al parto, pazienti con trauma agli arti inferiori e al bacino, o casi di immobilità prolungata con severa ipertensione polmonare scarsamente compensata, o altre situazioni alto rischio sia embolico che emorragico, possono trarre beneficio da un filtro a scopo profilattico.

In questi casi un filtro temporaneo può rappresentare una alternativa alla terapia anticoagulante, in caso di controindicazione o fallimento di questa. Quando possibile, il filtro temporaneo deve essere preferito nei pazienti in giovane età, in considerazione della possibile insorgenza di complicanze a lungo termine associate alla permanenza in sede dei filtri cavali definitivi.

Uno studio multicentrico randomizzato (21) ha posto in evidenza il fatto che i filtri cavali non controllano efficacemente la malattia tromboembolica in assenza di terapia anticoagulante associata. In questo studio la superiorità iniziale del filtro (minor eventi embolici) è risultata controbilanciata nel lungo periodo (2 anni) da una maggior incidenza di recidive trombotiche agli arti inferiori, possibilmente riferibili alla trombizzazione del filtro stesso. I filtri cavali sono dispositivi validi e semplici da impiantare, ma non rappresentano una protezione aggiuntiva nei pazienti con malattia tromboembolica che possono essere trattati efficacemente con terapia anticoagulante (50).

Raccomandazione:

I filtri cavali sono da prendere in considerazione solo in presenza di inefficacia o impossibilità della terapia anticoagulante.

In caso di pazienti con storia pregressa di malattia tromboembolica e programma di intervento chirurgico addomino-pelvico, donne gravide con TVP prossimale e rischio embolico al parto, in pazienti politraumatizzati, o casi di condizioni ad alto rischio tromboembolico in pazienti con severa ipertensione polmonare scarsamente compensata, o di trombo flottante in cava, le indicazioni andranno bilanciate individualmente. Grado C.

Valutazione costo beneficio della terapia

L’affermazione che l’ utilizzo delle EBPM possa consentire un notevole risparmio deriva dai numerosi studi (8; 51, 88) che hanno dimostrato una significativa differenza di durata di ricovero ospedaliero tra pazienti trattati con EBPM ed eparina non frazionata. Le iniziali entusiastiche aspettative sul risparmio di risorse connesso alla dimissione precoce o al trattamento completamente domiciliare che le EBPM consentivano per la facilità di somministrazioni sottocute di dosi fisse aggiustate secondo il peso e la non necessità dei controlli di laboratorio che la somministrazione endovena implicava, sono state successivamente oggetto di analisi sugli aspetti socioeconomici di tali modalità assistenziali nell’ambito della patologia tromboembolica. Una prima analisi economica è stata basata sui dati dello studio TASMAN che, condotto nelle condizioni organizzative olandesi, ha calcolato un risparmio del 64% per la gestione con EBPM rispetto alla gestione con ENF. L’utilizzo domiciliare della EBPM per il tromboembolismo venoso implica precisi criteri non solo clinici di selezione dei pazienti, un coordinamento integrato delle diverse figure professionali coinvolte (Medici di Medicina generale, laboratorio analisi, assistenza infermieristica) e la realizzabilità di un sicuro follow up, così come sollecitato dalla stessa Koopman, coautrice dello stesso studio TASMAN. Ciò implica la reale disponibilità di programmi di assistenza domiciliare il cui costo va comunque valutato sulla base delle diverse realtà locali.(12)

TROMBOSI VENOSA AXILLO-SUCCLAVIA

La trombosi venosa axillo-succlavia, o sindrome di Paget-Von Schroetter, è un’evenienza relativamente rara costituendo circa il 2% di tutte le manifestazioni trombotiche venose.

Tale limitata frequenza, rispetto all’arto inferiore, viene giustificata dalla migliore attività fibrinolitica endoteliale, dal minor numero di valvole delle vene dell’arto superiore e dal maggiore esercizio muscolare delle vene dell’arto superiore.

Lo sviluppo delle tecniche diagnostiche ed in particolare l’esame ultrasonografico (US) con prove dinamiche hanno tuttavia dimostrato che nell’80% dei casi il principale fattore etiopatogenetico è il trauma cronico da compressione estrinseca costoclavicolare.

E’ indubbia l’importanza della diagnosi precoce, sia nelle forme precliniche da compressione intermittente per adottare un corretto trattamento preventivo, sia nelle forme da trombosi acuta per limitare il rischio elevato di embolie polmonari valutato dal 12 al 17% dei casi e la comparsa di una sindrome post-trombotica più o meno gravemente invalidante che si presenta nel 60 – 85% dei pazienti non adeguatamente trattati . Altra causa di incidenza elevata si osserva nei portatori di cateteri venosi centrali (64).

La diagnosi clinica è in genere più agevole che per le trombosi venose degli arti inferiori, ma la diagnosi ultrasonografica (nelle modalità CUS e eco-color-Doppler) costituisce l’esame di prima scelta con elevati valori di sensibilità e specificità (81).

La flebografia dinamica (esame di seconda scelta) ha un ruolo di conferma diagnostica in casi dubbi o per necessità di dettaglio anatomico finalizzato ad un planning chirurgico e per monitorare l’effetto di una terapia trombolitica.

L’attuale tendenza terapeutica prevede l’uso di farmaci trombolitici in un primo tempo e la resezione della I costa ottenuta la ricanalizzazione nei casi riferibili a sindrome dello stretto toracico.

Sono proposte inoltre differenti terapie dai vari autori sulla cui efficacia sussistono tuttora controversie, non esistendo studi randomizzati che dimostrino la superiorità del trattamento litico ed endovascolare a distanza.

Trombolisi

La trombolisi viene considerata efficace se eseguita nei primi 7-8 giorni dall’insorgenza (92). Il farmaco più utilizzato è l’UK. E’ possibile infondere il farmaco nella vena afferente (trombolisi loco-regionale), oppure con cateterismo della vena ascellare all’interno del trombo (trombolisi intra-trombotica, con infusione in pompa o con tecnica pulse-spray) (74). Non esiste dimostrazione di superiorità di una tecnica rispetto all’altra; tuttavia è esperienza comune che la trombolisi intratrombotica è più rapida e più completa. E’ in genere consigliato un successivo trattamento anticoagulante per 3 mesi.

Terapia anticoagulante

Nei pazienti con trombosi da oltre 1 settimana o con controindicazioni alla fibrinolisi (come nelle trombosi associate a neoplasie), il trattamento anticoagulante (eparina seguita da anticoagulante orale) è generalmente indicato per 3 mesi. Nei pazienti con trombosi da catetere , questo va rimosso, se possibile.

Tecniche combinate e terapia chirurgica

Qualora la trombosi fosse molto estesa è possibile un trattamento combinato chirurgico, endovascolare e farmacologico (63; 49), oppure una trombolisi meccanica (44). In caso di trombosi residua si può proporre l’esecuzione di un bypass venoso quando possibile con la trasposizione di un capo della giugulare esterna (78).

In caso di trombosi secondaria a sindrome dello stretto toracico, risolto il problema venoso, può essere indicata una resezione della I costa. Residui trombotici parietali, stenosi da flebosclerosi o sepimenti intravascolari possono essere risolti per via endovascolare con PTA ed eventuale applicazione di stent (16). Prima dell’applicazione dello stent è solitamente necessario risolvere la compressione costo-clavicolare, altrimenti la pinza ossea potrebbe portare alla rottura dello stent stesso (65, 92).

La riabilitazione ed un corretto allenamento potranno sostituire l’atto chirurgico in caso di compressione lieve o di trombosi residua, ma generalmente sono indicati per riportare il paziente ed in particolare l’atleta agonista il più rapidamente possibile alla normale attività dopo l’intervento di costectomia. In ogni caso è giustificato un periodo di ginnastica rieducativa da 3 a 6 mesi secondo programmi consolidati (77).

Raccomandazioni:

  • Gli US costituiscono l’esame di prima scelta per la diagnosi di trombosi venosa axillo-succlavia Grado A
  • La flebografia trova indicazione nei casi dubbi e quando si intenda effettuare una terapia trombolitica. Lo studio dinamico dello stretto toracico va eseguito a trombosi risolta.
  • La trombolisi (loco-regionale o con cateterismo) è indicata nelle trombosi recenti (< 8 giorni) nelle seguenti situazioni: trombosi da sforzo, pazienti giovani, necessità di recupero funzionale completo dell’arto Grado C
  • Tutti i pazienti vanno sottoposti a terapia anticoagulante preferibilmente per 3 mesi Nei casi di trombosi da compressione costo-clavicolare, risolta dalla trombolisi, la terapia anticoagulante dovrebbe essere protratta fino alla risoluzione chirurgica della compressione. Grado C
  • Nelle trombosi secondarie a catetere, se possibile, esso va rimosso.

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LINEE GUIDA SULLA DIAGNOSI E TERAPIA DELLE MALATTIE DEI LINFATICI

Task Force:

G.B. Agus, C. Allegra, G. Arpaia, G. Botta, V. Gasbarro, S. Mancini

con la collaborazione di C. Campisi, G. Bianchini, A. Cataldi, F. Stillo

Legenda:

DLM: Drenaggio Linfatico Manuale

GD: Ginnastica Decongestionante

RMN/RM: Risonanza Magnetica Nucleare

TC: Tomografia Computerizzata

CONSIDERAZIONI GENERALI

Il linfedema è una malattia cronica, frustrante per il paziente e per il medico. Questa patologia è causata da un difetto del sistema linfatico a cui segue un accumulo di linfa nello spazio interstiziale, che in un primo momento si localizza prevalentemente a livello sovrafasciale e successivamente a tutto il tessuto sottocutaneo.

La prima funzione del sistema linfatico è quella di rimuovere dallo spazio interstiziale le grosse molecole, l’acqua e di permettere un tournover alle cellule del sistema linfatico (5).

L’insufficienza linfatica dal punto di vista fisiopatologico viene suddivisa in insufficienza di tipo dinamico e meccanico.

L’insufficienza dinamica (o insufficienza ad alta portata) è presente nel caso di un sistema linfatico integro che deve far fronte ad un carico proteico maggiore che supera le sue capacità di portata.

L’insufficienza meccanica (o insufficienza a bassa portata) deriva da un danno primitivo o secondario del sistema linfatico, con carico proteico normale. (25).

Le proteine stimolano l’arrivo dei mastociti e dei granulociti neutrofili istaurando un processo di granulazione aspecifico che nel tempo volgerà a fibrosi dell’interstizio con un sovvertimento strutturale (56).

EPIDEMIOLOGIA

Allo stato attuale permano difficile avere una visione chiara della diffusione del linfedema nel mondo in quanto persiste la difficoltà di avere sempre e in maniera immediata e specifica una corretta diagnosi.

Dati epidemiologici dimostrano che il linfedema è molto diffuso nei vari paesi del mondo senza grosse differenze riguardo le sue manifestazioni cliniche: un terzo della popolazione mondiale presenta uno stato di edema dei quali il più serio è il linfedema: centocinquantamilioni di casi. Di questi la maggior parte è di tipo parassitario (quarantacinquemilioni di casi), i restanti si dividono in linfedema secondari a chirurgia o a trauma (venticinquemilioni) ed i linfedema primitivi con un numero compreso tra i cinque ed i venti milioni (65; 55).

Nel mondo il rischio di infezione da filariasi con le relative conseguenze si aggira intorno ai duemiliari di soggetti (65)

In Europa la Spagna presenta un incidenza prevalente nel sesso femminile (84%) con un’età compresa tra i 45 ed i 59 anni.

La distribuzione del linfedema è rispettivamente nel 79% dei casi di tipo primario e nel 21% secondario, di cui il 76,5% dei casi di linfedema primario è sotto i 45 anni e l’80% dei casi di linfedema secondario è sopra i 45 anni. L’incidenza del linfedema secondario vede al primo posto l’ortopedia (33%9, a cui si associano i traumi (25,5%) ed i tumori (18,9%). In quest’ultimo caso, il 90% dei secondari a neoplasie è rappresentato dal linfedema post-mastectomia. Questa evenienza clinica rappresenta il 6-30 % dei linfedemi (52).

Il linfedema è localizzato nel 21,7% agli arti superiori e nel 79% arti inferiori (16). In Italia vi sono pochi dati riguardanti i linfedemi primitivi che rappresenterebbero il 30-40% del totale. I linfedemi secondari sono rappresentati per il 40% dai post-mastectomia (58; 14; 43).

Mancando a tutt’oggi dei dati aggiornati e completi riguardo l’epidemiologia del linfedema in Italia e nel mondo, la conoscenza dell’entità del problema non è definita.

PREVENZIONE

Il linfedema primario è una condizione clinica ad esordio improvviso, perciò imprevedibile. Al contrario di quello secondario, che è clinicamente ipotizzabile anche se non è possibile prevedere il momento dell’esordio.

Le proposte di prevenzione finora effettuate da vari esperti del settore in tutto il mondo, riguardano esclusivamente il linfedema secondario e sono prevalentemente indirizzate al chirurgo operatore, (tipo di incisione, tecnica chirurgica, conservazione dell’integrità delle zone di drenaggio linfatico di maggior importanza per l’arto), o all’oncologo (allestire una radioterapia moderatamente aggressiva, se possibile). Le proposte avanzate mirano ad un’analisi del sistema linfatico prima che si instauri il linfedema post-chirurgico mediante linfangiografia radioisotopica entro 2-3 mesi dall’intervento per studiare l’anatomia e la funzionalità residue dell’arto a rischio (64) e ad una prevenzione delle manifestazioni infettive (dermolinfangioadenite) mediante somministrazione di benzatin-penicillina ad vitam (49).

Attualmente la prevenzione del linfedema, nella maggior parte dei casi, viene mirata a evitare le complicanze, soprattutto infettive, ma riteniamo che debba essere soprattutto tesa a bloccarne l’evoluzione macroscopica: ovvero aumento di volume dell’arto affetto. Questo è attuabile solo se, come ufficialmente riconosciuto dal Consensus Document ISL nel 1995 (36), viene prontamente allestito e protratto nel tempo il protocollo terapeutico fisico complesso modificato secondo la clinica, con tutti gli accorgimenti consigliati al paziente, (regole di vita, ginnastica domiciliare, psicoterapia, autoterapia) in tutti i tipi di linfedema negli stadi iniziali (molle intermittente, molle remittente). Resta fermo il punto: prevenire un linfedema vuol dire evitarne l’esordio, se possibile, o bloccarne l’evoluzione. Nei casi non ancora complicati questi fini sono raggiungibili mediante una tempestività terapeutica rappresentata dalla kinesiterapia (linfodrenaggio, presso terapia), e dall’uso di materiale compressivo (bendaggi multipli, tutori elastici, calze elastiche) nonché da alcuni medicamenti ad azione linfotropa. La prevenzione secondaria dipende a sua volta dalla scelta e dalla disponibilità di kinesiterapisti esperti, dalle aspettative del paziente, dalla sua capacità di collaborazione e dai costi (37; 7; 54; 12).

Raccomandazioni

E’ importante informare il paziente sulla sua malattia e prepararlo ad affrontare in prima istanza le complicanze ed istruirlo su come prevenirle. La diagnosi e la terapia fisica precoci sono due elementi cardine da attuare nel trattamento del linfedema. La chirurgia oncologia e la radioterapia devono considerare l’eventualità dell’insorgenza di linfedema secondario – Grado C

DIAGNOSTICA CLINICA E STRUMENTALE

CLINICA

Spesso un’accurata anamnesi e l’esame obiettivo rivelano la causa dell’edema e suggeriscono la diagnosi di linfedema, con un successivo approfondimento diagnostico strumentale.

Ma sebbene l’etiologia del linfedema primitivo sia diversa da quella del linfedema secondario, il quadro clinico ed il caratteristico aspetto obiettivo della malattia sono spesso simili (32; 36).

L’anamnesi esclude la presenza di patologie di base (cardiache, nefrologiche,..) e chiarisce l’epoca, le modalità di comparsa dell’edema e l’evoluzione fino a quel momento dell’edema.

Il paziente affetto da linfedema deve essere visitato in posizione ortostatica e clinostatica. Nell’ispezione occorre valutare i caratteri cutanei, la distribuzione dell’edema, la presenza di dolore spontaneo o evocato, l’accentuazione delle pliche cutanee, la presenza di eventuale essudazione linfatica, la presenza di reticoli venosi varicosi o di varici linfatiche, di linfoadenopatie, segni di linfangite o presenza di altre lesioni dermatologiche attive o pregresse.

La palpazione valuta la presenza di dolore spontaneo o evocato, la consistenza dell’edema; si ricerca la presenza di edema, il segno di Stemmer e si misura l’arto (29)

Inoltre è importante definire i caratteri delle stazioni linfonodali esplorabili e valutare il peso e l’ltezza del paziente. Vari autori considerano dei punti chiave per la classificazione clinica del linfedema degli arti: la distribuzione temporo-spaziale e l’entità dell’edema, lo stato della cute e degli annessi, la funzionalità dell’arto, la presenza di linfangiti attuali o pregresse, e la presenza di essudazione linfatica (32).

Sono stata proposte: classificazioni eziopatogenetiche, anatomiche, funzionali e cliniche. A grandi linee i linfedema vengono suddivisi in due gruppi:

      • primitivi (per dilatazione, stenosi o aplasia dei collettori linfatici);
      • secondari che originano da lesioni estrinseche che si producono a causa di exeresi di linfonodi o di danno sui vasi linfatici.

Tanto il linfedema primitivo che secondario possono avere un evoluzione maligna.

Tra le varie classificazioni ad oggi usate vengono riportate solo alcune: criteria committee of N.Y. Heart Association (1964), classificazione di Zierman (1966), classificazione di Battezzati-Donini (1967), classificazione di Howard (1968), classificazione di Földi (1971, 1982), classificazione di cordeiro (1983), classificazione di Martorell (1972), classificazione di Hunt (1972), classificazione di Kinmonth (1982), classificazione di pietravallo (1988), classificazione operativa (Donini 1992 – modificata 1998), classificazione di Campisi (1997).

In queste queste linee guida si è data preferenza alla classificazione operativa clinico-anatomico-funzionale (Donini 1992 – modificata 1998) che inquadra il linfedema in cinque stadi clinici.

Questa classificazione nasce da in analisi critica delle varie classificazioni el linfedema dell’arto superiore e rapportando il quadro clinico al quadro istopatologico.

A questa classificazione si associa la classificazione eziopatogenetica di Battezzati-Donini modificata (Tosatti, 1967) che divide il linfedema in base al danno anatomico o funzionale del sistema linfatico in malattie della funzione collettoria, malattie da alterazione della linfogenesi e dell’assorbimento linfatico, malattie ad eziopatogenesi mista.

STRUMENTALE

Le tecniche più utilizzate attualmente nella diagnostica del linfedema degli arti inferiori sono rappresentate dalla linfoscintigrafia e dall’ecografia. Altre tecniche supplementari sono l’ecodoppler, la microlinfangiografia, la TC, la RMN, la flebografia, la biopsia linfonodale e la linfografia (le tecniche supplementari sono utilizzate in casi clinici selezionati in centri specializzati) (36)

La diagnostica del linfedema è stata rivoluzionata dall’introduzione della tecnica di Kinmonth per l’incannulazione diretta dei vasi linfatici e dallo sviluppo della radiodiagnostica con la tecnica linfoscintigrafica. (60; 39).

La linfoscintigrafia con l’utilizzo di tecnezio-99-m in forma di radiocolloide permette sia un esame morfologico che funzionale del sistema linfatico degli arti inferiori (6).

L’ecografia dei tessuti molli dimostra la presenza di linfa libera a livello sovrafasciale ed interstiziale (36; 38; 60; 8; 2; 63; 11).

Tra le tecniche di completamento ed approfondimento diagnostico eseguite presso centri specializzati Gli altri esami sono tecniche di approfondimento diagnostico in particolar modo la TC con mezzo di contrasto, la flebografia, la linfografia e la biopsia linfonodale per l’esclusione di complesse malformazioni congenite o malattie di natura neoplastica (53).

La microlinfangiografia a fluorescenza è una metodica non invasiva che attualmente permette di valutare il drenaggio linfatico spontaneo di alcune sostanze particolari iniettate a livello del derma (2)

Raccomandazione:

Esami di primo livello diagnostico: ecografia dei tessuti molli ed ecodoppler; esami di secondo livello diagnostico: linfoscintigrafia radioisotopica; esami di terzo livello diagnostico: la microlinfoscintigrafia a fluorescenza, la flebografia, la TC e la RMN ed altri esami strumentali – Grado A

TRATTAMENTO

Il trattamento del linfedema degli arti inferiori è prevalentemente conservativo, le metodiche chirurgiche vengono riservate a casi selezionati.

Trattamento conservativo

Il trattamento conservativo si divide in farmacologico e fisico-compressivo.

Il trattamento fisico-compressivo comprende varie metodiche: il Drenaggio Linfatico Manuale (DLM), la Compressione, la Pressoterapia, la Declivoterapia e la Termoterapia. (9).

La farmacoterapia prevede l’utilizzo dei benzopironi, quale la cumarina che agisce direttamene sulle fasi della flogosi, in particola modo sul macrofago accelerando se usata in maniera continua la degradazione proteica attivando l’assorbimento extralinfatico (20). I benzopironi vengono utilizzati in tutte le fasi del linfedema sia esso di natura primitiva o secondaria. Recenti studi hanno dimostrato un alta tossicità a livello epatico della cumarina sintetica ad alti dosaggi in corso di trattamento del linfedema secondario (1)

Gli antibiotici e gli antimicotici sono usati in corso di complicanze infettive, mentre viene sconsigliato l’uso dei diuretici poiché tendono a rimuovere prevalentemente la parte idrica, ma non la proteica (19).

Il trattamento fisico non dev’essere ridotto ad una sola metodica, ma dev’essere l’associazione di queste, combinate in funzione dello stadio evolutivo e della strategia del momento (23; 48).

La terapia fisica combinata viene suddivisa in due fasi: la prima fase è rivolta alla riduzione del carico linfatico interstiziale con conseguente diminuzione volumetrica dell’arto, mentre la seconda fase ha la funzione di stabilizzare ed eventualmente migliorare i risultati ottenuti. (24)

La prima fase si attua con l’associazione del drenaggio linfatico manuale, del bendaggio, di adeguati esercizi fisici e la meticolosa cura della cute. La seconda fase consiste nell’utilizzo quotidiano della calza elastica, nell’esecuzione di specifici esercizi e nella meticolosa cura della cute Alcuni autori associano alla seconda fase l’utilizzo della pressoterapia (41; 42; 24; 21)

La declivoterapia è risultata sicuramente utile nel ridurre l’edema (47).

La termoterapia molto utilizzata è tuttavia in fase di studio (31).

Raccomandazione:

E’ importante che il trattamento fisico non sia l’uso di una sola metodica, ma l’applciazione strategica delle varie metodiche decise in base ai momenti evolutivi del linfedema. Grado B

Trattamento chirurgico

Attualmente molte tecniche vengono utilizzate nel trattamento chirurgico del linfedema degli arti.

Gli interventi di tipo fisiologico o derivativo prevedono un ripristino del normale flusso linfatico attraverso la creazione di anastomosi linfatico-venose, linfatico-venoso-linfatiche, e trapianti di linfatici autologhi con anastomosi linfo-linfatica (15).

Gli interventi di tipo resettivo non seguono un principio strettamente fisiopatologico, ma si limitano alla demolizione di ampie aree di tessuto cutaneo, sottocutaneo e fasciale.

Gli interventi di tipo misto associano i due concetti, e riconoscono come capo stipite di queste metodiche l’intervento di Thompson. Tra gli Interventi di tipo Escissionale l’Intervento di Charles è risultato utile in alcuni pazienti con edema esteso non responsivo alla terapia conservativa e con gravi alterazioni trofiche cutanee (22; 61).

L’Intervento di Thompson ha visto una maggiore sperimentazione clinica con dei risultati a distanza discreti, anche se esami linfangiografici non hanno dimostrato la presenza di nuove anastomosi tra il sistema superficiale ed il profondo, ma in casi selezionati è risultato essere utile nel ridurre a distanza l’edema, anche se gravato da gravi complicanze infettive nel postoperatorio (62; 40).

L’Intervento di Homans ha dei risultati maggiori nei grossi linfedema con un recupero funzionale dell’arto nelle forme primitive, mentre nel secondario i risultati sono stati diversi in base alle diverse casistiche. (35; 57).

La Linfoliposuzione permette la rimozione di falde linfatiche con una buona diminuzione del 50% dell’edema ad un anno ed è caratterizzata, rispetto alle altre metodiche, da una minore invasività.(30).Gli interventi di tipo derivativo prevedono come tecnica capostipite la creazione di anastomosi linfatiche. Le anastomosi linfatico-venose hanno in un primo momento riscontrato gran successo nell’ambiente linfologico ma la loro efficacia a lungo termine è risultata essere dubbia, in quanto non si riesce a ben documentare la pervietà a distanza dell’anastomosi, comunque in alcune casistiche il miglioramento ad un anno è stato del 74% dei casi trattati. (66; 13)

Altre metodiche di tipo derivativo sono state in gran parte abbandonate sia per gli scarsi risultati che davano a distanza sia per le complicanze associate: l’Innesto linfatico(Baumeister,1990); la tecnica di Kinmonth o del ponte mesenterico (38); la tecnica di Goldsmith del lembo omentale (33; 46).

Raccomandazioni:

Attualmente la migliore indicazione per un intervento chirurgico di tipo escissionale è la compromissione funzionale dell’arto dovuta all’eccessivo linfedema refrattario al trattamento conservativo. I migliori risultati si sono ottenuti con l’associazione della linfoliposuzione con l’intervento di Homans modificato, benché le casistiche a livello internazionale siano esigue.

Non ci sono studi multicentrici che dimostrino la reale efficacia degli interventi derivativi.

La terapia chirurgica dev’essere eseguita in strutture altamente specializzate con esperienza specifica – Grado C

Qualità della vita

Nel nostro paese la maggior parte della terapia del linfedema è affidata alla gestione di diversi operatori medici: angiologi, medici estetici, fisiatri,chirurghi generali, vascolari, plastici, microchirurghi che sono portati a vedere il problema ognuno dalla propria angolazione. Ciò produce un confuso approccio terapeutico e quindi una non buona qualità di vita. Il linfedema primario e, tra i secondari, i linfedemi conseguenti a trattamenti chirurgici per cancro, soprattutto della mammella, rappresentano delle condizioni di riferimento per comprenderne le ripercussioni sulla qualità di vita del paziente (18). Recenti indagini in proposito concordano sul fatto che il paziente è più preoccupato della differenza di volume tra i due arti che non della sintomatologia. (10).

Inoltre è l’edema della mano che in maggior misura aggrava psicologicamente la paziente rispetto all’edema dell’intero braccio suscettibile di essere “nascosto”.

Nel corso di linfedema post-mastectomia l’arto gonfio può rappresentare una vera e propria disabilità sia per movimenti macroscopici come lavarsi, pettinarsi, indossare una camicia, lavare i piatti, sia per azioni più fini come allacciarsi una collana o scrivere, sia per altre attività od hobbies come stirare, trasportare pesi, praticare il giardinaggio, etc.

La qualità di vita del paziente con linfedema dipende da una diagnosi precoce, dall’informazione e da una terapia il più adeguata possibile alle sue esigenze. L’assenza di centri dedicati al trattamento del linfedema, la scarsità delle scuole e dei corsi di preparazione in campo linfologico, l’alto costo delle terapie e la loro durata “ad vitam”e condizioni specifiche, rappresentate essenzialmente dalla compliance del paziente, rendono difficoltoso perseguire buoni risultati.

E’ possibile affermare che l’approvazione e la consapevolezza del paziente rappresentano circa il 40% del successo della strategia terapeutica. Il danno estetico (asimmetria degli arti), il danno funzionale (inadeguatezza o perdita di alcune funzioni ) e l’alterazione della vita di relazione ( imbarazzo nel rapporto col proprio partner o nell’ambiente di lavoro) rappresentano i cardini della reazione emotiva alla malattia.

L’accettazione del trattamento nelle sue varie proposte rimane a volte un ostacolo per il linfologo: il DLM e la PT sono i trattamenti preferiti nonostante debbano essere effettuati a cadenza costante; al contrario il bendaggio o la compressione, insostituibili se ben allestiti ed adeguatamente indossati mal tollerati e mal accettati per l’aggravio estetico, perché costringono il paziente a rendere evidente la malattia e per la necessità di essere indossati quotidianamente sia durante il riposo che nella pratica di esercizi specifici (ginnastica decongestionante). Nella compliance del paziente con linfedema riveste un ruolo fondamentale l’ambiente sociale e familiare che circonda il malato. Il sostegno psicologico e la sollecitazione all’autoterapia da parte dei parenti devono associarsi alla partecipazione attiva alla cura dell’arto malato (DLM, bendaggio, assistenza alla GD) da sotto la guida e l’insegnamento del medico linfologo. (17, 1997; 48; 3; 10)

Raccomandazioni:

La diagnosi di linfedema deve essere il più possibile precoce e considerare i fattori patogenetici che lo hanno determinato.

E’ necessario verificare se sianio stati effettuati trattamenti adeguati in precedenza.

E’ consigliabile una strategia terapeutica mirata e personalizzata allo stadio clinico e alle esigenze del paziente – Grado B

Malformazioni linfatiche

Le malformazioni congenite del sistema linfatico hanno un’incidenza relativamente più bassa nella popolazione, ma costituiscono patologie gravemente invalidanti in quanto producono disordini funzionali ed estetici di grado severo.

Si tratta di malformazioni congenite del sistema linfatico caratterizzate da anomalie disembriogenetiche dei capillari linfatici tissutali o dei principali collettori linfatici degli arti, del capo e del tronco (51).

Si registra una netta prevalenza delle localizzazioni periferiche, soprattutto nel distretto degli arti inferiori, ma si osservano anche forme cervico-facciali, toraciche e pelviche (4, 51).

In base al distretto dell’albero circolatorio linfatico che è prevalentemente interessato, è utile fare riferimento ad una classificazione anatomo-patologica che distingue forme capillari e forme tronculari (Tab. 1).

Tabella 1: Classificazione anatomo-clinica delle malformazioni linfatiche

Malformazioni dei capillari linfaticiLinfangiomi tissutali diffusi
Linfangiomi microcistici
Malformazioni dei collettori linfaticiIgromi cistici
Linfedemi congeniti

Le malformazioni dei capillari linfatici sono note comunemente come linfangiomi.

I linfangiomi sono caratterizzati dalla presenza nella cute, nelle mucose o nei tessuti molli sottostanti di una fitta rete di vasi linfatici microscopici. Le loro dimensioni sono estremamente variabili, da quelle di un piccolo nodulo a quelle di una voluminosa massa tumorale. Le localizzazioni più frequenti sono quelle cranio-facciali (soprattutto linguali e palpebrali), al cavo ascellare ed alla regione inguinale (50). In alcuni casi mostrano un aspetto infiltrativo diffuso (linfangiomi tissutali diffusi), in altri casi presentano una struttura microcistica con le caratteristiche vescicole linfatiche (linfangiomi microcistici).

Le malformazioni dei collettori linfatici sono rappresentate da varie anomalie congenite a carico di tronchi linfatici di medio e grosso calibro.

Gli igromi cistici sono costituiti dall’abnorme dilatazione con ectasia sacciforme di grossi collettori o cisterne di raccolta nelle principali stazioni di drenaggio del sistema linfatico: le sedi anatomiche caratteristiche sono in regione masseterina, sottomandibolare, latero-cervicale, ascellare ed inguinale (28). Raramente si riscontrano forme mediastiniche, che possono complicarsi con la compressione di strutture anatomiche vitali quali la trachea e le vene centrali.

I linfedemi congeniti sono caratterizzati da un’edema massivo ingravescente a carico di un arto causato dall’ipoplasia o dall’agenesia dei principali tronchi linfatici periferici con conseguente ostacolo al deflusso e stasi linfatica nel compartimento interstiziale dei tessuti.

Si possono inoltre distinguere schematicamente malformazioni linfatiche pure, caratterizzate da alterazioni isolate dei vasi linfatici, e forme miste linfatico-venose, in cui si osserva la coesistenza di anomalie congenite del circolo linfatico e del sistema venoso superficiale e/o profondo.

La storia naturale delle malformazioni linfatiche è estremamente variabile.

I linfangiomi e gli igromi cistici sono in genere già presenti alla nascita e manifestano la tendenza ad un graduale accrescimento nel corso degli anni, con pousseés evolutive legate a vari fattori (ormonali, traumatici, infettivi). In alcuni casi si osserva una involuzione progressiva della massa o della sacca linfatica dopo la pubertà.

I linfedemi congeniti si manifestano più spesso alla nascita, nell’infanzia o nell’adolescenza, ma possono talora rendersi evidenti soltanto in età adulta. L’evoluzione è lentamente ingravescente.

Le complicazioni più frequenti sono in genere di carattere locale (Tab. II).

Tabella II: Complicazioni delle malformazioni linfatiche

LinfangiomiLinforragie
Necrosi cutanee
Igromi cisticiEmorragia intracistica
Infezione
Compressione di organi vitali
Linfedemi congenitiLinfangiti
Pachidermia
Ulcerazioni cutanee

Quadro clinico

Il quadro clinico delle malformazioni linfatiche è strettamente correlato al tipo e alla gravità delle anomalie anatomiche presenti nonchè alla regione corporea interessata.

I linfangiomi si manifestano nelle localizzazioni superficiali come tumefazioni sottocutanee o chiazze cutanee rilevate di colorito biancastro, a superficie irregolare e verrucosa.

Nelle forme microcistiche è frequente il riscontro di caratteristiche microvescicole traslucide contenenti un liquido sieroso. Si associano spesso lesioni cutanee di tipo distrofico.

Gli igromi cistici si presentano come voluminose tumefazioni sottocutanee di consistenza molle e spugnosa, fluttuanti, moderatamente espansibili alle manovre antigravitarie, non pulsanti. Quando si complicano con una emorragia intracistica possono assumere una consistenza dura ed un colorito bluastro, che possono porre problemi di diagnosi differenziale.

I linfedemi congeniti si manifestano col progressivo aumento di dimensioni di un arto, a carattere lentamente ingravescente. Si distinguono forme sporadiche e forme familiari. Interessano tipicamente gli arti inferiori, ma colpiscono con minore frequenza anche gli arti superiori. Possono essere unilaterali o bilaterali.

L’edema linfatico è tipicamente pastoso nelle fasi iniziali della malattia ma diventa progressivamente duro e fibroso, si caratterizza per l’interessamento massivo dell’arto con massima evidenza nelle regioni acrali e manifesta una scarsa reversibilità al sollevamento dell’arto stesso. Nelle fasi avanzate possono evidenziarsi varie complicazioni: lesioni cutanee di tipo ipertrofico con verrucosi e pachidermia, eczemi e linfangiti essudative.

Diagnosi

Il protocollo diagnostico delle malformazioni linfatiche include l’ecocolordoppler, la risonanza magnetica (RM), la linfografia e la linfoscintigrafia (26). Le indicazioni e la forza relativa delle raccomandazione nelle varie forme di malformazioni linfatiche possono essere schematizzate in una tabella di riferimento (Tab. III).

Tabella III: Appoccio diagnostico al paziente con malformazione linfatica

LinfangiomaEcocolordoppler (++) RM o TC (+++)
Igroma cisticoEcocolordoppler (+++) RM o TC (+++) Linfografia diretta (++++)
Linfedema congenitoLinfografia ascendente (++) Linfoscintigrafia (++++) Ecocolordoppler (+)

L’esame ecocolordoppler deve innanzitutto escludere la presenza di alterazioni del circolo arterioso e venoso, confermando il sospetto clinico di malformazione vascolare di tipo linfatico.

Nei linfangiomi si evidenzia generalmente un notevole ispessimento dei tegumenti nel cui contesto si riscontrano piccole cavità con segnale ecogenico di tipo fluido, scarsamente compressibili con la sonda, in assenza di flusso dimostrabile all’esame doppler.

Gli igromi cistici mostrano all’esame ecografico l’aspetto di voluminose formazioni espansive a contenuto liquido, di dimensioni estensione variabili, unicamerali ma più spesso polilobulate, con pareti spesse ed iperecogene, in cui l’analisi flussimetrica mediante colordoppler non evidenzia flusso ematico nè di tipo arterioso nè di tipo venoso.

Nei linfedemi l’ecocolordoppler non offre informazioni dirette significative sulle alterazioni del sistema linfatico ma consente uno studio accurato del circolo venoso superficiale e profondo, evidenziando l’eventuale associazione di un’insufficienza venosa congenita o secondaria.

La risonanza magnetica permette di valutare l’estensione, le dimensioni e i rapporti anatomici delle malformazioni linfatiche localizzate (27).

La linfografia per puntura diretta della cisterna linfatica è un esame indispensabile negli igromi cistici per ottenere uno studio morfologico della sacca ma soprattutto per eseguire una procedura di scleroembolizzazione percutanea.

La linfografia ascendente, eseguita incannulando un collettore linfatico del piede, è utile nei linfedemi congeniti per studiare l’anatomia della circolazione linfatica dell’arto.

La linfoscintigrafia viene eseguita iniettando albumina radiomarcata nel tessuto sottocutaneo del piede: è molto usata per lo studio del drenaggio linfatico nei linfedemi periferici in quanto consente di evidenziare e localizzare ostruzioni, ipoplasie, atresie di collettori linfatici in maniera poco invasiva.

Terapia

La strategia terapeutica è subordinata ad un’accurata valutazione diagnostica preoperatoria ed è principalmente correlata al tipo di malformazione linfatica, alle sue dimensioni, alla sede anatomica (45).

L’atteggiamento terapeutico dev’essere il più possibile conservativo, in quanto l’asportazione chirurgica delle malformazioni linfatiche è gravata da un’alta incidenza di recidive e da sequele estetiche spesso inaccettabili.

Le opzioni terapeutiche e la rispettiva forza delle raccomandazioni nei vari tipi di malformazione linfatica possono essere riassunti in uno schema di riferimento (Tab. IV).

Tabella IV: Condotta terapeutica nel paziente con malformazione linfatica

Linfangioma tissutale microcisticoSclerosi percutanea (+++) Chirurgia (+)
Linfangioma tissutale diffusoChirurgia (++)
Igroma cisticoScleroembolizzazione (++++)
Linfedema congenitoChirurgia (++)

La scleroterapia percutanea costituisce attualmente il trattamento di prima scelta nei linfangiomi tissutali microcistici e soprattutto negli igromi cistici, in quanto consente di ottenere in maniera non invasiva ottimi risultati clinici con la regressione completa delle vescicole o delle cisterne linfatiche. Le dimensioni della lesione orientano la scelta del mezzo sclerosante: nei linfangiomi e negli igromi cistici di piccolo calibro si preferisce l’uso del polidocanolo, laddove in presenza di voluminose sacche linfatiche è necessario ricorrere all’etanolo, all’ethibloc o al picibanil (44, 59, 34).

L’iniezione dell’agente sclerosante dev’essere sempre seguita da un’adeguata compressione selettiva loco-regionale, in particolar modo nelle forme lacunari di grosse dimensioni.

La chirurgia trova indicazione nelle forme tissutali diffuse con carattere evolutivo e nelle forme periferiche localizzate, in cui l’asportazione chirurgica radicale può essere eseguita senza esiti esteticamente deturpanti o funzionalmente invalidanti.

Nei linfedemi in fase avanzata con gigantismo di un arto è possibile eseguire interventi di cutolipofascectomia, che consentono al paziente di recuperare la funzione motoria altrimenti compromessa.

I risultati dei vari interventi di ricostruzione del sistema linfatico proposti negli ultimi anni, quali le anastomosi linfatico-venose, non sono sufficientemente favorevoli da indurre ad un uso routinario di tali procedure.

In casi selezionati può essere utile anche nelle malformazioni linfatiche il ricorso ad una terapia combinata, associando procedure chirurgiche e scleroterapiche per ottenere migliori risultati funzionali ed estetici.

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